International Busines Time ed. Italiana, di Emanuele Vena - 24 luglio 2015
In Afghanistan la vittoria dei talebani si avvicina. È questo lo scenario che si presenta a metà del 2015, con le forze di sicurezza nazionali impegnate ormai soprattutto nel tentativo di “mantenere la situazione di stallo”, limitando le perdite e preservando posizioni simboliche nei vari distretti.
Sembrano quindi assolutamente insufficienti i rinforzi inviati nel Paese da Obama, prima di procedere ad un graduale quanto definitivo ritiro delle truppe statunitensi. E così, anziché creare i presupposti per la vittoria, l’inefficacia del nuovo impegno a stelle e strisce rischia di rendere ancora più inquietante lo scenario che verrà a configurarsi dopo il loro rientro in patria. Una situazione tale da produrre oltre 4 mila morti tra soldati ed agenti di polizia e più di 7 mila feriti nel solo primo semestre del 2015, con un aumento del numero di incidenti del 50% rispetto alla prima metà del 2014, accrescendo i numeri di un bilancio peraltro considerato già da tempo “insostenibile”.
Tra i problemi principali c’è sicuramente un alto tasso di diserzione, che ha colpito le forze di sicurezza afghane, un problema spesso affrontato mantenendo forzatamente in prima linea i soldati, negando loro licenze di rientro a casa e contribuendo ad accrescerne il malumore. E così, secondo quanto dichiarato dai comandanti dell’esercito e dai responsabili governativi regionali, l’obiettivo nominale di mantenere una “presenza attiva” in tutte le città si scontra con una realtà drammatica rappresentata da una presenza consolidata – ed in costante crescita – da parte dei talebani in gran parte dei distretti, con una sempre maggiore libertà di movimento e di possibilità di compiere attentati. Una situazione definita da veterani afghani come una sorta di “difesa passiva”, che contribuisce a minare alla base la fiducia delle forze di sicurezza e dell’opinione pubblica locale.
Non va meglio nemmeno alle stesse truppe statunitensi, stimate in circa 10 mila uomini che, dinanzi alle pecche strategiche – denunciate anche dagli stessi ufficiali dell’intelligence a stelle strisce – ed all’avanzata sia dei talebani che dell’immancabile Stato Islamico, hanno dichiarato di “sentirsi abbandonate” e di aspettare solo un cenno da parte delle istituzioni per “staccare la spina”. Una situazione di sfiducia collettiva che porta anche ad eventi gravi nonché imbarazzanti, come la morte di almeno 8 soldati afghani, uccisi da “fuoco amico” statunitense durante un bombardamento nella provincia di Logar, a sud di Kabul.
Ma mentre il Generale John Campbell – comandante in capo delle truppe statunitensi in Afghanistan – annuncia che oltre il 90% delle vittime civili sono causate dall’offensiva dei talebani, esortando nel contempo la popolazione locale a mobilitarsi ulteriormente contro i ribelli, restano evidenti i risultati fallimentari dell’azione della NATO nel Paese, con una presenza passata da oltre 150 mila militari a poco più di 13 mila, simbolo – secondo l’avvocato afghano Mohammed Kabir Ranjbar – della sottovalutazione da parte dell’Alleanza Atlantica del problema rappresentato dai fondamentalisti, fallendo nella costruzione di un solido governo locale e fissando obiettivi eccessivamente ambiziosi in rapporto allo sforzo profuso.
E così, mentre l’apertura da parte del redivivo Mullah Omar ad un dialogo tra talebani e governo per facilitare un percorso di pace e riconciliazione “guidato dagli afghani” e “ponendo fine all’occupazione straniera” sembra aprire nuovi scenari – anche in virtù della massiccia propaganda di delegittimazione dei talebani portata avanti dallo Stato Islamico – la fine della missione internazionale (prevista al massimo entro la fine del 2016) si avvicina. Col rischio di lasciare il Paese in una situazione caotica non dissimile da quella attuale dell’Iraq.