UIKI Onlus, 2 ottobre 2022
Abbiamo incontrato Yilmaz Orkan, responsabile dell’Ufficio Informazione Kurdistan in Italia, per un chiarimento su alcuni recenti avvenimenti che hanno interessato il popolo curdo.
Intervista a cura di Gianni Sartori
UIKI Onlus, 2 ottobre 2022
Abbiamo incontrato Yilmaz Orkan, responsabile dell’Ufficio Informazione Kurdistan in Italia, per un chiarimento su alcuni recenti avvenimenti che hanno interessato il popolo curdo.
Intervista a cura di Gianni Sartori
La svolta, 3 ottobre 2022, di Chiara Manetti
Dopo l’attentato di venerdì in un’aula studio di Kabul, in cui hanno perso la vita almeno 49 persone, perlopiù studentesse, i fondamentalisti islamici hanno soffocato con la violenza le ribellioni femminili.
Picchiate, ferite, umiliate, disperse con lo spray al peperoncino. Non lascia spazio a equivoci il trattamento riservato alle donne afghane da parte dei talebani durante le proteste contro l’attacco che venerdì ha ucciso decine di studentesse: il dissenso va zittito, anche ricorrendo alla violenza.
UIKI Onlus, 27 settembre 2022
Duran Kalkan ha affermato che “o finisce il mondo o il capitalismo si ferma. Non ci si può aspettare che il capitalismo risolva le sue contraddizioni”. Duran Kalkan, del Comitato Esecutivo del PKK, ha scritto in un testo pubblicato sul sito web del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) che “o finisce il mondo o il capitalismo si ferma” e ha aggiunto che “non ci si può aspettare che il capitalismo risolva le sue contraddizioni”.
O finisce il mondo o si ferma il capitalismo
Quando non ci sono state rivoluzioni europee dopo la rivoluzione russa, furono sviluppate teorie come “socialismo in un paese, comunismo in un paese e periodi di depressione nel mezzo”.
Rêber Apo [Abdullah Öcalan] si riferisce a questa fase come ‘il periodo canceroso del capitalismo’. In altre parole, capitalismo significa consumo della natura, della società e dell’individuo.
A quel punto, o il mondo finirà, tutto sarà distrutto, o il capitalismo si fermerà. Proprio come la forma di sfruttamento è stata indebolita da vari pensieri, religioni, mitologia, scienza, filosofia e moralità dai tempi dei Sumeri, ci sarà uno sviluppo rivoluzionario che fermerà e porrà fine al capitalismo. Questa è la rivoluzione; questa è l’essenza del socialismo».
L’età della rivoluzione democratica
Duran Kalkan parla di una prospettiva rivoluzionaria: “Se i rivoluzionari mostrano la strada e riescono a fare una rivoluzione, è possibile risolvere i problemi e le contraddizioni che hanno portato a questa guerra. Non c’è altro modo. La rivoluzione mondiale in realtà dipende dalla rivoluzione in Kurdistan. Rêber Apo ha creato una nuova teoria della rivoluzione e ha mostrato la linea ideologico-politica. Ha sviluppato il loro programma, strategia e tattica. Ha definito una nuova concezione della rivoluzione.
Non ci si può aspettare che il capitalismo risolva le sue contraddizioni
Il cambio di paradigma sviluppato da Rêber Apo mostra ciò che è vero e reale. Non ci si può aspettare che il capitalismo ammorbidisca e risolva le proprie contraddizioni. Non esiste pace o libertà dal conflitto nel capitalismo. È uno stato costante di contraddizione, conflitto, crisi e caos. O il pensiero, la moralità, la politica, l’organizzazione e l’azione si evolveranno per rovesciare, tenere a freno e fermare il capitalismo – e questo significa socialismo – o il capitalismo distruggerà davvero questo mondo”.
I socialisti devono avere il coraggio di guardare in modo critico e autocritico alla loro storia
Duran Kalkan vede una lunga continuità nella consapevolezza del potenziale distruttivo del sistema: “A questo proposito, il fatto che i grandi pensatori liberali della storia abbiano richiamato l’attenzione su questo pericolo non deve essere considerato una fantasia o uno spauracchio. Piuttosto, è una situazione che ha a che fare con il senso profondo della vita, la sua definizione e comprensione. I pensatori liberali lo hanno previsto in quasi tutte le epoche. L’hai visto anche in relazione al socialismo quando hanno detto “O socialismo o annientamento”. Ma il socialismo non poteva fare i passi necessari in tempo, non poteva avere successo.
Chi agisce in nome del socialismo deve analizzare molto bene gli ultimi duecento anni di storia. Devono portare alla luce la verità raccogliendo la forza e il coraggio per essere critici e autocritici e liberarsi dalla prepotenza, dagli stereotipi o dall’insicurezza”.
L’era delle rivoluzioni nazionali, del nazionalismo e del repubblicanesimo è finita
Duran Kalkan sottolinea che nessuno dei blocchi di potere in conflitto offre una soluzione, quindi è necessaria una terza posizione: “Il terzo settore, dalla parte degli oppressi, deve trovare una soluzione attraverso la rivoluzione. Come faremo una rivoluzione che salverà umanità e popoli dalla piaga del capitalismo e del fascismo? Questa è la domanda di cui dobbiamo occuparci. Dobbiamo concentrarci su questa domanda e darle la massima importanza. La questione non è solo la questione curda. Il problema non è solo la questione della rivoluzione della libertà in Kurdistan, è la questione della rivoluzione in Medio Oriente, la questione della rivoluzione dell’umanità libera. C’è una situazione rivoluzionaria in Kurdistan che è strettamente intrecciata con la rivoluzione mondiale e la rivoluzione in Medio Oriente. La rivoluzione non ha più una dimensione nazionale o nazionale. Sì, ci muoviamo in uno spazio all’interno di una società, ma l’età non è più l’età delle rivoluzioni nazionali. L’era del nazionalismo e del repubblicanesimo è finita. Rêber Apo ha parlato dell’era della repubblica democratica, della rivoluzione democratica.
La nazione dell’attitudine è globale
La rivoluzione democratica, ovviamente, si sviluppa in un settore all’interno di una società, ma non è una rivoluzione locale. Non è una rivoluzione limitata a una nazione. Abbiamo chiamato questa rivoluzione la ‘rivoluzione della nazione democratica’ e Rêber Apo ha parlato di una ‘nazione di atteggiamento’. Non è una nazione limitata all’etnia, al paese e alla lingua. È regionale e globale.
Dogmatismo e formalismo significano restare indietro nella storia
Non si tratta solo di risolvere la questione curda. È un problema di proporzioni globali. È necessario capirlo e agire di conseguenza. Ecco come dovremmo guardare alla rivoluzione. A questo punto è importante superare la chiusura mentale. Dobbiamo dare il giusto significato a ciò che sperimentiamo. Se non lo capiamo bene, non possiamo vivere la vita e non possiamo trovare una via d’uscita. Non possiamo vivere e apparire come se non fossimo morti, non possiamo vivere una nuova situazione e valutarla da vecchie prospettive. Questo è dogmatismo e formalismo. Ciò significa rimanere indietro nella storia”.
dal blog di Enrico Campofreda, 30 settembre 2022
Una mattina d’esame, la tensione della prova, ma anche la gioia dell’incontro con amici e colleghi d’un percorso difficile, non solo per le materie. Per il luogo. Per l’aria che tira. L’esame si tiene a Kabul, nel quartiere di Dasht-e-Barchi dove gli hazara vivono e troppo spesso muoiono. Per camion-bomba, per kamikaze che ti camminano al fianco e in certe circostanze si fanno esplodere. Da cinque anni, da quando l’Isis-Khorasan s’è organizzato contro tutti e tutto, è tornata anche l’immolazione del miliziano che deflagra assieme alle sue vittime. Non li fermava la presenza della Nato, non li fermano i talebani, con cui hanno battagliato a distanza dal 2017 attorno all’esplosione più fragorosa, all’attentato più eclatante per mostrare chi è il più abile. Da quando gli studenti coranici hanno preso il potere questa furia distruttiva non è diminuita. Anzi. Iniziava già un anno fa con un centinaio di vittime durante il “passaggio di consegne” fra reparti dei marines che dirigevano la fuga della disperazione all’aeroporto Karzai e i talebani dell’accordo di Doha che s’insediavano nei palazzi del governo. I dissenzienti fra loro, da tempo carne delle milizie del Khorasan, storcevano il naso e preparavano gli ordigni. Ne hanno fatti brillare decine con cadenza mensile, talvolta settimanale, allungando la scia di sangue nelle strade, moschee, scuole, mercati ovunque la popolazione deve aver paura di circolare. Stamane si contano 32 morti e un’infinità di feriti. “L’attacco a obiettivi civili è l’ennesima prova dell’inumana crudeltà e dell’assenza di valori morali” ha affermato il portavoce della polizia dell’Emirato afghano Khalid Zadran, riferendosi all’attentato. Sono giovani e adulti, uomini e donne - prevalentemente studenti di etnìa hazara. Erano riuniti per una prova d’esame in una scuola privata della capitale che li preparava all’ingresso all’università. L’affanno dei loro familiari sta nel cercare segnali sull’accaduto, agognando segni di vita. La speranza è flebile ma resiste, quando si corre verso i pochi ospedali, sempre gli stessi: Emergency, Médecins sans Frontières, si sta appesi a voci che circolano. Che vanno dallo scampato pericolo, cui sebbene abituati non ci si abitua mai, alla disperazione dell’apprendere che uno dei figli è diventato un martire. Proprio come chi lo ha ucciso. Nessun martirio risulta più straziante di quello scelto da un destino manovrato da chi pianifica morte.
Dal blog di Enrico Campofreda, 27 settembre 2022
Quanta polvere respirano a cinque, otto, dodici anni i piccoli fornaciai di Kabul? Molta più di quanto ne incamerano girando per le insicure vie della capitale, dove le strade asfaltate restano sempre poche rispetto a quel che non s’è fatto per decenni e davanti al crescente insediamento urbano. C’è chi fugge dai talebani, ma per andar dove? Restare in città significa avere qualche possibilità di racimolare cibo, pur davanti all’angosciante e pilotata crisi alimentare. I baby fornaciai, fotografati in un servizio dell’Associated Press, erano una realtà presente da tempo, sono semplicemente aumentati col dramma delle difficoltà economiche seguite non tanto al ritiro delle truppe Nato, quanto al congelamento dei fondi di sostegno che annualmente giungevano nel Paese. Se ne discute da mesi, di recente qualche segnale di sblocco appare all’orizzonte. Intanto i piccoli lavoratori del fango e della terra hanno lavorato per tutta l’estate nella fabbrica a cielo aperto poco a nord della capitale e proseguiranno finché il meteo lo permetterà. I loro genitori non solo permettono, ma sperano che la faccenda proseguirà per incamerare i pochi, maledetti dollari che servono alle casse familiari. I bambini presiedono sotto la supervisione di alcuni adulti tutto il ciclo produttivo, non vengono esentati dai lavori di fatica. Anzi. Trainare recipienti d’acqua necessari a impastare la terra, sollevare cesti di carbone per il fuoco è un compito che non li esclude. Come trasportare le pesanti forme alle fornaci per la cottura.
Carriola dopo carriola, i manufatti fangosi prendono forma e poi consistenza con la cottura, operazioni ovviamente pericolose oltre che gravose per corpi infantili. Eppure chi li vede all’opera ne sottolinea precisione, pazienza, determinazione qualità da uomini e donne fatte, messe in atto da chi dovrebbe studiare e giocare con gli aquiloni. Per ciascuno giochi pochi e scuola altrettanto. Chi non c’è mai stato, chi l’ha interrotta e vorrebbe riprenderla. Tutti sperano in tempi migliori. Anche perché quei corpicini, soggiogati da pesi e fatica, si fermano dopo ben dieci ore. Dieci ore di dolore. Il panorama in cui si muovono è tetro, sterile, senza vegetazione, solo pietre, fango e mattoni creati dalle fornaci a portata di casa. Lì si susseguono le ventiquattr’ore, perché attorno ci sono i poveri tuguri dove la famiglia vive. I genitori non sono mostri, sono disperati. Alcuni ammettono l’infame condizione, penserebbero anche all’istruzione dei ragazzi ma sopravvivere è il primo passo. Ogni capo famiglia pensa di abbandonare quel luogo e quel lavoro, cercare altro, migliorare. Ma non ora. Ora è impossibile perché non c’è niente attorno e pure a centinaia di chilometri. Quattro dollari per mille mattoni, che un adulto, pure forte e abile, non riesce a produrre. Ci si avvicina: novecento, ma non raggiunge la fatidica cifra, senza la quale non scatta la paga. Se invece ad aiutarlo c’è la prole, i mille mattoni possono salire di numero e diventare addirittura millecinque. E per quel giorno si può mangiare.
La vicenda di Haji Bashir Noorzai, liberato dalla giustizia americana e barattato con l’ingegnere-contractor statunitense Mark Frerichs, che era detenuto a Kabul, ha diversi risvolti
Enrico Campofreda, dal suo blog, 20 settembre 2022
La vicenda di Haji Bashir Noorzai liberato dalla giustizia americana e barattato con l’ingegnere-contractor statunitense Mark Frerichs, che era detenuto a Kabul, ha diversi risvolti. Il primo, più evidente, lo scambio ufficiale di prigionieri fra le due nazioni, e di fatto un riconoscimento da parte americana dell’autorità talebana. In realtà tutto ciò avveniva anche durante il conflitto fra US Army e insorgenza dei turbanti. Tre presidenti statunitensi (Obama, Trump, Biden) dal 2009 al 2021, in più riprese, hanno colloquiato coi nemici e infine stabilito accordi per l’evacuazione militare dal Paese.
Questa mossa, sebbene non sia ampiamente diffusa dai media rispetto alla sicuramente più grave coercizione femminile, sancisce il rafforzamento della linea del confronto, condotta dalla fazione moderata dei talebani di governo. Lo sottolinea con enfasi uno dei suoi esponenti: il ministro degli Esteri Muttaqi.
Restano al palo i duri di Kandahar e il clan Haqqani che non s’è proprio curato della faccenda, forse per rispetto al passato di Noorzai, che, come vedremo, ha a che fare con le origini del movimento degli studenti coranici.
Certo, l’amministrazione Biden non può continuare a rilanciare il veto politico-economico sull’Emirato nel momento in cui gli Stati Uniti stabiliscono accordi diplomatici coi nemici d’un ventennio che loro stessi hanno deciso di chiudere. E con fretta estrema. Anche la questione del blocco dei miliardi afghani congelati nelle banche occidentali sta prendendo una via di soluzione, per quanto univoca perché quei 3.5 miliardi finora dirottati verso un fondo svizzero per essere destinati all’emergenza umanitaria non giungono nelle mani dell’Emirato, cosa che non piace anche ai turbanti del dialogo. Sono i ‘giri di valzer’ tipici di tutti gli inquilini della Casa Bianca che fanno e non fanno, fanno e negano, fanno in via riservata o palesemente segreta, perché agli occhi degli elettori vogliono sempre mostrarsi come gli “eroi senza macchia” esaltati dalla propria propaganda.
Il racconto che accompagna il servizio fotografico di AP che documenta il lavoro massacrante dei bambini nelle fornaci di mattoni afghane
Ebrahim Noroozi, AP, 23 settembre 2022
Nabila lavora 10 ore o più al giorno, facendo il lavoro pesante e sporco di impacchettare il fango negli stampi e di trasportare carriole piene di mattoni. A 12 anni, ha lavorato in fabbriche di mattoni per metà della sua vita, ed è probabilmente la più anziana di tutte le sue colleghe.
Già alto, il numero di bambini messi a lavorare in Afghanistan è in crescita, alimentato dal crollo dell'economia dopo che i talebani hanno preso il controllo del Paese e il mondo ha interrotto gli aiuti finanziari poco più di un anno fa.
Un recente sondaggio di Save the Children ha stimato che metà delle famiglie del paese hanno messo i bambini a lavorare per mantenere la possibilità di avere cibo in tavola mentre i mezzi di sussistenza si sgretolavano.
In nessun luogo ciò è più chiaro che nelle numerose fabbriche di mattoni sull'autostrada a nord della capitale, Kabul. Le condizioni nelle fornaci sono dure anche per gli adulti, ma in quasi tutte si trovano bambini di quattro o cinque anni che lavorano insieme alle loro famiglie dalle prime ore del mattino fino al buio nella calura estiva.
I bambini partecipano a ogni fase del processo di fabbricazione dei mattoni: trasportano taniche d'acqua, portano gli stampi di legno pieni di fango per farli asciugare al sole, caricano e spingono le carriole piene di mattoni secchi nel forno per la cottura, quindi riportano le carriole piene di mattoni cotti. Selezionano il carbone fumante che è stato bruciato nella fornace alla ricerca di pezzi ancora utilizzabili, inalando la fuliggine e bruciandosi le dita.
“Le proteste in Iran sono una rivolta per responsabilizzare lo Stato. Gli slogan cantati durante le proteste, così come il motto jin jiyan azadi, sono stati ispirati dalle idee e dalla filosofia del leader curdo Abdullah Öcalan”
ANF, 22 settembre 2022
La copresidente del Kurdistan Free Life Party (PJAK)*, Zîlan Vejîn, ha parlato con l'ANF (v. il video) dell'omicidio della donna curda di 22 anni, Jina Mahsa Amini, da parte della polizia morale a Teheran e delle azioni di protesta conseguenti. Ha dichiarato che la rivolta popolare che ne è seguita è "una rivolta per chiedere conto delle sue responsabilità allo Stato e al sistema politico iraniano”.
“La rivolta in Iran è iniziata dopo l'omicidio di Amini. Questa è stata l'ultima goccia per i popoli dell'Iran. La rivolta è nata per una specifica donna curda ma riguarda tutte le donne. È un avvertimento che né le donne curde, né il popolo iraniano accettano questo sistema”, ha detto Vêjîn.
Ha sottolineato l'importanza della lotta delle donne nella situazione attuale: “La lotta delle donne non è una lotta locale, è una lotta globale. Questo spirito di libertà non è limitato a una regione, un quartiere o una città, ogni donna lo sta sperimentando ora”.
Vejin ha stigmatizzato le politiche omicide e sessiste dello stato iraniano nei confronti delle donne e dei popoli, dicendo: "Questa rivolta, condotta sotto la guida delle donne, è una rivolta abbracciata da tutti i popoli curdi e iraniani per sostenere che questo stato, il suo sistema politico e le sue leggi sono responsabili. L'intero sistema politico finirà per essere messo in pericolo, senza alcuna legittimità di sopravvivenza, se le donne si ribellano".
Ha anche richiamato l'attenzione sugli slogan cantati durante le proteste in corso nel Kurdistan orientale e in Iran. "La liberazione delle donne e la democratizzazione dell'Iran, così come il motto 'jin jiyan azadi' (Donne, vita, libertà) sono stati ispirati dalle idee e dalla filosofia del leader curdo Abdullah Öcalan”.
Ha espresso le condoglianze per le persone uccise durante le proteste e ha chiesto una partecipazione collettiva alle loro cerimonie funebri.
Il 30⁰ festival internazionale della cultura kurda il 17 settembre a Landgraaf, Olanda, nel racconto di chi c’era
Gian Luigi Deiana, blog La bottega del Barbieri, 21 settembre 2022
Il festival ha compiuto sabato 17 settembre il suo trentesimo appuntamento; celebrato per la prima volta in Germania nel 1992, anno dopo anno ha esteso sul corso delle cose la propria ragione originaria: nato come incontro di identità nel vasto mondo dell’emigrazione, è diventato nel tempo il luogo di intreccio della coscienza identitaria kurda con il processo storico che ha sconvolto negli anni tutto il vicino oriente, e il mondo kurdo in modo assolutamente particolare: senza tregua, dalla prima guerra del Golfo in Iraq fino alla crisi in Siria, attraverso la permanente sopraffazione turca e attraverso la tragica meteora dell’Isis; la vicenda politica del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, la formazione delle strutture di resistenza, e in modo particolare la persecuzione giudiziaria nei confronti di Abdullah Öcalan, negli anni hanno assunto quindi in seno al festival un rilievo assolutamente centrale.
La calendarizzazione del festival è speculare a quella del Newroz, il capodanno tradizionale che si celebra in corrispondenza dell’equinozio di primavera, e che in Europa è anticipato, da alcuni anni, con la Long March diretta da Lussemburgo a Strasburgo attraverso le istituzioni europee; il festival della cultura si colloca invece in corrispondenza dell’equinozio di autunno, quando tutte le attività, e in particolare i tempi di ritorno delle migliaia di famiglie di immigrati kurdi in centro Europa, riprendono nei luoghi di lavoro e nei luoghi di studio il loro corso.
Le ragazze afghane hanno protestato nelle strade del centro di Paktia contro la chiusura delle loro scuole
Rawa - 10 settembre 2022
Studentesse della provincia afghana di Paktia hanno protestato contro la chiusura della loro scuola e hanno marciato nella zona.
"Le ragazze hanno protestato nelle strade del centro di Paktia per protestare contro la chiusura delle loro scuole. In precedenza, nella provincia alcune scuole femminili di grado superiore al 6° erano state riaperte su decisione degli anziani delle tribù e dei funzionari dell'istruzione locale, ma le scuole sono state chiuse di nuovo", ha riferito Tolo News.
Recentemente diversi attivisti per i diritti umani e per l'istruzione hanno esortato con una lettera aperta i leader mondiali a esercitare pressioni diplomatiche sui talebani affinché riaprano le scuole secondarie per le ragazze nel Paese dilaniato dalla guerra dopo un anno di brutale regime dei talebani.
Dopo quasi 300 giorni da quando il loro sviluppo è stato bloccato, le ragazze e le donne vedono ancora compromesse le loro aspirazioni, hanno affermato gli attivisti, aggiungendo che se questa situazione persisterà i loro obiettivi e le loro speranze per il futuro ne soffriranno molto, ha riferito Khaama Press.
Nella lettera si esortano i leader mondiali, gli alleati regionali e le organizzazioni internazionali a intraprendere azioni severe nella direzione di promuovere e proteggere i diritti delle ragazze afghane, in particolare il diritto all'istruzione che è stato loro strappato dopo che il governo guidato dai talebani ha vietato l'istruzione per le ragazze delle classi superiori alla 6°.
I talebani hanno imposto restrizioni draconiane alle libertà di espressione, associazione, riunione e movimento di donne e ragazze.
La decisione dei talebani di vietare l'accesso a scuola alle studentesse al di sopra del sesto anno ha suscitato critiche diffuse a livello nazionale e internazionale. Inoltre, il regime talebano che ha preso il controllo di Kabul nell'agosto dello scorso anno ha ridotto i diritti e le libertà delle donne, che vedono la gran parte di loro esclusa dalla forza lavoro per la crisi economica e delle restrizioni.
Repubblica.it Gianni Vernetti 15 settembre 2022
Nel pubblicare questo articolo come contributo alla conoscenza della realtà dell'Afghanistan ricordiamo che le attiviste di RAWA hanno sempre sostenuto che non sono state le divisioni etniche ad aver provocato nel Paese le guerre degli ultimi quarant'anni e la povertà attuale ma invece gli appetiti di potere delle forze interne e internazionali, che usano le differenze etniche per penetrare e aumentare il loro potere nell'area. Inoltre, puntare su una federazione che include esponenti di forze fondamentaliste che nulla hanno mai avuto di democratico, e sulle quali pesano gravi responsabilità per crimini commessi nel paese contro la popolazione e per aver alimentato corruzione e illegalità all'ombra delle truppe di occupazione occidentali, non può sconfiggere i talebani, né tanto meno garantire un futuro di pace e di sviluppo all'Afghanistan.
L’intervista al leader della guerriglia afghana
Il capo della guerriglia del Panshir a colloquio con Repubblica: "Ancora oggi le donne afghane protestano contro i talebani. Le bambine vogliono tornare a scuola Come ovunque nel mondo"
VIENNA — Incontro Ahmad Massud a Vienna poche ore prima dell’inizio della Conferenza a porte chiuse che radunerà per un paio di giorni nella capitale austriaca le varie forze che si oppongono al regime dei talebani.
Radiopopolare.it Chiara Vitali 15 settembre 2022
In Afghanistan le minacce dei talebani continuano ad arrivare anche nei luoghi dove le donne dovrebbero essere al sicuro. Due giorni fa, alcune dipendenti della missione Onu nel Paese sono state imprigionate e interrogate da alcuni uomini armati: è quanto riporta un esperto delle Nazioni Unite. Queste intimidazioni sono in netto contrasto con l’obbligo di garantire sicurezza a tutto il personale Onu in Afghanistan, previsto dal diritto internazionale.
Enrico Campofreda dal suo Blog 15 settembre 2022
La vicenda dei 9.5 miliardi di dollari dello Stato afghano, bloccati da un anno per volere del presidente statunitense Biden come punizione per l’assenza di diritti civili e di genere frutto dell’operato talebano, sta avendo un’evoluzione. 3.5 miliardi di dollari erano stati sequestrati nei mesi scorsi direttamente per volere della Casa Bianca che si preoccupava di offrirli a “beneficio della popolazione afghana”.
Amnesty.it 13 settembre
Il 12 settembre il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan ha presentato il suo primo rapporto alla 51ma sessione del Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani.
“Apprezziamo questo rapporto, che rappresenta un’ulteriore conferma di quanto sia grave la crisi dei diritti umani in Afghanistan. I talebani hanno fatto passi indietro in ogni campo, in particolare per quel che riguarda i diritti delle donne, l’istruzione per le bambine, la protezione delle minoranze e l’accesso alla giustizia.
Ilmanifesto.it Roberto Pietrobon, STOCCOLMA 11 settembre 2022
OGGI AL VOTO. «Abbiamo sempre votato in maggioranza per il partito socialdemocratico», ma ora non sarà più così
La comunità curda in Svezia è tra le più numerose di tutto il continente europeo seconda solo alla Germania, conta circa 100 mila appartenenti come in Francia. Con lo scoppio della guerra in Ucraina i paesi nordici vicini alla Russia come Finlandia e Svezia hanno deciso di abbandonare la loro storica neutralità (in Svezia mantenuta per quasi 200 anni) e, prima con l’invio delle armi a Kiev e poi con la richiesta di adesione alla Nato, hanno scelto stabilmente la loro collocazione internazionale anche in ambito militare. Il processo di adesione dei due paesi è stato bloccato dalla Turchia che ha imposto pesanti condizioni per il suo sì. Condizioni firmate nel meeting Nato a Madrid, lo scorso maggio, nel quale i turchi hanno preteso dai due paesi il rimpatrio di decine di dissidenti turchi e curdi.
Enrico Campofreda dal suo Blog 9 settembre 2022
Perdere la guida del governo, com’è accaduto nei mesi scorsi a Imran Khan, è inusuale in Pakistan. In verità lo è anche concludere il quinquennio di mandato, visto che nei settantacinque anni di storia interna leader e partiti politici hanno conosciuto colpi di mano militari (con Zia-ul Haq e Musharraf), attentati e assassini (di cui fu vittima Benazir Bhutto), condanne per corruzione (Nawaz Sharif), ma non sono incappati in tradimenti in corso d’opera che ora vedono l’ex premier Khan gridare al complotto.
Redazione Internet - 8 settembre 2022
Nella parte orientale del Paese, lontana dai centri del potere dei taleban, 5 scuole secondarie hanno ripreso le lezioni. Il preside: «Le ragazze sono venute spontaneamente, non le abbiamo respinte»
Centinaia di ragazze, stanche dei divieti imposti dal regime dei Taleban, hanno deciso di tornare in classe. Cinque scuole secondarie governative per ragazze hanno ripreso le lezioni nell'Afghanistan orientale dopo che centinaia di studentesse ne hanno chiesto la riapertura: lo ha dichiarato oggi un funzionario provinciale. Ufficialmente i taleban hanno vietato la scuola secondaria femminile, ma l'ordine è stato ignorato in alcune zone dell'Afghanistan lontane dalle basi del potere centrale di Kabul e Kandahar.
«Le scuole sono state aperte alcuni giorni fa e le regole su islam, cultura e costumi vengono rispettate. Il preside degli istituti ha chiesto agli studenti di tornare in classe e le scuole superiori femminili sono aperte», ha detto a Reuters Mawlawi Khaliqyar Ahmadzai, capo della Paktia's dipartimento cultura e informazione.
Mohammad Wali Ahmadi, preside della scuola superiore di Shashgar a Gardez, ha dichiarato alla France Presse che circa 300 ragazze sono tornate a scuola dalla scorsa settimana, nonostante non vi sia stato alcun cambiamento nella politica ufficiale. Gruppi di ragazze che indossavano foulard e hijab sono state viste dirigersi verso l'istituto questa mattina.
9 Settembre 2022 Redazione
Un articolo di Leandro Albani e un’iniziativa il 18 a Roma. A seguire due link e notizie da Anbamed. Con una proposta di “Verso il Kurdistan” per un 8 ottobre sui sentieri partigiani.
Rojava: le guerre che non vanno in tv
Leandro Albani
Diceva Eduardo Galeano che i Nessuno, los Nadie, non sono anche se esistono, e che costano meno delle pallottole che li ammazzano. I curdi sono “Nessuno” da secoli e, tra le molte guerre che anche in questo momento incancreniscono nel mondo, quelle contro i curdi sono certo tra quelle che valgono meno. Dev’essere per questo che meritano tanto silenzio. E guai se non fosse così: dovremmo pensare che le bambine e i bambini ammazzati (anche) in agosto nel Rojava dai bombardamenti dei droni del secondo esercito della Nato non valgano neanche un paio di righe perché quei droni sono indispensabili alla resistenza ucraina. Oppure che il presidente turco Erdogan ha facoltà di far uccidere perché ferma l’esodo verso la culla della civiltà di milioni di persone in fuga da guerre e perquisizioni. Oppure, ancora, che ricatta e tiene in ostaggio la Russia, gli Stati Uniti, l’Europa (e i loro media) perché ha imparato a seguirne l’esempio. Che assurdità…
I dati numerici che ha diffuso a fine agosto Save the Children sono stati cancellati dal vortice di notizie quotidiane, anche perché pochissime persone sono interessate a conoscerli. Venerdì 26 agosto la Ong internazionale ha riferito che almeno altri due bambini sono rimasti feriti anche quel giorno in un attacco a Tal Rifat, nel Rojava, regione autonoma nel nord della Siria. Si tratta delle vittime più recenti di un’ondata di violenza che, nel solo mese di agosto, a causa dei bombardamenti continui della Turchia ha ucciso nella regione almeno 13 bambini e bambine e ne ha feriti altri 27.
Beat Rohr, responsabile della Ong nella zona, si è detto profondamente addolorato per “quest’ultima escalation di violenza che mostra chiaramente come i bambini in Siria non sono ancora al sicuro. I bambini non dovrebbero mai preoccuparsi di essere attaccati a casa, al mercato o quando sono fuori per giocare. Eppure, questo è esattamente ciò che accade a tutti i bambini nel nord della Siria, quasi 12 anni dopo l’inizio del conflitto”.
Il massacro in corso da mesi nel Rojava è quasi del tutto sconosciuto. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, aveva annunciato apertamente mesi fa un’invasione militare nell’area, ma i suoi “soci” russi, statunitensi e iraniani – tutti e tre presenti in territorio siriano – lo hanno per ora convinto a recedere. Ciò che hanno promesso in cambio è stata l’assoluta libertà per Erdogan di ordinare attacchi con i droni sul Rojava. Così da diverse settimane gli attacchi sono quasi quotidiani e prendono di mira principalmente i residenti di città come Manbij, Kobane e Ayn Issa.
Ain Issa sotto i bombardamenti turchi
Le ragioni che spingono il presidente turco sono molteplici. In primo luogo, la sua amministrazione ha già dimostrato fin dalla nascita l’odio nei confronti del popolo curdo, che cerca di sterminare il più rapidamente possibile. Intanto si accontenta di estendere il potere territoriale turco in Siria, in linea con le sue aspirazioni neo-ottomane: oggi Ankara occupa illegalmente il cantone curdo di Afrin e le città di Al Bab, Serêkaniyê, Azaz e Girê Spî. La seconda ragione è che Erdogan ha una tremenda necessità di far gonfiare i sentimenti nazionalisti nel Paese in vista delle elezioni presidenziali del 2023, in cui è a rischio la continuità del suo potere. La terza ragione è che sia Erdogan che il cosiddetto “Stato profondo turco” rifiutano senza esitazioni il progetto di democrazia, autonomia e liberazione in Rojava, progetto che sta in piedi dal 2012, quando i popoli curdo, armeno, arabo e assiro, tra gli altri, hanno rotto la catena che li legava al regime siriano guidato da Bashar Al Assad.
Sebbene le Nazioni Unite (ONU) abbiano avvertito in diverse occasioni che nel Rojava le aggressioni turche comportano il rischio di un genocidio, l’allarme e gli avvertimenti sono stati cancellati dalle agende internazionali preoccupate in modo esclusivo per la guerra in Ucraina. Non si tratta di un fatto nuovo, né sorprendente. La Turchia è il secondo esercito della Nato ed è un fornitore continuo ed essenziale di droni militari Bayraktar, in particolare al governo di Kiev. Gli Stati Uniti e la Russia si contendono da anni l’influenza su Ankara ed Erdogan ne approfitta continuamente. Così sia Mosca, che controlla lo spazio aereo nel Rojava, che Washington, che ha la sua presenza militare a terra, chiudono gli occhi sui bombardamenti turchi sulla popolazione civile nella regione.
A Bashur, nel Kurdistan iracheno, lo Stato turco dispiega anche un’invasione militare che combina truppe di terra, attacchi di droni e l’utilizzo di armi chimiche. È il silenzio il maggior alleato di Erdogan in questa guerra. Il suo obiettivo è sconfiggere i guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), cosa che Ankara è più che mai determinata a raggiungere, ma s’imbatte nella ferrea resistenza fatta dai combattenti curdi su montagne inespugnabili, i naturali alleati dell’insurrezione.
Non potendo fare molti progressi nell’occupazione illegale delle aree di Bashur, la Turchia sta intensificando gli attacchi contro i civili.
Lunedì 29 agosto un drone turco ha bombardato il campo profughi di Makhmur, situato a Bashur, dove vivono da diversi anni circa 12mila persone, la maggior parte delle quali deportate con la forza da Bakur (Kurdistan turco). Abu Zêyd Ebdullah Ubêyd, residente del campo, è rimasto ferito nell’attacco e in seguito è morto dopo essere stato portato all’ospedale di Geyare.
Lo stesso giorno, la Turchia ha bombardato il villaggio di Behreva, a Shengal, la regione a maggioranza yazida dell’Iraq settentrionale, lasciando diversi feriti. Per questi attacchi, Ankara ha l’aperto sostegno del Partito Democratico del Kurdistan (KDP), che guida il governo semi-autonomo di Bashur, ma può contare anche sull’inerzia del governo centrale di Baghdad.
È curioso come le grandi reti mediatiche internazionali in questi giorni abbiano trasmesso le forti proteste in Iraq, dopo le dimissioni del leader religioso sciita, Muqtada Al-Sadr, dall’attività politica, ma non riescano proprio a puntare le telecamere verso le montagne di Bashur, dove la Turchia cerca di applicare una politica della terra bruciata.
In un articolo pubblicato di recente, Devriş Çimen – rappresentante in Europa del Partito Democratico dei Popoli della Turchia, composto da esponenti del movimento curdo e da gruppi di sinistra e progressisti – ha scritto: “La democrazia, l’emancipazione delle donne, l’ecologia, la partecipazione popolare e la libertà sono valori universali che il movimento curdo per la libertà difende da anni. La nostra organizzazione cerca un’alternativa democratica ai regimi autoritari del Medio Oriente che minano tutte le libertà. I governi occidentali citano molti di questi valori in nome del loro sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa. Ma quando si tratta dei curdi l’Occidente è sempre pronto a disfarsi di quei valori e a gettare i curdi in pasto ai lupi“.
Le parole di Devriş Çimen sintetizzano esattamente come le potenze internazionali considerano il popolo curdo, il più grande popolo al mondo che continua a soffrire per la colonizzazione, che è imposta da Turchia, Siria, Iraq e Iran, ma anche dai grandi attori politici del pragmatico scacchiere mondiale.
Inside Over - Lorenzo Vita - 5 Settembre 2022
Un’esplosione squarcia la mattina di Kabul. Stando alle informazioni che giungono dalla capitale dell’Afghanistan, un attentatore è stato ucciso nei pressi dell’ambasciata russa dopo essere stato identificato dalle guardie di sicurezza della missione consolare, ma i proiettili con cui è stato neutralizzato il kamikaze hanno provocato comunque l’esplosione non lontano dall’ingresso dell’ambasciata. Il bilancio provvisorio delle vittime parla di 20 persone rimaste uccise dalla detonazione, con un numero imprecisato di feriti.
Come riportato dalle fonti di sicurezza afghane, molti dei morti e dei feriti erano lì per il rilascio dei visti da parte della missione diplomatica. Il ministero degli Esteri di Mosca ha invece confermato il decesso di due cittadini russi dipendenti dell’ambasciata.
da Uiki onlus, 29 agosto 2022
Care donne, care amiche, Dalla prima conferenza internazionale del Network Women Weaving the Future (Rete Donne Tessendo il Futuro) nel 2018, abbiamo assistito a un aumento della resistenza globale delle donne contro i sistemi che ci impongono sfruttamento, miseria e morte. Come abbiamo visto durante la pandemia di Covid-19, con l’aiuto dello Stato, il sistema patriarcale e capitalista perfeziona i suoi metodi per privare le donne, i popoli, le lavoratrici e i lavoratori, le contadine e i contadini, e le operaie e gli operai del loro diritto di vivere. Oggi, ovunque, ci troviamo di fronte alla guerra, all’occupazione, alla violenza, al femminicidio, al genocidio e all’ecocidio.
Sebbene il patriarcato capitalista sostenga che “non c’è alternativa” a questo mondo di sfruttamento e ingiustizia, questo sistema sta perdendo la sua legittimità. Per superare la sua ultima crisi, il sistema riutilizza continuamente i suoi pilastri fondamentali: fascismo, nazionalismo, religiosità, scientismo, sessismo e feudalesimo, i quali portano a uno stato di guerra contro la società, le donne e l’ambiente. Eppure, noi che lottiamo sappiamo che siamo milioni in ogni angolo del mondo, determinate a costruire un mondo diverso e più giusto.
Sappiamo che ci sono strade che vanno oltre quelle che ci vengono presentate come alternative. Come la rivoluzione in Rojava/Siria del Nord e dell’Est ci ha dimostrato nell’ultima decade, è possibile lottare e costruire un sistema politico e sociale diverso, basato sull’autonomia delle donne in tutte le sfere della vita. Le lotte delle nostre sorelle di luoghi come l’Afghanistan, l’Iran, il Sudan, le Filippine, il Brasile e gli Stati Uniti ci mostrano che questo secolo ha il potenziale per essere il secolo della libertà delle donne e dei popoli. Può essere l’epoca in cui le nostre lotte vengono portate dal locale all’universale.
È giunto il momento di tessere insieme il nostro futuro attraverso la lotta comune!
https://womenweavingfuture.org/