di Stefano Gallieni, a-dif.org
Cristiana Cella è una giornalista che segue le vicende dell’Afghanistan dal 1980. Dal 2009 è esponente del CISDA (Coordinamento Italiano di Solidarietà con le Donne Afghane) e si è spesso avventurata in quel grande e straordinario paese. In un libro intenso, doloroso ma carico di vita “Sotto un cielo di stoffa”, pubblicato a maggio del 2017 da La Città del Sole (pp.296, 13 Euro) e corredato dalle foto della collega Carla Dazzi, ha fatto arrivare anche in Italia un vero e proprio messaggio di lotta partigiana. Storie delle avvocate di HAWCA ( Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan), delle donne assistite, di chi si ribella al patriarcato fondamentalista, di chi subisce, di chi è complice e carnefice e di chi cerca di costruire un futuro diverso. Storie cariche di buio ma in cui si intravvede perennemente la luce, una luce più forte e più potente di ogni brutalità. Proviamo intanto a riportarne una, quella che apre questo prezioso volume:
Kabul – Quartiere di Shirpoor, ore 6,30
ROSHAN
Ecco, la porta si chiude con un colpo cattivo. Le voci nel cortile. Mursal chiama «mamma». No, mamma non viene al matrimonio, mamma non viaggia, non ha diritto alla festa. Punizione. Mamma non è una brava moglie da mostrare in famiglia. O forse è la mia faccia che non è bella da portare in giro. La cicatrice sulla guancia, quella crosta sul labbro che non vuole guarire… quei braccialetti neri sui polsi, le sue maledette corde, no, non sono gioielli di famiglia.
Se ne sono andati. Tutti. Anche i suoi uomini, grazie a Dio. Hanno sprangato la casa. Il silenzio, nuovo, si posa nella stanza. Intonso. Sol- tanto mio. La solitudine, il riposo. Punizione? No, forse no. Devo pulire tutto e preparare la cena, ma l’ostilità della casa perde forza, sembra che ci sia più spazio. Posso respirare fino a stasera, quando tutto ricomincerà.
Ecco, posso sedermi sul tushak, vicino alla finestra, il posto di mio marito, perla prima volta. Si sta bene. Chiudere gli occhi e fingere che non ci sia più niente. Uscire da questa vita, come da un vestito. Mi sento leggera, il mio triste corpo non pesa più. Là fuori, c’è gente che deve sentirsi così. Se non ci fossero le bambine con loro, potrei pregare. Pregare, che saltino tutti su una mina, bella grossa. Un botto e basta. Tutto finito. Ma ci sono le bambine in quella macchina. Sono tutto quello che ho. Tutto quello che sa di amore. Altro non c’è.
Cos’è, adesso? Ho perso il silenzio. Un rumore ritmico, regolare, insistente. Ah, sì, la finestra della cucina sbatte. Se la sono dimenticata. Carcerieri distratti. È aperta, bassa, si può scavalcare. Inaspettata. Un pensiero prepotente, che non posso allontanare, mi spinge. Mi alzo. Eccola. Quella finestra può cambiare tutto. La mia vita, dove non vive niente. Continua a sbattere, mi chiama. È una giornata speciale, l’unica forse. La paura fa male allo stomaco ma passerà, deve passare. E se non passa? Forse è meglio aspettare… magari un’altra volta. No, non ce ne saranno altre di volte. Questa giornata è un dono di Allah. Devo esserne degna. Il burka è lì, appeso al chiodo. I vicini sono al lavoro. So, dove devo andare. Il biglietto che mi ha dato Habeba l’ho bruciato, l’indirizzo lo so a memoria. Conosco il posto. Ce la devo fare. Per me e per le piccole. Ecco, la finestra si spalanca, il vento entra ed esce… entra ed esce.
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