In aumento gli operatori dei media detenuti, costretti a "confessare"
Fereshta Abbasi, HRW, 14 giugno, 2022
Nella sua guerra contro il popolo curdo la Turchia usa "armi nucleari tattiche" che distruggono le aree interessate
ANF, Ufficio notizie, 22 giugno 2022
Il presidente turco Erdogan continua indisturbato l'invasione del Rojava reportage della situazione sul campo
La Repubblica, 16 giugno 2022, di Daniele Raineri
Il reportage: i Bayraktar che in Ucraina aiutano a combattere i russi, nel Nord della Siria sono l'arma utilizzata dagli invasori per spingere la resistenza ad abbandonare le terre lungo il confine. Il timore dei curdi è di essere abbandonati come gli afghani a Kabul.
Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2022, di di Franz Baraggino
La promessa dell'Italia di non abbandonare gli afghani in fuga dal regime talebano ad oggi non è stata mantenuta. I 1200 che dovevano partire con i corridoi umanitari attivati in Iran e Pakistan ancora aspettano. Negli altri Paesi confinanti, dove non ci sono uffici dell'Unhcr ai quali rivolgersi, chi chiede aiuto all'Italia si vede sbattere la porta in faccia. L'Arci: "Col passare dei mesi i riflettori sulla crisi si sono spenti e da parte dei nostri governanti non c'è stato più interesse a riaccenderli.
MicroMega - 10 giugno 2022, di Valerio Nicolosi
A poco meno di un anno di distanza dal ritorno dei talebani a Kabul, i corridoi umanitari italiani sono ancora fermi a causa della burocrazia.
Sembra lontano l’agosto 2021 quando una grande mobilitazione popolare a sostegno dell’Afghanistan, e in particolare delle donne, attraversava tutto il Paese.
Gli occhi erano puntati sull’aeroporto di Kabul, guardavamo con apprensione all’evacuazione del personale italiano e di quello afghano che aveva lavorato per il nostro contingente, raccontavamo del sostegno alle associazioni che avevano aiutato le donne nel corso degli anni.
Già in quel momento, però, si vedevano le prime crepe di questa solidarietà, più precisamente lungo i confini esterni dell’Europa dove erano ammassate migliaia di persone provenienti proprio dal paese governato dei talebani che, in modo ipocrita, l’Europa non lasciava entrare, respingendole in Bosnia ed Erzegovina.
Altreconomia, 6 giugno 2022 di Ilaria Sesana
Oltre 1.200 cittadini afghani, in larga parte donne e bambini, avrebbero dovuto trovare rifugio in Italia ma nelle nostre rappresentanze consolari in Iran e Pakistan manca da sette mesi lo strumento per rilevare le impronte. Arci, Caritas, Sant’Egidio e Tavola valdese chiedono al governo una deroga per accelerare le partenze
Nahal ha vent’anni e si presenta come “una ragazza come milioni di altre ragazze afghane, ma sono diversa. Non sono come le altre: sono una lesbica e per questo ritenuta colpevole”. Per anni la giovane ha tenuto nascosto il suo segreto: in Afghanistan, infatti, l’omosessualità è considerata un crimine, da punire con la pena di morte.
“Potrei anche essere lapidata”, racconta nella testimonianza raccolta da Arci. A rendere ancora più precaria e insicura la sua vita è il fatto che Nahal (nome di fantasia) è hazara: appartiene cioè a una minoranza etnica di fede sciita che da anni viene colpita da sanguinosi attentati e feroci discriminazioni da parte dei Talebani.
“Nessuno può capire quanto sia difficile e dolorosa la vita in questa situazione per una ragazza che vive in un Paese che considera le donne senza valore -spiega Nahal-. Ho paura che la mia famiglia sia in pericolo a causa mia”.
Radio Onda d'Urto, 12 giugno 2022
I collaboratori di Radio Onda d’Urto Gemma Nicola e Federico Salvatore si trovano attualmente in Bashur, Kurdistan iracheno, nel nord dell’Iraq. Nella giornata di ieri, sabato 11 giugno, hanno inviato alla redazione i primi contributi dal terreno.
Nel primo caso si tratta di un approfondimento sulla storia della regione, ma anche della sua attualità, della situazione politica e sociale odierna e degli attacchi dell’esercito turco – con la complicità del governo regionale curdo-iracheno del Kdp e del governo di Baghdad – che si sono di nuovo intensificati dal mese di aprile e che sono connessi alla volontà di Ankara di procedere a una nuova aggressione dell’Amministrazione della Siria del nordest. La corrispondenza è divisa in tre parti nel podcast che segue. La prima parte inquadra la storia e il contesto della regione del Bashur, il Kurdistan iracheno; la seconda contiene una descrizione della situazione attuale nella regione; nella terza e ultima parte i nostri corrispondenti spiegano il ruolo che il dittatore turco Erdogan sta cercando di ritagliarsi come mediatore di pace nella guerra in Ucraina, del perché, di quali sono i suoi interessi e obiettivi che riguardano il Medio Oriente e il Kurdistan, dal Bashur al Rojava, nel nordest della Siria. In conclusione di questa prima corrispondenza, Gemma Nicola e Federico Salvatore ricordano la giornata di mobilitazione internazionale “Defend Kurdistan” dell’11 giugno (qui il nostro racconto del corteo italiano, a Bologna) e annunciano che seguiranno la manifestazione di Sulaymaniyah, nord-Iraq.
La trasmissione che contiene la prima corrispondenza, dal Kurdistan iracheno, di Gemma Nicola e Federico Salvatore, corrispondenti di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica.
La manifestazione di Sulaymaniyah – contro l’occupazione turca del Kurdistan iracheno, contro l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito di Ankara e contro il collaborazionismo del governo regionale curdo-iracheno in mano al clan Barzani e al partito conservatore KDP (Kurdistan Democratic Party) – è stata attaccata dalla polizia, che ha fatto uso di gas lacrimogeni e taser (pistole elettriche) per disperdere i manifestanti.
Il racconto della manifestazione di Gemma Nicola e Federico Salvatore, nostri corrispondenti dal nord-Iraq. Ascolta o scarica.
Alcune immagini dalla manifestazione di Sulaymaniyah:
Le tensioni interne al movimento talebano, con la leadership al governo spaccata e incapace di controllare la base; l'attivismo della resistenza, che, se pure divisa in tanti rivoli, riesce a impegnare i talebani in un raffazzonato tentativo di offensiva; la ripresa dell'attività terroristica dell'ISIS-K all'interno e all'estero dell'Afghanistan. Tutte queste criticità insieme, «presentano rischi significativi di un nuovo conflitto in Afghanistan e nella regione»
Gabriella Peretto, L'Intro, 6 giugno 2022
A poco più di nove mesi dalla presa dell’Afghanistan, i talebani, che mantengono stretti legami con al-Qaeda, stanno cercando di consolidare un governo malfermo e sono costretti a guardarsi le spalle, insidiati da una parte dallo Stato Islamico Khorasan (ISIS-K) (o Stato Islamico-Provincia del Khorasan -IS-KP) e dall’altra da una resistenza che, per quanto improbabile (al momento), si sta moltiplicando in svariati gruppi e li sta tenendo occupati su diversi fronti.
Questo, in sintesi, è quanto emerge dall’ultimo rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite da parte del gruppo esperti di monitoraggio delle sanzioni contro i talebani.
Gli esperti sostengo che con l’inizio della stagione estiva i combattimenti potrebbero intensificarsi, sia lo Stato islamico che le forze di resistenza intraprenderanno operazioni contro le forze talebane. Ma né l’IS-K, né al-Qaeda «si ritiene che siano in grado di organizzare attacchi internazionali prima del 2023, indipendentemente dalle loro intenzioni o dal fatto che i talebani agiscano per fermali», scrive il gruppo di esperti. Tuttavia, la presenza di IS-K, al-Qaeda e «molti altri gruppi terroristici e combattenti sul suolo afghano» sta preoccupando i Paesi vicini, in alcuni dei quali vi sono già stati attacchi da parte di IS-K.
Per quanto riguarda lo stato del governo, la situazione è confusa e precaria. In questi nove mesi i talebani non sono riusciti a strutturare un esecutivo stabile e in grado di operare. I talebani «hanno privilegiato la lealtà e l’anzianità rispetto alla competenza, e il loro processo decisionale è stato opaco e incoerente», si legge nel rapporto.
All’interno del governo talebano, sono stati nominati 41 uomini inclusi nella lista nera delle sanzioni delle Nazioni Unite in posizioni di alto livello. Altresì, all’interno del governo appare favorito il gruppo etnico pashtun -il gruppo etnico dominante del Paese- alienando i gruppi minoritari, in particolare tagiki e uzbeki. Questa è una delle cause per cui «da quando hanno preso il potere, ci sono stati molti fattori che hanno creato tensioni all’interno del movimento, portando alla percezione che il governo dei talebani sia stato caotico, disarticolato e incline a invertire le politiche e tornare sulle promesse».
La preoccupazione principale dei leader talebani, proseguono gli esperti, è stata quella di consolidare il controllo «mentre cercavano il riconoscimento internazionale, di impegnarsi nuovamente con il sistema finanziario internazionale e di ricevere aiuti per far fronte alla crescente crisi economica e umanitaria in Afghanistan».
Il rapporto entra nei dettagli delle dinamiche che stanno logorando i vertici talebani e il movimento stesso, incapace, fino ad oggi, di passare dall’essere un movimento d’insurrezione a un movimento di governo. I leader che hanno impostato la linea di governo, sono stati divisi tra pragmatici e intransigenti. Questi ultimi hanno preso il sopravvento e vogliono riportare l’orologio indietro a fine anni ’90 del secolo scorso, quando, dal 1996 al 2001, hanno guidato il loro primo governo, fino ad essere estromessi delle forze statunitensi in seguito agli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti. Ad oggi, i loro sforzi per ottenere il riconoscimento e l’aiuto delle Nazioni occidentali sono falliti, non avendo rispettato nessuno dei punti sui quali si erano impegnati subito dopo il 15 agosto, quando avevano promesso un governo largamente rappresentativo di tutte le forze ed etnie del Paese, rispetto per i diritti delle donne, a partire dall’accesso all’istruzione.
Gli esperti affermano che la rete Haqqani, il gruppo militante islamista entrato nel movimento talebano, fin dall’agosto scorso ha ottenuto il controllo di portafogli e ministeri chiave tra cui interni, intelligence, passaporti e migrazione. Ora «controlla in gran parte la sicurezza in Afghanistan, inclusa la sicurezza della capitale, Kabul». «La rete Haqqani è ancora considerata come quella che ha i legami più stretti con al-Qaeda», e attraverso Haqqani, il rapporto tra i talebani e al-Qaeda rimane stretto. Gli esperti hanno segnalato la presenza della leadership centrale‘ di al-Qaeda nell’Afghanistan orientale, compreso il suo leader Ayman al-Zawahri. La presa di distanza tra talebani e al-Qaeda era uno dei punti che fin da agosto era emerso come problematico e richiesta fondamentale da parte della comunità internazionale di una netta presa di distanza per l’inizio di un processo di riconoscimento del governo talebano.
«Il dilemma centrale è come un movimento con un’ideologia inflessibile può impegnarsi con una società che si è evoluta negli ultimi 20 anni», hanno affermato gli esperti ONU. «Ulteriori sollecitazioni ruotano attorno al potere, alle risorse e alle divisioni regionali ed etniche».
«Il governo talebano si è fuso attorno ai suoi veri centri di gravità -la leadership del Kandahari meridionale, la famigerata rete Haqqani orientale e l’emergente apparato di intelligence guidato da Ghazni- lasciando poco spazio ad altri gruppi etnici e minoritari», afferma il team di Afghan Peace Watch (APW), e dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), che ha monitorato le tendenze violente sulla base di centinaia di rapporti di incidenti registrati tra settembre 2021 e marzo 2022, producendo il rapporto ‘Tracking Disorder During Taleban Rule in Afghanistan‘.
I «talebani non riescono a placare i loro ranghi, o a mantenere un governo di base». «La riduzione della violenza visibile nei dati tra settembre e dicembre dello scorso anno, interpretata da alcuni come una prova implicita del sostegno locale ai talebani, potrebbe essere di breve durata».
Nonostante questi gravi problemi, gli esperti ONU affermano che i talebani «sembrano fiduciosi nella loro capacità di controllare il Paese e ‘aspettano’ che la comunità internazionale ottenga un eventuale riconoscimento del loro governo». «Valutano che, anche se non fanno concessioni significative, la comunità internazionale alla fine li riconoscerà come il governo dell’Afghanistan, soprattutto in assenza di un governo in esilio o di una significativa resistenza interna».
Finora, nessun Paese ha riconosciuto ufficialmente i talebani, e cresce l’irritazione della comunità internazionale per il trattamento riservato alle donne e perchè i talebani non hanno rispettato la promessa di formare un governo inclusivo e di non consentire ai gruppi terroristici di operare in Afghanistan.
A preoccupare la comunità internazionale è il terrorismo, e, tra tutti i gruppi, in particolare lo Stato Islamico-Provincia del Khorasan (IS-KP) o Stato islamico Khorasan (ISIS-K), che si è dimostrato molto attivo, sia all’interno dell’Afghanistan, sia nei Paesi vicini.
Per fronteggiare il gruppo, secondo il rapporto consegnato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che cita come fonte un Paese non identificato, i talebani hanno creato tre battaglioni di forze speciali chiamate ‘unità rosse‘. A gennaio i talebani avevano annunciato la formazione un battaglione di attentatori suicidi come parte dell’esercito nazionale dell’Afghanistan, ‘brigate del martirio’, sotto il controllo del Ministero della Difesa e utilizzate per operazioni speciali.
ISIS-K è da sempre il grande nemico dei talebani , fin da agosto è apparso sulla scena del nuovo Afghanistan del governo talebano. ISIS-K, riferiscono alcune fonti, è stato responsabile di quasi 100 attacchi contro civili in Afghanistan e Pakistan, nonché di 250 scontri con le forze di sicurezza statunitensi, afgane e pakistane da gennaio 2017.
Già in aprile appariva evidente come il regime talebano sarebbe stato costretto affrontare una minaccia crescente da parte dell’ISIS-K. Il gruppo, si avvisava, potrebbe riuscire a fare ulteriori incursioni all’interno dell’Afghanistan e ha il potenziale per emergere come una forza che potrebbe destabilizzare non solo l’Afghanistan, ma anche i Paesi che lo circondano. Questa minaccia si è rivelata corretta. «»
Una dettagliata analisi dell’Institute for the Study of War (ISW), del 1° giugno, afferma che ISIS-K sta estendendo gli attacchi oltre l’Afghanistan e sostiene che «l’obiettivo generale dello Stato islamico della provincia del Khorasan resta quello di minare e, infine, sostituire il governo talebano. I recenti attacchi del gruppo fanno parte del suo sforzo per delegittimare i talebani in patria e ostacolare i suoi sforzi per normalizzare il governo a livello internazionale».
Gli attacchi ai Paesi confinanti con l’Afghanistan, prosegue l’analisi di ISW a firma del ricercatore Peter Mills, «segnalano ai jihadisti internazionali che l’ISIS-K è sia disposto che in grado di attaccare a livello internazionale. IS-KP sta anche tentando di attrarre jihadisti locali uzbeki e tagiki segnalando loro che sosterrà i loro sforzi contro i governi uzbeko e tagiko».
ISIS-K prende sempre più di mira gli Stati vicini come parte della sua campagna per indebolire e rovesciare il governo talebano. «Il gruppo ha compiuto attacchi in Tagikistan, Uzbekistan e Pakistan negli ultimi mesi, alcuni dei quali facevano parte di una campagna globale di attacchi dello Stato Islamico chiamata ‘La vendetta dei due sceicchi’. Gli attacchi in Tagikistan e Uzbekistan dimostrano un aumento della volontà dell’IS-KP di colpire i vicini dell’Afghanistan. La crescente forza dell’IS-KP nel nord dell’Afghanistan rappresenta una minaccia crescente per i Paesi vicini. Il governo talebano continua a minimizzare la minaccia IS-KP e i suoi recenti dispiegamenti militari indicano che sta invece dando la priorità alla minaccia dei gruppi di opposizione ‘non Stato Islamico‘».
Da aprile è stato un crescendo di operazioni di ISIS-K nella regione. L’inizio è stato il 18 aprile, quando il gruppo ha attaccato obiettivi in Uzbekistan per la prima volta. «L’IS-KP ha attaccato per la prima volta obiettivi in Tagikistan il 7 maggio, indicando che l’IS-KP continuerà a effettuare attacchi transnazionali oltre la conclusione della campagna dei due sceicchi», afferma ISW. In entrambe i casi, il gruppo ha dimostrato di poter attaccare sia i governi dei rispettivi Paesi, sia le cellule ISIS locali con lo scopo di farle disertare ed entrare in IS-KP, oltre a screditare, dividere e indebolire il governo talebano. In Pakistan, «le operazioni cinetiche dell’IS-KP continuano a prendere di mira principalmente le forze di sicurezza pakistane e i comandanti e attivisti talebani. L’IS-KP ha preso di mira sia Haqqani che comandanti talebani, nonché attivisti e figure religiose associate a Jamiat Ulema-e-Islam, un partito politico pakistano legato al movimento talebano. L’attività dell’IS-KP in Pakistan non è una nuova svolta. In quanto gruppo separatista dai talebani pakistani, IS-KP ha mantenuto a lungo una presenza in Pakistan e occasionalmente ha condotto attacchi, in genere all’interno della provincia di Khyber-Pakhtunkhwa. IS-KP continua anche a condurre attacchi settari contro le minoranze religiose in Pakistan, in particolare all’interno di Peshawar. I talebani pakistani (TTP) hanno spostato sempre più la loro strategia di propaganda per essere più incentrata sui pashtun, sottolineando l’indipendenza dal Pakistan e i vantaggi del pashtunwali. L’IS-KP potrebbe utilizzare questa attenzione sulle questioni pashtun, nonché sui recenti negoziati del TTP con il governo pakistano, per minare la legittimità del TTP tra le organizzazioni jihadiste. IS-KP potrebbe provare a staccare elementi marginali dal TTP che preferiscono un approccio transnazionale», si legge nell’analisi ISW.
«Questi attacchi indicano che l’IS-KP ha ambizioni regionali oltre l’Afghanistan. Gli attacchi dell’IS-KP all’Uzbekistan e al Tagikistan dimostrano sia la capacità che l’intento. L’IS-KP che segnala la sua intenzione di attaccare i governi dell’Uzbekistan e del Tagikistan, incoraggerà i jihadisti uzbeki e tagiki, i cui obiettivi finali sono rovesciare i rispettivi governi, a schierarsi con l’IS-KP contro il governo talebano. Se l’Uzbekistan e il Tagikistan risponderanno militarmente a questa minaccia in Afghanistan, aggraveranno le tensioni interne tra le fazioni all’interno del movimento talebano, che sosterrà lo sforzo dell’IS-KP di rimuovere elementi radicali dal movimento talebano. Similmente alla campagna talebana contro l’ex Repubblica afgana, l’IS-KP potrebbe sfruttare la presenza di soldati stranieri in Afghanistan per raccogliere sostegno tra i jihadisti e minare il sostegno in Afghanistan al governo talebano».
«Le capacità dell’IS-KP stanno probabilmente crescendo nel nord dell’Afghanistan». «È probabile che il governo talebano non sia in grado di contenere l’IS-KP, mentre continua a insistere sul fatto che l’IS-KP è stato per lo più sconfitto. Gli attacchi dell’IS-KP al di fuori dell’Afghanistan stanno esacerbando la preoccupazione internazionale secondo cui i talebani non vogliono o non sono in grado di prevenire gli attacchi terroristici provenienti dall’Afghanistan». «La riluttanza del governo talebano a chiedere sostegno internazionale per combattere l’IS-KP indica che è vulnerabile agli sforzi dell’IS-KP per esacerbare le tensioni interne al movimento talebano», afferma, in conclusione, ISW.
Il governo talebano preferisce concentrare l’attenzione, e richiamare l’attenzione internazionale, sui gruppi di opposizione non-ISIS. «Il Ministero della Difesa talebano ha mobilitato 3-4.000 soldati provenienti da tutto il sud dell’Afghanistan in risposta a un’offensiva del National Resistance Front of Afghanistan (NRF), nella valle del Panjshir, all’inizio di maggio», afferma ISW. Secondo l’Istituto, i talebani potrebbero dare la priorità alle operazioni contro la NRF anche perchè ipotizza future alleanze a sostegno reciproco e assistenza finanziaria dall’estero per l’opposizione.
La resistenza infatti è in fermento. «Solo negli ultimi mesi, sono stati annunciati almeno sei nuovi gruppi di opposizione armata contrari al governo talebano, molti dei quali costituiti da ex forze di sicurezza afghane, l’Afghan National Defense and Security Forces (ANDSF), abbandonate e continuamente prese di mira per ritorsioni dai talebani, nonostante l’amnistia generale annunciata lo scorso anno», afferma il rapporto ‘Tracking Disorder During Taleban Rule in Afghanistan‘ di aprile. «Mentre il National Resistance Front of Afghanistan è stato il primo gruppo a impegnarsi nella resistenza armata contro i talebani, sotto la guida del figlio di Ahmad Shah Massoud, nel Panjshir, più recentemente sono stati annunciati anche diversi ex gruppi ANDSF, tra cui l’Afghanistan Freedom Front (AFF) e il Movimento di liberazione dell’Afghanistan (ALM) a guida pashtun, che dimostrano un’opposizione multietnica e di ampio respiro ai talebani, anche all’interno della maggioranza pashtun».
L’emergere del National Resistance Front of Afghanistan e dell’Afghanistan Freedom Front, «ha portato i talebani ad adottare misure aggressive contro le popolazioni sospettate di sostenere le operazioni anti-talebane», riferisce il gruppo di esperti delle Nazioni Unite nel suo rapporto per il Consiglio di Sicurezza. Ad aprile, forze del National Resistance Front of Afghanistan hanno intensificato le operazioni nelle province di Badakhshan, Baghlan, Jowzjan, Kunduz, Panjshir, Takhar e Samangan. E l’Afghan Freedom Front, «ha rivendicato diversi attacchi alle basi talebane a Badakhshan, Kandahar, Parwan e Samangan», hanno affermato gli esperti. Il che fa concludere che «le forze talebane potrebbero essere costrette a contrastare diverse insurrezioni contemporaneamente».
Le tensioni interne al movimento talebano, con la leadership al governo spaccata e incapace di controllare le varie correnti che rendono burrascoso il movimento stesso, con la base, i piccoli gruppi che si ribellano al centro; l’attivismo della resistenza, che, se pure divisa in tanti rivoli, riesce a impegnare i talebani in un raffazzonato tentativo di offensiva; la ripresa dell’attività terroristica, in particolare dei gruppi terroristici transnazionali che hanno già un punto d’appoggio stabilito nella regione, come al-Qaeda, i talebani pakistani (TTP) e gruppi terroristici dell’Asia centrale. Tutte queste criticità messe insieme, «presentano rischi significativi di un nuovo conflitto in Afghanistan e nella regione», sostiene il gruppo di lavoro APW-ACLED.
In sordina, l’attacco turco al Rojava: blanda condanna Usa, servile il silenzio dei nostri gazzettieri
Chiara Cruciati - ll Manifesto - 2 giugno 2022
Basta aprire una mappa della Siria del nord-est e cerchiare prima i nomi delle città che la Turchia ha già occupato militarmente nell’aprile 2018 (Afrin) e nell’ottobre 2019 (Gire Spi e Serekaniye), e poi quelle che ieri il presidente Erdogan ha indicato come le nuove prede: Tel Rifaat e Manbij.
Appare subito chiara l’intenzione di dare continuità a quel corridoio di terre al confine turco-siriano che Ankara chiama safe zone, ma che nella realtà è l’occupazione ormai stabile di un pezzo di Siria, il tentativo di porre fine all’esperienza del confederalismo democratico nel Rojava e pure il muro fisico al passaggio di persone, combattenti, merci e idee tra Kurdistan siriano e turco.
Ieri Erdogan è tornato a parlare dell’allargamento dell’operazione militare iniziata nell’ottobre 2019, il cui obiettivo – mappa alla mano – è palese: spezzare la continuità geografica del Rojava, occupando l’intera fascia di frontiera.
TRENTA KM di profondità e una nuova gestione politica e amministrativa fondata sulla shari’a. A Gire Spi, Serekaniye e Afrin è già realtà quotidiana, messa in pratica dal cosiddetto Esercito nazionale siriano (l’ex Esercito libero), coacervo di milizie islamiste e jihadiste responsabili di abusi giornalieri sui civili, rapimenti, uccisioni e confisca di terre e proprietà, e di un’ampia operazione di ingegneria demografica.
Gli aerei dalla Turchia sono pieni di afgani che sono fuggiti dal loro paese e ora stanno tornando a casa, e non sempre volontariamente
Ali M. Latifi - Middle East Eye - 1 giugno 2022
Sebbene il volo KamAir sia diretto verso l'emirato islamico dell'Afghanistan guidato dai talebani con gli afgani che sono fuggiti dal loro paese, a bordo c'è poca paura o trepidazione.
Dai terminal del check-in al gate e per tutto il processo di imbarco, tutto procede normalmente. Folle di uomini, donne e bambini chiedono a gran voce di salire a bordo dell'aereo gremito, gli annunci di sicurezza vengono letti in pashtu, dari e inglese e l'equipaggio svolge i consueti compiti prima del decollo per un viaggio che ora costa $ 480 a tratta.
Come per la maggior parte dei voli da Istanbul a Kabul, i passeggeri sono un mix di famiglie delle vicine nazioni europee in visita a familiari, uomini d'affari, lavoratori di ONG di ritorno da rapidi viaggi di ricerca e sviluppo all'estero e, naturalmente, deportati. Ma un gruppo è vistosamente assente. Non molto tempo fa, appaltatori militari e di sicurezza stranieri - alcuni in divisa militare, altri in giacca e cravatta - occupavano molte delle poltrone della business class, ma non da quando ad agosto i talebani hanno cacciato il governo appoggiato dall'Occidente.
Per molti questo volo di quattro ore e mezza è il primo viaggio di ritorno in Afghanistan da quando l'ex presidente Ashraf Ghani è fuggito ad Abu Dhabi e i talebani hanno ripreso il controllo. Dopo mesi, anche anni, lontani, dicono di voler vedere la situazione con i propri occhi.
Fahim, la cui famiglia ha vissuto nel Regno Unito negli ultimi 10 anni, è uno dei viaggiatori che spera di vedere in prima persona se e quanto sia cambiata la vita sotto i talebani. Era un adolescente quando il gruppo salì al potere per la prima volta nel 1996. "Ero certamente abbastanza grande per ricordare che è successo e che stavo andando a vedere il corpo del presidente Najib appeso a piazza Ariana, ma non ero abbastanza grande per capire appieno cosa stava per succederci", dice ricordando le centinaia di persone andate a vedere il cadavere dell'ultimo leader comunista della nazione, ucciso dai talebani.
Col ritorno al potere dei talebani a Kabul un riavvicinamento ai turbanti esterni e interni può far mutare la tattica, non la strategia di Islamabad
Enrico Campofreda - dal blog - 31 maggio 2022
Fortemente criticato per le aperture verso i Tehreek-i-Taliban, gruppo da tempo fuorilegge in Pakistan, l’ex premier Imran Khan non è stato l’unico a trattare col fondamentalismo armato. Il Capo di Stato Alvi e l’ex ministro degli Esteri Qureshi sostenevano la linea del dialogo, iniziato lo scorso settembre e interrotto a fine novembre perché le richieste del TTP apparivano onerose. Domandavano soprattutto la scarcerazione di militanti accusati di sanguinosi attentati. Solo i due mesi di trattative avevano interrotto le azioni del gruppo che durante il 2021 ha inanellato oltre quaranta attacchi, conclusi con l’uccisione di 79 persone.
Fra le vittime anche inermi cittadini, sventrati da bombe o finiti dentro sparatorie che colpivano membri di polizia ed esercito. Ora l’attuale premier Shehbaz Sharif e il ministro degli Esteri Bhutto Zardari pensano di rilanciare colloqui col gruppo armato, simili a quelli che criticavano a Khan, sempre inseguendo una pacificazione tutt’altro che semplice. Già nei mesi scorsi ‘facilitatore’ degli incontri era stato Sirajuddin Haqqani, leader dell’omonimo clan afghano, e dallo scorso settembre ministro dell’Interno dell’Emirato talebano.
Alcune decine di manifestanti sfidano i talebani
Ansa, 29 maggio 2022
Alcune decine di donne hanno sfidato il regime dei Talebani in Afghanistan, inscenando una protesta a Kabul per chiedere "pane, lavoro e libertà" e chiedendo il diritto all'istruzione femminile.
Lo constatano fonti giornalistiche sul posto.
Estradizione dei curdi e armi per Ankara sono le richieste di Erdogan in cambio dell'ammissione di Svezia e Finlandia nella Nato
Chiara Cruciati, Il Manifesto, 18 maggio 2022
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vede sempre opportunità nelle faglie europee, di fronte a una crisi o a un cambio di paradigma ha spesso la carta buona da giocare. Lo ha fatto con l’emergenza migratoria siriana in piena guerra civile, strappando all’Europa sei miliardi di euro per “gestire” tre milioni di profughi, e lo ha fatto nell’ottobre 2019 con il ritiro Usa dalla Siria del nord-est, occupando un pezzo di Rojava dove impiantare un semi-emirato islamista.
Oggi sul tavolo ha l’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia. Erdogan sa che serve l’unanimità e ha posto le sue condizioni, niente arriva gratis: Helsinki e Stoccolma devono cessare di essere Stati-santuario del Pkk, consegnargli i membri del Partito curdo dei Lavoratori e cancellare l’embargo di armi verso Ankara deciso proprio nel 2019, a fronte dell’occupazione delle città curdo-siriane di Gire Spi e Serekaniye.
Così i due paesi scandinavi invieranno delegazioni in Turchia per negoziare il sì di Ankara all’adesione. Il prezzo lo pagheranno i curdi, quelli in diaspora e chi in Medio Oriente lavora da anni alla costruzione di società alternative al settarismo regionale, tra Siria e Iraq.
In Svezia e Finlandia vivono circa 100mila curdi, l’80% in territorio svedese. L’emigrazione è iniziata negli anni ‘70, per farsi più prepotente dopo il colpo di stato turco del 1980. Secondo Ankara, da qui il Pkk gestirebbe la sua rete di finanziamenti e reclutamento in Europa, grazie alla tolleranza delle autorità locali.
Il ministro degli esteri Cavusoglu ha detto di aver condiviso con le autorità svedesi le prove della presenza di membri del Pkk sul territorio dello stato, liberi di operare: «Gli abbiamo detto che non ci basta la dichiarazione della Svezia che il Pkk è già sulla loro lista del terrorismo – ha riportato ai giornalisti Cavusoglu domenica scorsa, dopo un incontro con gli omologhi di Helsinki e Stoccolma – Ci hanno risposto che penseranno a un nuovo piano».
Lunedì qualche dettaglio in più. Ankara avrebbe chiesto alla Svezia l’estradizione di undici presunti membri del Pkk, alla Finlandia di sei, seppur la lista dei desideri sarebbe ben più lunga: secondo il ministero della giustizia turco, negli ultimi cinque anni sarebbero state mosse 33 richieste di estradizione, mai accolte.
Dire.it Alessandra Fabretti 17 maggio2022
La responsabile del settore migrazioni di ARCI, Valentina Itri: "Pur di far partire le persone abbiamo acconsentito a farci carico dei voli"
ROMA – “Purtroppo ad oggi nessun afghano dei 1.200 che il governo italiano aveva promesso di portare in sicurezza nel nostro Paese con i corridoi umanitari è stato messo in salvo in Italia. La firma del protocollo con le associazioni, tra le quali la nostra, risale al 4 novembre scorso”.
Valentina Itri è responsabile del settore migrazioni di Arci, una delle organizzazioni (tra cui Cei, Sant’Egidio, Federazione chiese evangeliche ‘Fcei’, Tavola Valdese, Inmp, Iom e Unhcr) con cui sei mesi fa la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, in una cerimonia al Viminale, alla presenza di rappresentanti del ministero degli Affari esteri, ha siglato l’accordo per far arrivare nel nostro Paese gli afghani rifugiati in Pakistan e Iran, fuggiti perché esposti al rischio di subire violenze e ritorsioni da parte del governo dei talebani salito al potere nell’agosto precedente, dopo che i contingenti Nato avevano lasciato il paese.
Cisda.it - 26 maggio 2022
UN APPELLO AL GOVERNO DRAGHI PER L’ESTENSIONE DEI CORRIDOI UMANITARI ALLE PERSONE A RISCHIO DI VITA E DI PERSECUZIONE IN AFGHANISTAN, RIMASTE ESCLUSE DALLA LISTA DEI 1200 FINORA INSERITI
Il tema della discriminazione fra profughi di serie A e profughi di serie B si sta scaldando anche sulla stampa. Le organizzazioni della società civile in contatto con la realtà afghana ricevono costantemente richieste di assistenza alla fuga dall’Afghanistan, o all’uscita dai paesi di transito dove numerose famiglie, singoli attivisti e attiviste e persone oggetto di discriminazione per la loro condizione personale o professionale, sono costrette a soggiornare in attesa di partire. Dopo tante risorse spese per spostarsi al di fuori del proprio paese, i loro visti sono in scadenza, o scaduti, e le spese di mantenimento diventano insostenibili. Per molte e molti, la permanenza in questi paesi confinanti è un ulteriore fattore di rischio per la presenza di organizzazioni fondamentaliste legate, o meno, al governo talebano, o per la prassi sempre più diffusa dei rimpatri.
Si tratta in gran parte di persone che si sono esposte pubblicamente durante il periodo dell’occupazione militare Nato a guida USA, e che anche la clandestinità non può proteggere. La vergogna per le incresciose modalità con cui si è svolto il ritiro delle truppe occidentali, non è cancellata dal nuovo dossier ucraino perché le ragioni che sono all’origine del disastro a cui abbiamo assistito a metà agosto sono ben presenti alla nostra memoria e sono parte delle lezioni afghane che dovrebbero essere patrimonio anche della politica.
Sale anche lo scandalo per l’incomprensibile blocco dei corridoi umanitari che avrebbero dovuto portare in salvo in Italia almeno un primo gruppo di 1.200 persone a rischio di vita e di persecuzione in Afghanistan, dopo il ponte aereo dell’agosto scorso.
Siamo consapevoli che i corridoi umanitari non rappresentino una misura sufficiente a rispondere al bisogno di protezione, e che il loro carattere discriminatorio sia un loro limite: evidente a chi li attua, e soprattutto a chi vi rimane escluso. Come organizzazioni della società civile denunciamo però come inaccettabile, il blocco di quelli previsti dal Protocollo firmato il 4 novembre scorso tra Cei, Sant'Egidio, Federazione chiese evangeliche 'Fcei', Tavola Valdese, Arci nazionale, Inmp, Iom e Unhcr per l’incredibile motivazione addotta dal nostro Governo, come riportato da più fonti: la mancanza della strumentazione per la rilevazione delle impronte digitali presso le sedi delle nostre ambasciate in Pakistane e Iran.
Riteniamo inoltre incredibile sul piano della corretta gestione della materia migratoria - come rilevato dagli interventi degli esponenti delle organizzazioni coinvolte nella realizzazione dei corridoi umanitari dall’Afghanistan al recente Festival Sabir di Matera – che il Governo italiano proponga addendum al testo firmato per caricare sulle spalle del privato sociale ulteriori spese, inizialmente non previste, spostando ulteriormente la gestione dell’assistenza alle persone in fuga, dal piano pubblico a quello privato. Lo riteniamo inaccettabile soprattutto alla luce della spesa militare continuamente in crescita e di quanto speso in armi anche in Afghanistan in questi ultimi 20 anni.
Oltre a richiedere lo sblocco dei corridoi umanitari per i quali il Governo italiano ha preso impegni precisi, chiediamo soprattutto, e con forza, l’avvio di sistemi efficaci e continuativi di messa in protezione delle persone a rischio e un loro trasferimento veloce in Italia.
Attendiamo provvedimenti concreti e tempestivi che mettano fine alla ulteriore sofferenza oggi inflitta tramite mezzi amministrativi ai richiedenti asilo.
Le organizzazioni interessate a sottoscrivere l'appello possono scrivere una mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Primi firmatari:
Adesioni:
Adesioni di forze politiche e sindacali:
Le organizzazioni interessate a sottoscrivere l'appello possono scrivere una mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
PICCOLA RASSEGNA STAMPA
https://www.dire.it/25-05-2022/739926-afghanistan-lappello-di-una-rifugiata-in-pakistan-italia-se-mi-dimentichi-muoio/
https://www.dire.it/17-05-2022/736085-afghanistan-le-ong-i-corridoi-umanitari-per-litalia-non-sono-mai-partiti/
https://www.facebook.com/SabirFestivall/videos/414486453522755
https://www.repubblica.it/cronaca/2022/05/16/news/donne_afghane_corridoi_umanitari-349840853/?fbclid=IwAR2_yiTxStI1qCubp3t4P4nz6qyKKrlbs4VjpW4RiIW5XVku2bLzEsbPE9o
https://www.dire.it/04-11-2021/682794-afghanistan-litalia-accoglie-1200-profughi-con-i-corridoi-umanitari/
Espresso.repubblica.it Giuliano Battiston da Kabul 25 maggio 2022
Sono attiviste, studentesse, giovani afghane pronte a ribellarsi al decreto che le costringe a mostrare solo gli occhi. mantenere la loro libertà: alzeranno la voce e combatteranno per diritti, libertà e indipendenza»
«Il mio nome? Usalo pure, bisogna avere coraggio per affrontare un periodo così buio». Occhiali rettangolari sotto un velo marrone come il vestito, è una scrittrice. «Ho pubblicato una decina di libri, molti di satira politica e sociale, altri di racconti per bambini e poesie. A volte li ho stampati a mie spese e distribuiti nelle librerie o nei negozi come questo».