La Palla della Speranza: un inizio, non una fine
8AM.MEDIA, 12 luglio 2025, di Salonia Salahshoor
Un modo delle donne per resistere [n.d.r.]
Il sole era impietoso, ci bruciava la pelle e ci imponeva la resa. Ma i nostri cuori battevano più forte. Ci spingevano a restare, a continuare a correre. Sussurrando: giocate di più, correte più veloci, ridete più forte. Perché non era solo un gioco, era un atto di resistenza. Ogni secondo trascorso su quel campo era tempo rubato, un frammento di libertà in un mondo che voleva silenzio e immobilità per noi.
Questa era solo la prima partita, una partita in cui non c’era nulla di pronto. Niente scarpe da ginnastica, niente uniformi adeguate, nemmeno un pallone decente. Raccogliemmo una vecchia palla di plastica semisgonfia e corremmo su un campo di cemento, duro e rovente sotto i nostri piedi. Indossavamo abiti lunghi, da tutti i giorni: i nostri chador e sandali economici. Ma a chi importava? Il solo fatto di essere riusciti a riunirci, al riparo da occhi indiscreti, era già una vittoria.
Il nostro gioco sembrava più una corsa caotica che un vero calcio. La palla continuava a sfuggirci di mano e a sbattere contro i muri. A volte, i nostri piedi si impigliavano nei vestiti e cadevamo. Ma ridevamo a crepapelle, dal profondo dell’anima. Era così che giocavamo, non nonostante il caldo, ma proprio per quello. Perché se riuscivamo a sopportare quello, potevamo sopportare qualsiasi cosa. Il sole picchiava dal cielo come se i suoi raggi cocenti stessero schiacciando il terreno screpolato sotto di noi. Anche solo respirare quell’aria secca e rovente era una battaglia. Ma niente di tutto ciò importava. Perché in quel giorno indimenticabile, giocammo a calcio per la prima volta. E non fu solo una partita: fu la prova vivente dello spirito indomito di ragazze che desideravano un campo tutto loro. Un campo che, sebbene lontano anni luce dagli stadi dei nostri sogni, era sacro per noi.
I talebani avevano costruito il loro campo: un mondo di aridità, restrizioni e controllo soffocante. Ma qui? Qui c’era il nostro campo. Un pezzo di terra rubato dove, per qualche ora, abbiamo scritto le nostre regole.
Correvamo con abiti lunghi che ci avvolgevano le gambe, con sandali con i tacchi alti che sprofondavano nel fango a ogni passo. Ridicolo? Forse. Ma la cosa veramente ridicola era l’idea che tessuti e scarpe potessero imprigionare la nostra gioia. Ogni caduta, ogni scoppio di risate che seguiva i nostri inciampi era un duro colpo in faccia a coloro che pensavano di poter dettare come ci muovevamo, come vivevamo. L’aria era densa di calore, ma le nostre risate erano fatte di libertà: la libertà delle ragazze in un paese chiamato Afghanistan. Non erano solo suoni; ogni risata, ogni grido di vittoria mentre la palla roteava in aria era un mattone nel mondo che stavamo costruendo. Un mondo in cui esistevamo con coraggio e senza scuse.
Non avevamo arbitri né tribune. Nessun trofeo ci aspettava. Ma nella nostra mente? Eravamo giganti. Ogni scatto dopo il pallone era una corsa verso qualcosa di più grande di noi. Con ogni passaggio, non stavamo solo giocando: stavamo riscrivendo la storia. Nella nostra immaginazione, quel terreno polveroso diventava uno stadio olimpico, echeggiando delle acclamazioni di migliaia di persone. Il pallone ai nostri piedi non era solo cuoio e aria: era speranza, una promessa e la prova che anche in una gabbia si possono spiegare le ali.
Il tempo non è mai stato dalla nostra parte. L’orologio continuava a ticchettare, le ombre si allungavano. Un silenzioso avvertimento che tutto questo non sarebbe durato. Ma in quegli attimi fugaci, abbiamo costruito l’eternità. La palla che roteava in aria era un simbolo di vita in un mondo che ci voleva insensibili. Questo era più che football; questa era alchimia. Abbiamo preso la polvere, la paura e le regole fragili e le abbiamo trasformate in oro.
Nessuno ha battuto il tempo. Forse abbiamo giocato solo per venti minuti. Prima che qualcuno se ne accorgesse, prima che potesse sorgere qualche problema, prima che la nostra gioia diventasse un pericolo, abbiamo concluso la partita. Ma quei venti minuti sono stati sufficienti. Abbastanza per dimostrarci che, nonostante tutti i limiti, potevamo ancora creare momenti che ci appartenevano. Momenti semplici, eppure traboccanti di significato. Quel giorno non avevamo arbitri, spettatori e un campo vero e proprio. Ma ciò che avevamo era più prezioso di tutto ciò: la voglia di giocare. Anche sul cemento rovente, anche solo per pochi minuti, anche con ogni limite.
A partita finita, abbiamo lasciato il campo senza fiato, ma trasformati. Le nostre braccia erano intrecciate sulle spalle. Potevano prendere palla. Potevano scendere in campo. Ma non avrebbero mai potuto spegnere il fuoco che avevamo acceso nei nostri cuori. Perché la libertà non è un luogo, è un sentimento. E una volta che l’hai assaporata, anche solo per un attimo, la insegui per sempre. Quindi lasciali costruire recinti. Lasciali scrivere leggi. Continueremo a giocare. Continueremo a ridere. Continueremo a sognare stadi che un giorno saranno nostri.
Potete leggere la versione persiana della storia di questa donna afghana qui
[Trad. automatica]
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