Le donne afghane senza età: Aziza, Farzana e la scuola negata
Domani, 28 maggio 2025, di Chiara De Stefano Intersos
I diritti e l’autonomia tra fame e freddo
Nei villaggi rurali del sud del paese le persone non conoscono la loro età, le donne contano gli anni dal giorno del loro matrimonio e l’unico obiettivo per il futuro è sopravvivere. A nord e a ovest del paese, nelle grandi città come Kabul e Herat, le donne a 12 anni sono costrette ad abbandonare la scuola e a smettere di sognare. A Roma, in piazza Testaccio, dal 28 maggio al 19 giugno la mostra “Vite senza tempo” della fotografa Cinzia Canneri testimonia la realtà: al seguito dell’organizzazione umanitaria INTERSOS
Aziza ha cinque figli e un volto dall’età indefinibile. Viene da un villaggio della provincia di Zabul, nel sud dell’Afghanistan. Non sa quando è nata, e se le viene chiesto risponde: «Dieci anni dal giorno del mio matrimonio». Sono passati dieci anni dall’evento cruciale della sua vita: il giorno che è stata data in sposa è quello in cui il tempo ha cominciato a scorrere. L’anno zero della sua esistenza.
Vale per lei, vale per la maggior parte delle donne. È la normalità in queste aree dove il ritorno al potere dei Talebani nell’estate del 2021 ha inasprito le condizioni di vita delle donne, ma non le ha cambiate poi tanto rispetto al passato. L’obbligo del burqa, l’accompagnatore necessario per uscire di casa, lo studio consentito solo per pochi anni – ma che di fatto, qui, in moltissime non cominciano nemmeno – sono parte della cultura dell’Afghanistan meridionale da decenni.
I villaggi del sud
Qui al sud, tra i muri giallo ocra dei villaggi rurali, che, quando d’inverno si imbiancano rimangono quasi del tutto isolati, l’unità di misura del tempo che passa, della vita che scorre, non sono le ore, i giorni, gli anni. Ma gli eventi, quando ci sono. Le persone non sanno quando sono nate e non sanno cosa sarà di loro il giorno dopo. Sanno solo quello che gli succede. In quei posti, passato, presente e futuro sono impastati tra di loro in un’unica dimensione: basta non morire di fame, di freddo, di malattia. Ma di fame, di freddo, di parto e di malattie facilmente curabili in altre aree del mondo, si muore troppo spesso.
Ora Aziza è nella sala d’attesa nel centro Barkozai, un presidio sanitario allestito dall’organizzazione umanitaria Intersos, con il sostegno dell’Unione europea, per assistere la popolazione dei villaggi della zona. L’ala femminile del centro è stracolma di donne incinte, mamme con neonati e con bambini malnutriti che hanno bisogno della terapia, o sono in attesa delle vaccinazioni.
Dall’ostetrica
Sta aspettando l’ostetrica con la quale parlerà della decisione, maturata insieme a suo marito, di non avere più figli. Non sanno come sfamarli. Quando entra nella stanza e si stende sul lettino, Aziza mostra il volto che prima era nascosto dal burqa. Nonostante la pelle seccata dal sole, si intuisce che è molto giovane, si vede dagli occhi e anche dal sorriso. Ma lo sguardo è assente, forse impaurito. L’ostetrica di Intersos, una donna giovane e paziente (che, nonostante il divieto per le donne, può lavorare grazie alla deroga sulle attività sanitarie), spiega che Aziza non ha solo enormi problemi economici, come la maggior parte delle famiglie della zona, ma anche grosse difficoltà psicologiche.
Finita la visita, Aziza si riveste frettolosamente. Per arrivare a casa deve percorrere sentieri di terra e rocce, non sa esattamente quanto ci metterà e per questo preme per andar via subito. È impaziente di tornare dai figli più grandi rimasti a casa, tra quelle mura di fango e fieno che sembrano potersi sgretolare da un momento all’altro.
Le case dei villaggi rurali sono tutte simili: all’interno delle mura di cinta c’è un grande spazio con qualche utensile da lavoro, qualche animale, un angolo con una buca per andare in bagno e poco altro. Le stanze coperte da un tetto sono due o tre, hanno qualche telo sul pavimento su cui dormire. Non c’è acqua corrente, non c’è elettricità. L’immagine riporta a migliaia di anni nel passato, passato che qui però è il tempo presente, l’unico tempo a disposizione.
Sogni per il futuro? «Avere da mangiare per tutta la famiglia», risponde con un sorriso sereno un’altra donna, vicina di casa di Aziza. Lei di figli ne ha tredici, una è morta di fame quando era molto piccola e altre tre, ancora bambine, sono già promesse spose.
Sogni per il futuro. Altri, più vasti, sarebbero quelli di tante donne e ragazze – in particolare quelle che vivono in città, soprattutto a nord e ovest del paese – che hanno visto interrompersi il loro percorso di studi e restringersi, fino quasi a scomparire, gli spazi di autonomia e autodeterminazione. I sogni delle giovani operatrici sanitarie di Intersos, che, come tante altre studentesse sono state costrette a lasciare, per volere del governo, gli studi universitari; e i sogni delle bambine che non possono più andare a scuola dopo i dodici anni età. Perché così stabilisce una legge che nel 2021, con poche righe, ha riscritto il senso del tempo per le donne afgane.
Lo studio
Farzana ha quasi dodici anni. Vive a Herat, nell’Afghanistan occidentale, è figlia di un commerciante e di una dottoressa. È stata la prima della classe per tutto il suo corso di studi, ma non ha passato gli esami finali. Bocciata. Quando sua madre, incredula, le ha chiesto spiegazioni, lei ha ammesso di averlo fatto apposta: “Volevo solo continuare ad andare scuola”, ha detto.
Per Farzana sbagliare di proposito tutti i test è stato l’unico modo per rimanere aggrappata alla vita che voleva. E poco le è importato che, per ribellarsi a quella legge, ha dovuto condannare sé stessa al paradosso di continuare a vivere nel passato per poter sognare un futuro.
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