Tre anni fa la fuga da Kabul: la difficile integrazione dei profughi afghani
Avvenire, 14 agosto 2024, di Viviana Daloiso, Antonella Mariani e Pino Ciociola
Salvati e poi stritolati dal sistema di accoglienza italiano, che non ne riconosce i titoli di studio. Chi ce l’ha fatta, chi si è accontentato, chi ha deciso di tornare nell’inferno dei taleban
La paura, lo smarrimento, i sogni sbiaditi nello spazio d’una notte e di un giorno. La fine del mondo di prima porta la data del 15 agosto 2021 per l’Afghanistan. Tre anni sono passati da quando Kabul è ritornata nelle mani dei taleban: passano davanti agli occhi le scene di disperazione all’aeroporto, i bambini buttati di là dalle reti nelle mani dei soldati e degli operatori umanitari per salvare loro la vita, gli uomini e le donne appesi ai carrelli dei voli stracarichi di persone in fuga dell’abisso di un regime che prometteva di stravolgere il seppur fragile castello di diritti e di libertà costruito grazie all’aiuto dei governi occidentali. Tutto in briciole. Il Paese tornava nel buio, le famiglie venivano separate, chi aveva collaborato con il governo, con l’Onu e le Ong perseguitato, le donne allontanate dalle scuole, dai luoghi di lavoro, infine cancellate dalla vita sociale in un inferno presto dimenticato da tutti. Più rumorosa la guerra nel cuore dell’Europa, più dirompente il 7 ottobre di Israele e lo scontro con Hamas, che in queste ore tiene col fiato sospeso il mondo intero per le sue conseguenze sullo scacchiere internazionale. Dell’Afghanistan, di chi ci vive nascondendosi, di chi è scappato o tenta la fuga affrontando viaggi impossibili e spesso il rischio di morire, come avvenuto sulle coste di Cutro, non parla più nessuno o quasi.
L’Italia c’è stata. In quelle prime, concitate ore, con le evacuazioni, l’intervento dei diplomatici e delle forze militari, coi voli diretti a Roma. Poi nell’accoglienza degli oltre 5mila afghani arrivati nel nostro Paese nelle prime settimane, per lo più collaboratori di missioni internazionali, attivisti, giornalisti e membri delle minoranze etniche. Infine con l’accordo sull’apertura di corridoi umanitari, siglati tra ministero dell’Interno e degli Esteri con la Cei (attraverso Caritas Italiana), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci, che in Italia avrebbero dovuto portare 1.200 profughi e che da quel 2021 a più riprese hanno consentito l’arrivo di quasi 2mila persone, le ultime appena qualche settimana fa. Nel nostro Paese ci sono oltre 10mila afghani oggi, più uomini che donne (sebbene siano queste ultime, si è detto, a pagare lo scotto più alto del ritorno del regime).
Un bilancio in chiaro, a guardare lo sforzo degli attori coinvolti e il supporto offerto sia in termini abitativi che psicologici e legali , ma che presenta anche molte ombre legate alle contraddizioni del sistema d’accoglienza italiano, spesso incapace di costruire progetti di integrazione di più ampio respiro, adeguati alle necessità e alle risorse dei migranti con cui di volta in volta si interfaccia. E più che mai questo è accaduto con gli afghani, che si sono presentati subito come rifugiati “speciali”, di estrazione sociale elevata, con un’età compresa tra i 30 e i 55 anni, strappati da vite agiate e da impieghi qualificati nelle agenzie internazionali, nei tribunali o nelle università e negli ospedali. Va letto in questa unicità l’inizio di un’odissea che li ha visti, oltre che stravolti per quanto stava accadendo a casa e spaesati per l’adattamento alla vita in un nuovo Paese, spesso incapaci di adattarsi alle poche e decisamente poco allettanti possibilità di inserimento lavorativo offerte in Italia: le Ong, che pure hanno lavorato a tavoli comuni per costruire progetti di accompagnamento mirati, hanno ben presto dovuto affrontare il burn out dei profughi legato al diniego del riconoscimento dei titoli di studio, alla difficoltà dei percorsi scolastici per i figli arrivati tramite ricongiungimenti, all’impossibilità di accedere a contratti in campo sanitario o giuridico, persino al rifiuto degli affitti per le case. Col risultato che, a tre anni di distanza, scaduti i programmi di assistenza previsti e le borse di studio, molti degli afghani arrivati in Italia sono finiti anche col ripartire, chi alla volta del Canada, chi della Germania (Paesi in cui le loro competenze sono ben più valorizzate), chi di Pakistan e Iran, con la speranza di poter rientrare più facilmente nel vicino Afghanistan. Dove la situazione, però, resta disastrosa.
Un fallimento? «Più un rimpianto – spiega Livia Maurizi, coordinatrice della Ong Nove Saving Humans, da anni impegnata in prima linea nel Paese con progetti di imprenditoria ed empowerment femminile e che ha collaborato con il nostro giornale nella campagna #avvenireperdonneafghane –. È chiaro che ogni storia va inquadrata nel suo specifico, ma resta senz’altro l’amarezza per l’incapacità di cogliere il potenziale di chi è arrivato in Italia da quel 2021: abbiamo giovani donne medico, o infermieri specializzati, tanto per fare un esempio, che servirebbero moltissimo al nostro Servizio sanitario e che non siamo in grado di valorizzare». Badanti, addetti alle pulizie, nella migliore delle ipotesi mediatori o mediatrici culturali, questo il destino segnato per i rifugiati «in un Paese, il nostro, a cui serve uno scatto di lungimiranza – continua Maurizi – in termini di politiche di accoglienza. Che è quello su cui vogliamo tornare a insistere con il governo, insieme alla necessità di percorsi più facili e più brevi nel riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze». Aprire le porte non è bastato e non può bastare.
Table of Contents
ToggleSadia, la laurea da ostetrica e un presente da pasticciera
A Sadia piacciono tutti i dolci italiani, ma se deve scegliere dice il tiramisù. Lei però le torte non le mangia, le prepara. Mai avrebbe pensato di fare la pasticciera: ha studiato da ostetrica, quello era il lavoro verso cui era avviata quando viveva in Afghanistan e il futuro era ancora un orizzonte rosa. Il 15 agosto 2021 Sadia Saddiqi ha visto di persona il primo taleban della sua vita, quando gli studenti coranici sono entrati a Kabul e hanno spazzato via tutto: sogni, progetti. Lui stava di fronte a casa sua, armato, e loro si sono sentiti in pericolo. La madre di Sadia, Suhaila, lavorava in un programma di microcredito per l’imprenditoria femminile per conto della ong italiana Pangea. Il padre e il fratello maggiore sono ingegneri e avevano un buon impiego. Sadia aveva 22 anni e svolgeva il tirocinio in un ospedale della capitale. Già da giorni i responsabili di Pangea aveva ordinato di distruggere i documenti, abbandonare la sede: i taleban avrebbero cercato tutti coloro che collaboravano con gli occidentali o con il governo da loro sostenuto. La famiglia di Sadia, 10 persone in tutto, si trasferì in una abitazione sicura accanto all’aeroporto, per tre volte cercò di imbarcarsi ma in quelle ore convulse dell’esodo nulla era sicuro. «Non avevo mai viaggiato fuori dall’Afghanistan. Non abbiamo preso nulla da casa perché non volevamo dare nell’occhio con le valigie. I taleban che stazionavano davanti a casa nostra chiesero dove stavamo andando. Ho avuto paura, sì. Io sono partita con uno zainetto: un paio di pantaloni, il velo, quattro vestiti. Non ho preso nient’altro».
Sadia è una degli oltre 5mila afghani trasferiti in Italia nei giorni successivo alla capitolazione di Kabul. Loro dapprima andarono in un centro di accoglienza vicino a Napoli, poi dopo 3 mesi furono trasferiti a Milano, dove sono stati inseriti in un progetto di sostegno del Cas (Centri di accogienza straordinari, gestiti dal ministero degli Interni tramite le prefetture). La trafila è stata la stessa per tutti: i corsi di italiano e quelli professionali, i documenti, il percorso verso un’autonomia… «Ho seguito un corso di pasticceria e dopo 6 mesi di tirocinio ho trovato un lavoro che mi piace, inizio al mattino presto a preparare le basi per le torte in una grande catena di ristorazione. Ma a Milano non ci potevamo stare, il progetto di sostegno è terminato e gli affitti sono troppo cari». Pochi mesi fa Sadia e la sua famiglia si sono spostati in un paesino della provincia di Pavia, lì la vita è più facile anche se per arrivare al lavoro in treno deve partire all’alba. Due fratelli hanno già un impiego, la madre e il padre fanno più fatica per via dell’italiano, la sorella attende la conferma da una catena di supermercati. E il diploma di ostetrica? «Sto cercando di farmelo riconoscere, ma la strada è lunga, e difficile. Il mio diploma di laurea è rimasto a Kabul e devo trovare il modo di farlo recuperare all’università e farmelo arrivare qui». In Italia, dice Sadia, «mi sono trovata bene, non mi sono mai sentita straniera. Se penso ai miei parenti rimasti a Kabul? Sempre. Ho paura per loro. Le mie cugine non possono più studiare e si sono sposate, giovani. Non era il loro sogno, volevano laurearsi, avere una professione. Tutto è cambiato tre anni fa».
Una primavera per Bahara: «Posso ritornare a scuola»
Brillante, determinata, afghana, diciannove anni. Quando ne aveva sedici, i taleban si prendono l’Afghanistan e di colpo niente più scuola, niente più uscite e qualsiasi libertà, solo burqa e un matrimonio combinato con uno sconosciuto molto più grande di lei. Il suo nome, Bahara, significa primavera. E lei racconta che «viveva in prigione», che avrebbe voluto «solo studiare» e che aveva «tanta, tanta paura», era «disperata» perché i taleban «avevano detto che mi avrebbero portata via da casa e data in sposa a uno di loro».
Lo aveva capito chiaro e tondo: fosse rimasta lì, «sarei morta o, peggio, venduta a un vecchio taleban» e fine della storia. Solo che Bahara non è una da destino segnato. Anche perché la sua famiglia è con lei e pronta a farla scappare e aiutarla, per farle scampare quelle due strade. Lei inventa qualsiasi cosa pur d’avere il passaporto e ci riesce, scappa in Pakistan, accompagnata dal fratello, che poi torna indietro. Tutto a posto? Macché, comincia invece la seconda parte della sua vita in ballo. Gira mesi fra case diverse e sicure, quelle per ragazze che devono nascondersi. Sa che la polizia pachistana di tanto in tanto si mette a fare retate per rimpatriare gli afghani, anche quelli con i documenti a posto. E, specie per una ragazzina sola, spesso finisce molto male. Nonostante sia entrata legalmente, con un visto regolare, un pomeriggio le si gela il sangue, un poliziotto la ferma, ma chissà perché la libera: «Stavolta ti lasciamo andare, ma sappiamo chi sei e la prossima ti deportiamo», le dice. Dopo, Bahara quasi nemmeno esce più.
Nel frattempo, cerca in ogni modo d’entrare in uno dei corridoi umanitari verso l’Italia, quelli che dopo il 15 agosto 2021 sono stati effettuati per dare una speranza a coloro che sono nelle situazioni più difficili. Per darle una mano si muovono associazioni italiane, organizzazioni internazionali, privati cittadini. Non è facile per niente, ma pian piano ce la fanno: Bahara viene presa a cuore per la sua forza, la sua voglia di cambiare quel suo destino e per l’esempio che, senza saperlo, sta dando. Senza mai perdere tempo: da profuga in Pakistan ha anche approfondito online l’inglese e imparato un po’ di italiano, sperando prima o poi di venire qui. Un sogno realizzato: qualche settimana fa proprio attraverso i corridoi umanitari è sbarcata a Roma. Senza aver mai viaggiato in vita sua. Sola. Senza parenti, né amici, senza conoscere nessuno e giusto con uno zainetto a tracolla. Lei sorride, frastornata, felice, eppure col gran dolore d’aver lasciato la sua famiglia in Afghanistan. L’hanno accompagnata subito in una cittadina del Sud e a settembre andrà a scuola, frequenterà la quinta superiore, con il sostegno dell’associazione Nove Caring Humans che cura il progetto di integrazione. Sa bene che sarà dura, durissima, però con quel che ha passato, lo ripete, due, tre volte: «Se un anno fa fossi rimasta a Kabul, sarei morta. Se un anno fa mi avessero detto che adesso sarei stata qui, non lo avrei mai creduto».
Lascia un commento