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Tag: Diritti delle donne

Comunicato L’apartheid di genere ci riguarda

“Apartheid di genere” (ADG) è stata la parola chiave della conferenza stampa che l’8 aprile il Cisda ha convocato presso la sala stampa del parlamento per illustrare la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere e la petizione al governo italiano – finora firmata da 2000 persone e 80 associazioni, ma è ancora possibile aderire – che chiede l’intervento attivo dell’Italia sia nel riconoscimento che in Afghanistan è in atto un sistematico e intenzionale ADG, sia nel sostegno del reato specifico di ADG nella Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità in preparazione all’ONU e che sarà in discussione all’Assemblea degli Stati nel 2026/27.

Una giornata importante per la nostra campagna, che nel pomeriggio si è concretizzata con la presentazione al mondo dell’attivismo e della solidarietà in un incontro aperto a tutti dove sono intervenuti/e rappresentanti di associazioni e di ong con testimonianze e opinioni.

Dopo la presentazione del Cisda che ha ripercorso la situazione attuale in Afghanistan e spiegato le motivazioni della campagna e della petizione al governo italiano, è intervenuta Belquis Roshan, ex parlamentare dell’Afghanistan ora rifugiata in Europa, ricordando che le donne afghane sono sottoposte a condizioni di vita orrende sotto il regime fondamentalista del suo paese. Alle donne è vietato lavorare e le ragazze, che non possono più frequentare la scuola, sono costrette, ancora giovanissime, a sposare i talebani, nell’immobilismo della maggior parte dei governi del mondo che si limitano a dichiarare il loro rammarico ma senza fare nulla, mentre gli Usa continuano a finanziare il governo talebano per difendere i loro interessi economici e strategici.

Lo sforzo che si sta facendo per il riconoscimento dell’ADG subito dalle donne afghane è importante – ha inoltre affermato Roshan – e dimostra un’alleanza sincera con le donne afghane.

Anche se sappiamo che molti governi hanno dimostrato di ignorare e calpestare i trattati internazionali e le risoluzioni delle Nazioni Unite, com’è avvenuto per i mandati di arresto verso personaggi politici che sono rimasti inapplicati senza che alcun governo abbia alzato la voce contro quei criminali e mentre Haqqani veniva vergognosamente graziato, il riconoscimento dell’ADG sarà un importante traguardo per le donne, la legalizzazione dei loro diritti e delle loro lotte.

Inalienabili, indivisibili e parte integrante dei diritti umani

Ci sono voluti 45 anni, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, perché anche i diritti delle donne fossero dichiarati inalienabili, indivisibili e parte integrante dei diritti umani, nel 1993 con la Dichiarazione della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna.

Poiché le convenzioni fra gli stati e le leggi esistenti riconoscono i diritti delle donne e dei bambini solo in situazione di guerra, e il crimine di Persecuzione di genere non è sufficiente a difendere le donne perché può essere applicato solo se connesso con altri crimini, è necessaria una Convenzione dell’ONU sui crimini contro l’umanità che contempli specificatamente il reato di Apartheid di genere, che è l’unico che può definire esaurientemente la situazione di segregazione e persecuzione che subiscono le donne in quanto genere nei paesi fondamentalisti e in particolare in Afghanistan, il più emblematico tra tutti.

Questo ha spiegato la giurista Laura Guercio, relatrice intervenuta alla conferenza stampa per illustrare la definizione di ADG redatta con il Cisda e inviata alla 6° Commissione dell’Onu incaricata di preparare i lavori della Convenzione con il contributo anche della società civile e dell’associazionismo. Definizione che ha già avuto un importante riscontro di apprezzamento da parte degli incaricati dell’ONU.

Ma la nostra Campagna non si limita a questo: chiede che il governo italiano, coerentemente con i trattati per la difesa delle donne e dei diritti umani sottoscritti dall’Italia, neghi il riconoscimento giuridico e di fatto al governo fondamentalista dei talebani, impedisca loro l’agibilità politica nei consessi internazionali e si associ all’azione degli Stati nella denuncia ai Tribunali internazionali.

La Conferenza stampa ha visto la partecipazione e il sostegno dei parlamentari Livia Zanella e Francesca Ghitta di AVS, Valentina Ghio del PD, Oscar Scalfarotto di Italia Viva, oltre a Marilena Grassadonia della Segreteria Nazionale di Sinistra Italiana, che hanno dichiarato la loro disponibilità a farsi carico degli obiettivi della Campagna con iniziative presso il Parlamento.

Finché non saranno diritti per tutte, i nostri saranno solo privilegi

Molto interessante è stato anche il dibattito proposto da CISDA nel pomeriggio al Polo Civico Esquilino. A esporre le loro esperienze e le tematiche di riflessione relative al fondamentalismo religioso e politico e alle ripercussioni sulla vita e i corpi delle donne, accanto a Belquis Roshan c’erano alcune rappresentanti dell’associazionismo: l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, Celeste Grossi dell’ARCI, Mirella Mannocchio della Federazione italiana delle donne evangeliche, Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.


In questo incontro Belquis ha avuto modo di raccontare con maggiore libertà e tempo la sua vita, iniziata durante la guerra che ha ucciso milioni di afghani e proseguita prima in Iran poi in Pakistan. Tornata in Afghanistan con la promessa degli Usa di ristabilire la democrazia, decide di impegnarsi in politica e vince varie elezioni fino a diventare parlamentare nel 2018, unica rappresentante a opporsi al patto di sicurezza con gli Usa, considerato paese invasore, e a opporsi alla liberazione delle migliaia di terroristi talebani nel 2020.

Costretta a lasciare il paese nel 2021, vive attualmente in Germania dove rappresenta la comunità afghana e lavora a sostegno delle donne afghane.

Parlando del suo paese, dice che il corpo delle donne afghane è un campo di battaglia tra Occidente e talebani, oggetto di trattativa per ottenere riconoscimento e fondi. Il governo talebano riceve sostegno economico da tutti i paesi del mondo, ma se questi aiuti non arrivassero non resisterebbe un solo giorno. Il fondamentalismo è uno strumento nelle mani occidentali per portare avanti i propri interessi geopolitici ed economici in alcune parti del mondo. “Solo con la solidarietà internazionale possiamo sopravvivere e combattere insieme le guerre nel mondo”.

Mayswon Majidi, imprigionata in Italia con l’assurda accusa di essere una scafista, e poi scagionata, ha parlato della sua esperienza di vita e di lotta con le donne curde contro il regime iraniano, lotta che è diventata globale perchè l’ADG è diffuso in tutti i Paesi anche se in forme meno evidenti. In Italia il patriarcato si manifesta con i femminicidi, in Iran con la repressione politica e la sharia. Tutte le situazioni sono legate e bisogna trovare una soluzione mondiale, fare alleanze per la pace fra tutte le donne facendo crescere in loro la consapevolezza dei loro diritti e delle loro capacità.

Mirella Mannocchio, pastora metodista presidente della FDEI, network di donne e organizzazioni appartenenti alle chiese evangeliche, da anni si impegna nella lettura della bibbia secondo una visione femminista e nella sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano le donne.

Il termine fondamentalismo è nato all’interno del cristianesimo, da cui poi sono derivati tutti i fondamentalismi. L’idea che la donna deve avere il corpo coperto proviene dall’ambito religioso, è legata al bisogno maschile di controllare il corpo femminile che riproduce la vita, capacità interdetta all’uomo. Nelle prime comunità cristiane alle donne veniva riconosciuto un ruolo di potere, ruolo perduto con l’istituzionalizzazione del cristianesimo. Da qui la necessità di recuperare una diversa interpretazione della bibbia e dei testi.

Celeste Grossi, della segreteria nazionale dell’Arci, ha spiegato che la sua associazione fin da subito ha sostenuto la campagna contro l’ADG e sostiene le donne iraniane e afghane anche con corridoi umanitari e case rifugio. Questo non per altruismo ma nella consapevolezza che finché i diritti non saranno per tutte, i nostri sono solo privilegi. “Siamo immerse nella cultura patriarcale e abbiamo atteggiamenti patriarcali. In alcuni luoghi il patriarcato è sistematico, in altri, come qui da noi, i diritti si stanno perdendo e quindi non dobbiamo accomodarci perché i diritti non sono per sempre. Bisogna sostenere le lotte di tutte, non sono le nostre lotte, sono le nostre lotte insieme alle loro e le loro insieme alle nostre”.

Lorena Di Lorenzo ha parlato dell’Afghanistan che è in Italia, quello delle migranti afghane. L’associazione, nata sul binario 15 della Stazione Ostiense, dove arrivavano e ripartivano i migranti afghani prevalentemente maschi, è ora un luogo di amicizia e di scambio paritario con un’ottantina tra donne e bambini, con funzione ponte tra i bisogni delle immigrate e i servizi del territorio e in dialogo con chi è rimasto là.

Dal 2021 stanno arrivando donne diverse, che sono scomode in Afghanistan perché contro corrente. Costrette in un sistema di assistenza frammentario e carente, rimangono deluse nelle loro aspettative e molte se ne vanno via. Bisogna parlare di cosa manca alle donne qui e non solo in Afghanistan, far accogliere un approccio di genere nelle politiche migratorie che colga la complessità dei loro bisogni e competenze.

Il lungo incontro è stato seguito con interesse e ha visto la presenza nel pubblico di diverse donne afghane immigrate in Italia da più o meno anni interessate ad avere un confronto con chi, come Belquis, è uscita dal paese in tempi recenti e ha avuto un ruolo di donna leader nel precedente sistema. Una giusta occasione per chi è sempre stata costretta a stare in silenzio.

Costruire un’impresa come donna nell’Afghanistan dei Talebani

 Atia FarAzar, Zan Times, 8 aprile 2025
Il mio laboratorio si trovava all’interno di una casa in un villaggio a pochi chilometri dalla città di Faizabad. Nel settembre del 2023, decisi di trasferire la filiale del laboratorio in città, ma per farlo era necessario il permesso del Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. Un giorno, io e un amico andammo nel loro ufficio, ma quando arrivammo all’indirizzo indicato non ci fu permesso entrare.

Quel ministero è fondato sull’odio e l’esclusione delle donne. Quel giorno, nemmeno la guardia all’ingresso ci ha guardato, né ci ha parlato direttamente. Quando ho provato a parlargli, se n’è andato senza rispondere e ha portato un altro uomo. Anche quell’uomo ci ha parlato con disprezzo e riluttanza.

A causa del mio genere, mi trattavano con disprezzo, si vergognavano della mia presenza in pubblico e accanto a loro. Mentre iniziavo a spiegare il motivo della mia visita, la guardia mi interruppe e disse: “Il nostro capo non ti riceverà. Vai a casa e fai le faccende domestiche. Cosa c’entra una donna con gli affari? Gli affari sono per gli uomini”. Le sue parole mi sembrarono proiettili al cuore: crudeli e disumanizzanti. Risposi con fermezza: “Ho una licenza del governo talebano, perché non dovrebbe essermi permessa?”. Senza dire una parola o lasciarmi finire, si voltò e scomparve nel suo ufficio.

Di conseguenza, non ho potuto aprire la filiale cittadina della mia officina a Faizabad.

Khatereh racconta

Mi chiamo Khatereh e ho 28 anni. Prima dei talebani, quando studiavo economia all’Università del Badakhshan, gestivo anche una piccola attività parallelamente agli studi. A quel tempo, io e un amico compravamo tessuti a poco prezzo, li facevamo cucire da un sarto e vendevamo i vestiti finiti online, guadagnando un piccolo reddito.

Dopo la laurea, mi sono trasferita a Kabul e ho trovato lavoro in un ufficio governativo. Come migliaia di altre ragazze, avevo molti sogni: costruirmi un futuro, avanzare nella mia carriera e far crescere la mia attività.

Ma nell’estate del 2021, quando i talebani entrarono in città, sembrava che tutte le porte della speranza fossero state sbattute. Il terrore travolse il Badakhshan. La gente era in preda al panico, cercava disperatamente di fuggire dal Paese: l’aeroporto era così affollato che c’era a malapena spazio per stare in piedi. A Faizabad, le notti risuonavano degli spari e dei lanci di razzi celebrativi dei talebani, a suggellare la loro vittoria. Per una come me – che, solo pochi giorni prima, inseguiva i suoi sogni – la vita sotto il dominio dei talebani divenne rapidamente insopportabile.

Col passare del tempo, alle donne vennero imposte sempre più restrizioni. Persero il diritto di studiare, lavorare o camminare da sole in pubblico. Per salvarmi dalla depressione, decisi di riprendere il mio vecchio lavoro, con qualche modifica. Alla fine del 2021, ho avviato un workshop con una formatrice e otto allieve. Non è stato facile: ho dovuto affrontare molte sfide.

Le donne sono sempre più invisibili

I talebani avevano quasi raddoppiato le tariffe per le licenze. La tariffa per le licenze delle ONG è stata aumentata da 30.000 afghani [420 dollari] a 50.000 afghani [700 dollari], e quella per le licenze commerciali da 10.000 [140 dollari] a 18.000 afghani [252 dollari]. Non potevo permettermi la licenza per le ONG, quindi mi sono registrata con una licenza commerciale. Ma con una licenza commerciale non posso candidarmi per progetti o accedere a programmi di sviluppo o assistenza di organizzazioni internazionali a sostegno delle donne.

Quando sono andata all’ufficio delle imposte per pagare la tassa di licenza, non c’era nessuna guardia al cancello. Ho bussato nervosamente ed sono entrata lentamente. Il direttore – un uomo con i capelli lunghi, la barba lunga e gli occhi cerchiati di kajal – ha urlato alle sue guardie non appena mi ha visto: “Perché avete lasciato entrare questa donna?”. Le guardie mi hanno trascinato fuori dal suo ufficio e mi hanno mandata in un’altra sezione.

Scossa e spaventata, entrai nel reparto successivo, dove fui trattata come un’aliena. Era chiaro che la presenza di una donna nel loro ufficio li metteva profondamente a disagio. Senza dirmi una parola, presero il pagamento della mia licenza e mi fecero uscire in fretta.

Questo tipo di trattamento non si limitava agli uffici governativi. Persino quando andavo a comprare materiali per l’officina, autisti e negozianti si rifiutavano di aiutarmi semplicemente perché non avevo un mahram. Avevano paura dei talebani perché avevano ordinato che nessun autista potesse dare un passaggio a una donna senza un accompagnatore maschile. Quando dovevo andare in città a fare la spesa, spesso dovevo aspettare a lungo sul ciglio della strada, finché un autista di buon cuore non provava finalmente pietà per me e mi portava in città.

Prima che i talebani salissero al potere, avevo avviato la mia attività con soli 2.500 afghani [35 dollari]. Dopo il loro ritorno, ho ripreso il lavoro con 25.000 afghani [350 dollari].

Ho anche aperto un reparto di incisione, parallelamente alla sartoria. Gli incisori incidono motivi decorativi sulle pietre preziose. Dato che l’estrazione e il mercato delle pietre preziose in Badakhshan sono fiorenti, ho potuto dare lavoro a molte donne e ragazze. Oggi, più di 100 donne e ragazze lavorano nel mio laboratorio, ognuna delle quali guadagna uno stipendio mensile che va da almeno 1.000 afghani fino a 15.000 afghani [209 dollari].

Purtroppo, la vita delle donne diventa sempre più limitata. Sotto il regime talebano, noi donne siamo oppresse con vari pretesti, non ci è permesso viaggiare o spostarci senza un accompagnatore maschile e recentemente queste restrizioni hanno raggiunto il punto in cui persino la voce delle donne è stata bandita.

Eppure, nonostante le difficoltà e le numerose sfide che ho dovuto affrontare – essere stata respinta dagli uffici a causa del mio genere, essere stata messa a tacere e licenziata – non ho perso il mio senso di femminilità né la mia determinazione. Al contrario, sento che ogni nuova pressione non fa che rafforzarmi.

Quello che è iniziato come un piccolo workshop con una formatrice e otto studentesse è ora diventato un luogo di lavoro per cento donne. Oltre al workshop, sono anche in contatto con un gruppo di giovani imprenditrici con cui lavoriamo insieme e ci sosteniamo a vicenda.

Atia FarAzar è lo pseudonimo di una giornalista dello Zan Times

Evento CISDA Roma 8 aprile 2025 sulla Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere

Incontro organizzato da CISDA presso il Polo Civico Esquilino di Roma. A esporre le loro esperienze e le tematiche di riflessione relative al fondamentalismo religioso e politico e alle ripercussioni sulla vita e i corpi delle donne, accanto a Belquis Roshan c’erano alcune rappresentanti dell’associazionismo: l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, Celeste Grossi dell’ARCI, Mirella Mannocchio della Federazione italiana delle donne evangeliche, Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.

Intervista ad Antonella Garofalo sulla campagna Stop fondamentalismi Stop apartheid di genere

L’8 aprile si sono tenuti a Roma due eventi per fare il punto sulla campagna lanciata da Cisda lo scorso 10 dicembre. Nell’intervista l’attivista Antonella Garofalo spiega i punti principali della campagna a margine della conferenza stampa presso la Camera dei deputati

Sotto il regime dei talebani, donne e ragazze in Afghanistan ricorrono alla droga a causa della crescente depressione

8AM Media, Rawa, 10 aprile 2025

Una conseguenza dell’affrontare solo un futuro desolante e del vedersi negato il diritto allo studio e al lavoro

Questo articolo è stato scritto da Behnia per Hasht-e Subh Daily e pubblicato il 27 marzo 2025. Una versione modificata dell’articolo è pubblicata su Global Voices nell’ambito di un accordo di media partnership.

A seguito dell’imposizione da parte dei talebani di restrizioni all’istruzione, agli studi e all’occupazione femminile, molte donne e ragazze in Afghanistan si sono rivolte a diverse sostanze stupefacenti. Un’inchiesta di Hasht-e Subh Daily ha rivelato che ragazze e donne fanno uso di  tabacco, nonché di farmaci sedativi e ansiolitici, per sfuggire a pressioni psicologiche, stress mentale e depressione.

Il rapporto include interviste con 30 persone: ragazze a cui è stata negata l’istruzione, donne che hanno subito la prigionia dei talebani e donne che vivono in esilio. I risultati sono stati raccolti negli ultimi sei mesi nelle province di Kabul, Herat, Balkh, Takhar, Jawzjan, Ghazni e Sar-e Pul.

Diversi psicologi, medici e farmacisti hanno riferito di aver visto, nell’ultimo anno, un numero significativo di giovani donne e ragazze adolescenti ricorrere a sigarette, droghe sintetiche, antidolorifici e farmaci antidepressivi a causa di una grave depressione. Secondo queste fonti, nell’ultimo anno, fino a 500 giovani donne e ragazze hanno cercato un trattamento, utilizzando questi farmaci per alleviare la depressione, forti mal di testa e la solitudine e per prevenire l’autolesionismo.

Le prospettive degli psicologi sulla crescente dipendenza

Uno psicologo dell’Ospedale Mentale di Kabul riferisce che nell’ultimo anno, più di 100 ragazze provenienti da Kabul e da altre province hanno visitato la struttura a causa di una grave depressione. Solo nell’ultimo mese, sono stati registrati due casi di consumo di Tablet K, un tipo di metanfetamina. Lo psicologo ha spiegato in un’intervista con Hasht-e Subh Daily: “Due clienti, di 22 e 19 anni, si sentivano chiuse le porte e usavano Tablet K per ridurre la pressione psicologica e mentale”.

Lo psicologo aggiunge che lo stato mentale ed emotivo delle ragazze peggiora ogni giorno e che le ragioni principali del consumo di tabacco tra le giovani donne e le adolescenti sono la chiusura delle opportunità educative e l’incapacità di realizzare le proprie aspirazioni.

Uno psicologo della provincia nord-occidentale di Balkh, che lavora presso un centro di salute mentale della provincia, afferma che, oltre al suo lavoro presso il centro, collabora con organizzazioni e assiste personalmente ragazze e donne a cui viene negato l’accesso all’istruzione e al lavoro e che soffrono di depressione grave. Nell’ultimo anno, ha avuto più di 130 clienti donne presso il suo studio privato. Osserva che alcune di queste clienti si sono rivolte alle sigarette a causa delle restrizioni imposte dai talebani alle donne.

Perché le studentesse si sono rivolte alle sigarette e alle droghe?

Diverse studentesse e universitarie affermano che le pressioni psicologiche ed emotive derivanti dalla negazione dell’istruzione, unite alle pressioni esercitate dalle loro famiglie, le hanno spinte a fumare. Raccontano che, senza fumare, soffrono di forti mal di testa, solitudine e un senso di soffocamento, che le porta a sentirsi disperate nel continuare la propria vita.

Nilab (pseudonimo), una studentessa del decimo anno, è sotto pressione a causa dell’esclusione scolastica e delle pressioni familiari, che l’hanno portata a una grave depressione. Questa, unita all’eccessiva preoccupazione per il suo futuro incerto, le ha causato forti mal di testa. Inizialmente ha fatto ricorso a sonniferi e sedativi e ora fuma anche sigarette.

Aggiunge che quattro sue amiche si trovano nella stessa situazione e fumano anche loro di nascosto dalle loro famiglie.

I risultati del rapporto indicano che il consumo di tabacco è più diffuso tra le giovani donne e le adolescenti di età compresa tra 18 e 25 anni.

Anche farmaci antidolorifici e antidepressivi come Tramadolo, Zeegap, Zoloft, Prolexa, Sanflex, Zing, Arnil, Amitriptilina, Brufen, Paracetamolo e iniezioni di sedativi sono ampiamente utilizzati. Negli ultimi tre anni, l’uso di questi farmaci ha portato molte ragazze a sviluppare dipendenza, assumendoli da una a quattro volte al giorno.

Dipendenza tra le donne che hanno vissuto la prigionia

L’esperienza della prigionia talebana è un fattore significativo nella dipendenza dal tabacco delle donne. Le pressioni psicologiche ed emotive che le donne portano con sé in esilio dopo aver sopportato le prigioni talebane le hanno portate a usare non solo sedativi prescritti dagli psichiatri, ma anche vari prodotti del tabacco, come sigarette e narghilè elettronici.

Una donna imprigionata dai talebani e ora residente in Pakistan racconta che molte donne con esperienze simili hanno subito gravi danni psicologici ed emotivi, ricorrendo a sigarette e narghilè elettronici per gestire la loro tensione mentale. Il consumo di questi prodotti del tabacco tra queste donne è diffuso e, secondo lei, alcune consumano un intero pacchetto di sigarette in un solo giorno.

Secondo lei, sebbene l’uso del tabacco non curi alcun dolore, le donne si sentono costrette a farlo per sfuggire all’intensità delle loro pressioni psicologiche.

Automedicazione, costi elevati e accesso ai farmaci

Il consumo di droghe tra ragazze e donne avviene in due modi distinti. Alcune, avendo accesso a psicologi, consultano neurologi o psichiatri e utilizzano sedativi, antistress, ansiolitici e sonniferi prescritti come parte del trattamento.

Sebbene l’uso prolungato di questi farmaci non sia raccomandato dagli psichiatri, molte ragazze, attratte dai loro effetti immediati, smettono di consultare il medico e iniziano a procurarseli autonomamente in farmacia. La maggior parte delle donne e delle ragazze, soprattutto a Kabul e in esilio, continua a usare questi farmaci anche dopo la fine del trattamento prescritto.

Tuttavia, la maggior parte delle ragazze e delle donne afferma di usare antidolorifici, sedativi e antidepressivi senza consultare uno psicologo o uno psichiatra. Paracetamolo e ibuprofene, economici e facilmente reperibili in farmacia, sono ampiamente utilizzati dalle ragazze.

Questo è particolarmente comune nelle province con accesso limitato a psichiatri e farmacie. Mahdia, della provincia sudorientale di Ghazni, ad esempio, ottiene questi farmaci dopo una camminata di tre ore fino a una farmacia locale e li assume per forti mal di testa – non ha mai visto uno psichiatra. Anche Fatima, della provincia nordorientale di Takhar, riceve gratuitamente antidolorifici e antidepressivi dall’ospedale locale della sua provincia.

Razia, residente a Kabul, afferma di pagare 1.500 AFN (21 dollari) per uno dei suoi farmaci, l’equivalente del costo di un sacco di farina per la sua famiglia. Se dovesse comprare tutti i suoi farmaci, costerebbe 4.000 AFN (56 dollari) al mese. Maryam, una studentessa di Kabul, aggiunge che spende tra i 400 e gli 800 AFN (6-12 dollari) al mese per i suoi farmaci, un prezzo elevato che deve sostenere nonostante la sua difficile situazione economica.

La crescente tossicodipendenza e dipendenza da farmaci tra donne e ragazze in Afghanistan è uno dei tanti effetti distruttivi involontari delle politiche restrittive dei talebani. Con più tempo e ulteriori ricerche, verranno svelate altre implicazioni sociali ed economiche negative dei maltrattamenti subiti dalle donne in Afghanistan.

Le popolazioni dell’Afghanistan stanno subendo sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dai talebani

Global Centre for the Responsibility to Protect, Rawa, 7 aprile 2025

I talebani hanno intensificato le restrizioni ai diritti e alle libertà, prendendo di mira in particolare le donne, la società civile e la stampa

CONTESTO

Da quando le forze talebane hanno di fatto rovesciato il governo afghano nell’agosto 2021, i talebani e vari gruppi armati, tra cui il cosiddetto Stato islamico dell’Iraq e del Levante-Khorasan (ISIL-K), hanno commesso violazioni e abusi dei diritti umani diffusi e sistematici in tutto il Paese.

Le autorità talebane de facto hanno implementato politiche e pratiche restrittive che negano a donne e ragazze i loro diritti umani, perpetuando forme estreme di discriminazione di genere e violando palesemente la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW). Dall’agosto 2021 sono stati emanati oltre 100 editti, regolamenti e decreti repressivi radicali che prendono di mira donne e ragazze, limitandone gravemente la libertà di movimento, la libertà di opinione e di espressione, le opportunità di lavoro, la rappresentanza politica e pubblica e l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Nell’agosto 2024 i talebani hanno attuato le cosiddette leggi “vizio e virtù”, che mirano a sradicare le donne dalla vita pubblica, anche imponendo loro di coprirsi completamente il volto e vietando loro di parlare o essere ascoltate in pubblico. Gli editti attuati nel 2024 hanno ripristinato la lapidazione pubblica e la fustigazione a morte delle donne per presunto adulterio, tra le altre violazioni dell’ideologia talebana. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha documentato arresti e detenzioni arbitrarie di donne e ragazze a causa della presunta inosservanza del “codice di abbigliamento islamico” imposto.

Secondo il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan e il Gruppo di Lavoro sulla Discriminazione contro le Donne e le Ragazze, i Talebani potrebbero perpetrare persecuzioni di genere e apartheid di genere, poiché sembrano governare attraverso una discriminazione sistematica con l’intento di sottomettere donne e ragazze a un dominio totale. Secondo l’UNAMA, le donne afghane temono arresti e punizioni ogni volta che viene annunciato un nuovo editto a causa delle crescenti molestie da parte della polizia. Secondo quanto riferito, donne e ragazze sono state costrette a salire a bordo di veicoli della polizia e sottoposte a maltrattamenti. Le donne e le ragazze sciite Hazara sono state colpite in modo sproporzionato. Anche attiviste per i diritti delle donne e sostenitrici della parità di genere hanno subito uccisioni mirate, sparizioni forzate, detenzioni in isolamento, aggressioni e molestie.

L’UNAMA ha inoltre documentato prove di esecuzioni extragiudiziali, arresti e detenzioni arbitrarie, detenzione in isolamento, torture e maltrattamenti commessi dai talebani nei confronti di operatori dei media, difensori dei diritti umani e individui affiliati al precedente governo, tra gli altri gruppi specifici.

Nel frattempo, individui appartenenti a minoranze etniche e religiose sono spesso presi di mira dai Talebani, dall’ISIL-K e da altri. Membri di queste comunità sono stati arrestati arbitrariamente, torturati, giustiziati sommariamente e costretti alla fuga. L’ISIL-K rivendica frequentemente attacchi contro gli Hazara sciiti, altri musulmani sciiti, musulmani sufi, sikh e altre minoranze, nonché contro luoghi di culto. Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite ha riferito che questi attacchi sembrano essere di natura sistematica e riflettono elementi di una politica organizzativa, probabilmente assimilabili a crimini contro l’umanità.

La popolazione afghana sta attraversando una grave crisi umanitaria, aggravata dall’impatto delle sanzioni e dal congelamento dei beni statali. Nel dicembre 2021, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 2615, che consente l’afflusso di aiuti umanitari in Afghanistan senza violare le sanzioni ONU contro i talebani, in vigore dal 2011.

I Talebani hanno detenuto di fatto il potere in Afghanistan dal 1996 al 2001, prima di essere rovesciati da una coalizione di forze militari della NATO. Durante due decenni di insurrezione contro il governo afghano riconosciuto a livello internazionale, i Talebani hanno perpetrato probabili crimini contro l’umanità e crimini di guerra, mentre le forze di sicurezza afghane e i membri dell’esercito statunitense e della Central Intelligence Agency hanno a loro volta commesso probabili crimini di guerra. Nel marzo 2020, la Corte penale internazionale (CPI) ha avviato un’indagine sulle presunte atrocità commesse a partire dal luglio 2002, concentrandosi sui crimini commessi dai Talebani e dall’ISIL-K.

SVILUPPI RECENTI

Il 23 gennaio, il Procuratore Capo della CPI ha depositato richieste di mandato d’arresto per i leader talebani Haibatullah Akhundzada e Abdul Hakim Haqqani per il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere, segnando la prima accusa di questo tipo presentata dalla Corte. Nel settembre 2024, Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi hanno annunciato l’avvio di un procedimento legale contro l’Afghanistan presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per violazioni della CEDAW.

I talebani hanno intensificato le restrizioni ai diritti e alle libertà, prendendo di mira in particolare le donne, la società civile e la stampa. Entro la fine del 2024, i talebani hanno annunciato l’intenzione di revocare le licenze alle ONG che impiegano donne afghane, di vietare le finestre che si affacciano su aree in cui le donne lavorano o si riuniscono e di chiudere 12 organi di stampa.

I cittadini afghani in Pakistan, inclusi rifugiati, migranti regolari e irregolari, nonché coloro che attendono il reinsediamento, affrontano rischi crescenti di rimpatrio forzato nell’ambito di un nuovo piano in più fasi del governo pakistano. Decine di migliaia di rifugiati in attesa di reinsediamento in paesi terzi a Islamabad e Rawalpindi devono trasferirsi entro il 31 marzo, pena l’espulsione.

ANALISI

La distorsione dei principi religiosi da parte dei Talebani per giustificare politiche discriminatorie e persecutorie, unitamente a misure che ridefiniscono i confini della pratica religiosa accettabile per la popolazione più ampia, rappresenta un grave rischio di ulteriori crimini contro l’umanità. Gli sforzi dei Talebani per escludere donne e ragazze dalle sfere sociali, economiche e politiche, compresa la discriminazione di genere e la violenza istituzionalizzata su larga scala contro di loro, equivalgono probabilmente a persecuzione di genere, un crimine contro l’umanità. Le continue restrizioni alle libertà fondamentali e l’impunità per violazioni e abusi passati e in corso creano un ambiente favorevole a violazioni più gravi del diritto internazionale e a ulteriori crimini atroci contro donne e ragazze.

I Talebani prendono spesso di mira giornalisti, funzionari pubblici, difensori dei diritti umani e persone affiliate al precedente governo, con violazioni che sembrano perpetrate su base diffusa e sistematica. Gli attacchi mirati sono in gran parte ignorati a causa della repressione talebana dei media indipendenti e della chiusura dello spazio civico. Attualmente non esistono organismi nazionali indipendenti che documentino le violazioni dei diritti umani a causa dello smantellamento di istituzioni chiave, tra cui la Commissione indipendente afghana per i diritti umani e l’Ufficio del Procuratore generale. I Talebani hanno inoltre vietato l’accesso al Paese al Relatore speciale.

VALUTAZIONE DEL RISCHIO

Decenni di violazioni del diritto internazionale e di impunità per tali crimini.

Discriminazione di genere istituzionalizzata, sistematica e su larga scala da parte delle autorità de facto dei talebani nei confronti di donne e ragazze.

Attacchi mirati, diffusi e sistematici, perpetrati dall’ISIL-K e dai talebani contro le minoranze etniche e religiose.

Mancanza di media indipendenti e repressione della società civile e dei difensori dei diritti umani.

Debolezza delle strutture statali nel proteggere le popolazioni vulnerabili e riluttanza delle autorità de facto a rispettare gli obblighi di diritto internazionale.

AZIONE NECESSARIA

In quanto autorità di fatto, i Talebani sono vincolati dagli obblighi internazionali in materia di diritti umani, codificati nei trattati di cui l’Afghanistan è parte, tra cui la CEDAW. Devono rispettare tali obblighi, anche ponendo fine alle violazioni e agli abusi perpetrati dai loro funzionari e garantendo la pari protezione e promozione dei diritti umani a tutte le persone in Afghanistan, indipendentemente da genere, origine etnica, credo religioso o affiliazione politica. I Talebani dovrebbero consentire alla comunità internazionale di fornire assistenza per adempiere a tali obblighi. Qualsiasi sforzo volto alla normalizzazione delle relazioni con i Talebani deve essere subordinato al rispetto dei diritti umani e dei diritti delle donne, in linea con il diritto internazionale.

I Talebani devono indagare sui modelli di violazione dei diritti umani e adottare misure per prevenirli in futuro, anche assicurando i responsabili alle loro responsabilità. Devono revocare le restrizioni e consentire al Relatore Speciale un accesso sicuro e senza restrizioni in Afghanistan. I Talebani dovrebbero collaborare pienamente con l’UNAMA e l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

La comunità internazionale dovrebbe continuare a perseguire la giustizia per i probabili crimini atroci commessi in Afghanistan, indipendentemente dalla posizione, dalla nazionalità o dall’affiliazione del presunto autore. La comunità internazionale dovrebbe cooperare e fornire supporto alla CPI e alla Corte Internazionale di Giustizia. Tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite dovrebbero garantire che il Servizio per i Diritti Umani dell’UNAMA disponga di risorse sufficienti per svolgere appieno il suo mandato. Gli Stati confinanti devono rispettare il principio di non respingimento.

Il CISDA è con Emily!

CISDA, Comunicato

La vicesindaca di Bologna, Emily Clancy, è stata pesantemente attaccata sui social nei giorni scorsi, con insulti misogini e sessisti, per aver osato commentare una campagna pubblicitaria dell’associazione “Genitori sottratti”, che con manifesti su cui erano riportate frasi violente pronunciate dalle donne nei confronti degli uomini da cui si separano, mirava a ribaltare la campagna avviata dalla regione Emilia-Romagna contro la violenza di genere.

Questo il nostro messaggio di sostegno e vicinanza

COMUNICATO STAMPA

Il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) esprime la propria vicinanza e solidarietà alla vicesindaca di Bologna, Emily Clancy, aggredita verbalmente attraverso i social con insulti misogini e sessisti.

La vicesindaca, esercitando il proprio mandato, ha espresso un giudizio politico che condividiamo pienamente: ha denunciato la campagna pubblicitaria a favore dei “padri separati” dell’associazione Genitori Sottratti, sedicenti vittime di discriminazione in caso di separazione.

Evidentemente a corto di argomentazioni a favore delle proprie posizioni, che mirano ad occultare la gravità e l’incidenza della violenza domestica nel nostro Paese e la necessità di tutele legali, i sostenitori della campagna hanno confermato la bassezza e l’inconsistenza delle proprie convinzioni, insultando pesantemente la vicesindaca.

Chiediamo che vengano identificati i soggetti responsabili e vengano applicate le sanzioni previste dalla legge. Ma soprattutto, ci preoccupa l’arroganza delle forze politiche che, trincerandosi dietro un male inteso diritto alla libera espressione, sostengono associazioni che veicolano discorsi di odio contro le donne e tentano grottescamente di occultare lo squilibrio di potere che ancora si impone all’interno delle famiglie e nella società anche nel nostro “emancipato” Occidente.

L’impegno nel contrastare la violenza di genere in ogni luogo del pianeta ci impone di non sottovalutare ogni tentativo di intimidire e mettere a tacere le donne che si espongono nella difesa dei diritti di tutte.

Negazione delle donne, glorificazione della povertà e idealizzazione della vita rurale nel sermone del Mullah Hibatullah

Younus Negah, Zan Times, 7 aprile 2025
Durante il mese di Ramadan e l’Eid che segue, le discussioni su fame e povertà si intensificano. Religiosi e politici offrono conforto ai poveri mentre predicano ai ricchi. Parlano di come la fame purifichi l’anima e rafforzi la fede, e incoraggiano i benestanti a fare l’elemosina e a mostrare compassione.

Eppure, in questo mese, raramente i mullah dal pulpito – o i leader politici nelle società musulmane – parlano di equa distribuzione delle risorse, lotta allo sfruttamento o sforzi concreti per ridurre la povertà. Piuttosto, il messaggio dominante accetta la disuguaglianza come volontà di Dio

Nella retorica dei mullah, la povertà non ha alcuna connotazione negativa. Al contrario, è rappresentata come un vantaggio spirituale. Il termine faqir (povero) è spesso usato in modo intercambiabile con “mistico”.

Nell’Emirato dei Talebani – un’alleanza di mullah, sottoproletari, contrabbandieri e uomini d’affari – la povertà viene apertamente elogiata e il governo si dissocia da qualsiasi responsabilità per la sicurezza alimentare della popolazione. I leader talebani hanno ripetutamente affermato di non aver preso il potere per portare prosperità o benessere, spiegando che le persone devono chiedere a Dio il loro sostentamento di base e insistendo sul fatto che la quota di ciascuno è stata scritta all’alba dei tempi sulla tavola divina e che è dovere dei poveri essere pazienti e grati.

Eppure proprio questi mullah, personaggi di basso profilo e  contrabbandieri non contano su Dio per il proprio sostentamento. Invece, mettono le mani nelle tasche sia di chi ha fame, sia di chi non ce l’ha in tutto l’Afghanistan, estorcendo elemosine e tasse a venditori ambulanti, contadini, negozianti e commercianti. Pianificano il loro arricchimento, combattono e persino uccidono per ottenere quei fondi.

La competizione per la distribuzione del bilancio nazionale, i profitti derivanti dalle entrate minerarie, il controllo di redditizi uffici doganali e fiscali e l’accesso agli aiuti esteri palesi e occulti hanno portato potenti fazioni talebane, in particolare i campi del Mullah Hibatullah e della rete Haqqani, sull’orlo del conflitto aperto.

La misericordia dei ricchi e la preghiera dei poveri

Il peso della povertà della gente ha oscurato la gioia dell’Eid, persino durante il sermone del Mullah Hibatullah. Ha parlato a lungo ai poveri che si erano riuniti all’Eidgah per ascoltarlo e, attraverso loro, alla stragrande maggioranza degli affamati, di cui esige l’obbedienza incondizionata. Il suo messaggio era incentrato sulla virtù della preghiera e della pazienza tra i poveri.

Il mullah Hibatullah ha affermato che lo stesso Dio che ha creato le Sue creature provvede anche a loro, e che i poveri non dovrebbero lamentarsi o incolpare nessuno per la loro povertà. “Tizio e Caio non possono farci niente”, ha detto. Ma i “tizio e caio” a cui si riferisce sono proprio coloro che riscuotono le tasse religiose (usher) e i contributi economici dalla gente, mentre negano loro libertà, istruzione e lavoro. Se qualcuno non paga puntualmente l’usher o ritarda a dare da mangiare ai mullah e ai loro alleati, andrà incontro a una punizione severa, che non sarà rimandata al Giorno del giudizio.

Mullah Hibatullah ha sottolineato che sia la fame che l’abbondanza sono prove di Dio. I ricchi dovrebbero essere grati per ciò che hanno, e i poveri dovrebbero essere grati per la loro mancanza di sostentamento. Secondo lui, il rapporto tra musulmani ricchi e poveri dovrebbe basarsi sulla misericordia e sulla preghiera, come definito dalla legge islamica, : “I ricchi devono mostrare compassione verso i bisognosi e i poveri dovrebbero pregare per i ricchi ed essere contenti della loro condizione”.

Nella sua visione del mondo, la ricchezza è solo un dono divino. Nessuno può incrementarla o diminuirla, perché il sostentamento di ognuno è scritto nel suo destino. Ai suoi occhi, furto, saccheggio, sfruttamento, contrabbando e appropriazione indebita non sono le cause della povertà diffusa o dell’estrema concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. “Dio ha ordinato ogni cosa all’inizio dei tempi”, afferma.

Predicava che i poveri dovessero rimanere in silenzio e che fosse religiosamente illegittimo per loro protestare per la propria condizione. “Quando un bambino viene concepito nel grembo materno”, diceva, “Dio comanda all’angelo di scrivere il suo destino: se sarà ricco o povero, quanto sostentamento avrà e con quali mezzi lo guadagnerà”.

A suo avviso, i poveri non hanno il diritto di chiedersi perché altri ottengano la loro ricchezza attraverso furto, contrabbando, saccheggio o violenza – perché l’angelo, per ordine di Dio, lo ha scritto così fin dall’inizio. I poveri non dovrebbero chiedere al Mullah Hibatullah perché le sue spese d’ufficio nel secondo trimestre dell’ultimo anno fiscale siano ammontate a due miliardi di afghani – quasi il 6% dell’intero bilancio operativo del suo Emirato. Né dovrebbero chiedersi perché, sotto il suo governo, oltre l’80% della popolazione – secondo alcune stime, 28 milioni di persone – soffra di fame e abbia urgente bisogno di aiuti.

Secondo il Mullah Hibatullah, i poveri dell’Afghanistan devono unirsi ai comandanti talebani, ai sottoproletari loro alleati, ai contrabbandieri e ai saccheggiatori perché si trovano ad affrontare nemici ancora più grandi.

Jinn e umani: i nemici dei musulmani

Il giorno in cui il Mullah Hibatullah ha tenuto il suo sermone all’Eidgah di Kandahar, sui media è circolato un breve video. Mostrava diverse donne che gridavano aiuto mentre sedevano a terra lungo il sentiero che portava all’Eidgah.

Nell’Emirato dei Talebani, le donne sono trattate come jinn, esseri soprannaturali che devono esistere ma rimanere invisibili. Ci si aspetta che le donne siano presenti, obbedienti e fedeli, ma invisibili. Non devono essere viste pregare nelle moschee o partecipare alla vita religiosa pubblica come fanno gli uomini.

Per i talebani, le donne – come i jinn – possono essere buone o cattive. Eppure, che siano considerate buone o cattive, ci si aspetta comunque che rimangano nascoste. Proprio come Dio ha creato i jinn e li ha tenuti nascosti agli occhi umani, comandando loro di agire in amicizia o inimicizia nell’ombra, anche le donne devono vivere lontane dagli occhi degli uomini.

Nel sermone dell’Eid del Mullah Hibatullah, la presenza dei jinn era più evidente di quella delle donne. Invitò i credenti, poveri e ricchi, a unirsi, avvertendo che “tra i jinn e gli umani i nemici ” dei musulmani sono in agguato . Secondo lui, “le forze sataniche – sia jinn che umane” – sono unite e diffondono la discordia e la cospirazione nei paesi islamici.

Pertanto, ha esortato i musulmani a superare le loro divisioni personali e sociali e a prendere coscienza della minaccia. Povertà, disoccupazione, mancanza di istruzione e ingiustizie: queste, a suo avviso, non sono le vere preoccupazioni dei musulmani afghani, insistendo sulla necessità di forgiare l’unità contro i “jinn satanici e le forze umane”, minacce che superano tutte le altre.

Gli abitanti del villaggio sono amici, gli abitanti della città sono nemici

Negli ultimi quattro anni, il mullah Hibatullah non ha fatto alcuno sforzo per nascondere la sua ostilità verso la città e la vita urbana. Considera Kabul un covo di demoni – un luogo di peccato e corruzione – e ha fondato il suo Emirato a Kandahar, dove dominano costumi e codici rurali.

Sebbene nei suoi sermoni nomini jinn, diavoli, infedeli e occidentali come nemici, la lama dei suoi decreti e delle sue sentenze disumane si è abbattuta quasi esclusivamente sugli abitanti delle città. Lui e i suoi alleati hanno lavorato sistematicamente per trasformare le città afghane in villaggi.

Nel suo sermone per l’Eid, ha descritto la democrazia come “ignoranza velenosa” che è stata infine sradicata grazie ai “mujaheddin in prima linea” e alla “gente comune delle campagne”.

Ha dichiarato: “Se la jihad dovesse essere divisa, metà andrebbe ai combattenti nelle trincee e l’altra metà agli abitanti dei villaggi”. Secondo lui, gli abitanti dei villaggi hanno sostenuto la guerra contro le città e la democrazia offrendo le loro case, il cibo e persino i loro figli ai mujaheddin.

Ha poi continuato avvertendo che “gli infedeli e i sostenitori della democrazia” stanno cercando di trasformare ancora una volta l’Afghanistan in un campo di battaglia in fiamme, mirando a dividere “la gente comune” (il suo termine per i poveri abitanti dei villaggi) dall’Emirato.

Hibatullah Akhundzada, rivolgendosi alle comunità povere e rurali, ha detto: “Siete tutti sudditi dell’Emirato… e se mi vedete come vostro Imam… Unitevi… Obbedite ai miei ordini… La società ritroverà l’ordine”. E se non lo farete, “alla fine sarete coinvolti in guerre”.

Prestare attenzione a questi dettagli, come la formulazione di discorsi apparentemente ripetitivi, è essenziale per comprendere le posizioni del Mullah Hibatullah e di altri leader talebani e comprendere la situazione attuale del Paese. I Talebani presentano innumerevoli difetti, tra cui dipendenze straniere e radicati pregiudizi etnici e tribali, ma la caratteristica distintiva del gruppo è la sua arretratezza rurale.
I Talebani sono religiosi, rurali e sottoproletari che combattono contro la libertà, la democrazia, l’istruzione, la presenza sociale delle donne e tutti gli altri componenti della vita civile e democratica.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

Gender Apartheid: il GAP nel diritto internazionale

InsideOver, 12 aprile 2025, di Simona Losito

Apartheid di genere è un espressione sempre più utilizzata per descrivere l’oppressione sistematica che le donne subiscono in Paesi governati da regimi fondamentalisti. Tuttavia, a differenza di altri crimini riconosciuti dal diritto internazionale, non esiste ancora una convenzione specifica che definisca e sanzioni questa forma di discriminazione come crimine contro l’umanità. È quindi necessaria la creazione di un trattato che stabilisca standard internazionali per la giustizia di genere, riconoscendo ufficialmente il Gender Apartheid.

L’apartheid di genere, analogamente a quello razziale, si fonda su un sistema strutturato e sistematico di discriminazione, in cui una parte della popolazione, in questo caso donne ma anche la comunità Lgbtqia+, viene emarginata, privata dei propri diritti fondamentali e relegata a una posizione subordinata nella società. Si tratta di un meccanismo di potere che non si limita a episodi isolati di ingiustizia, ma si manifesta attraverso leggi, politiche e pratiche istituzionali che normalizzano la disuguaglianza e ne garantiscono la perpetuazione.

Esempi di apartheid di genere
Un chiaro esempio di apartheid di genere è rappresentato dall’Afghanistan, dove, ​con il ritorno al potere dei talebani dall’agosto 2021, le donne sono state soggette a una serie di restrizioni sempre più aggressive in particolare nei confronti delle donne. Le leggi draconiane imposte dal regime talebano, giustificate da un’interpretazione estremamente restrittiva della Sharia, hanno sistematicamente escluso le donne dalla vita pubblica, limitando drasticamente i loro diritti fondamentali.

Le donne sono ridotte a meri oggetti a disposizione degli uomini, senza libertà di cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, di indossare abiti diversi dal burqa, di frequentare scuole e università, di viaggiare e spostarsi liberamente senza la presenza di un uomo della famiglia, ma anche di frequentare luoghi come palestre, saloni di bellezza e parchi pubblici. Il concetto di apartheid di genere è stato formulato per la prima volta proprio dalle attiviste e femministe afghane per i diritti umani in risposta alla sistematica oppressione delle donne e delle ragazze imposta dai talebani negli anni Novanta. E, come sappiamo, l’incubo è tornato dopo l’agosto 2021.

Nel dibattito internazionale, l’attenzione si è concentrata molto anche sull’Iran, dove attiviste, giuriste e studiose sostengono che il regime della Repubblica Islamica attui una sistematica esclusione delle donne dalla piena cittadinanza, attraverso norme e regolamenti che limitano la loro libertà personale, i loro diritti civili e politici, nonché l’accesso all’istruzione, al lavoro e alla vita pubblica. Secondo le testimonianze dirette, la condizione delle donne in Iran non può essere interpretata semplicemente come una forma di discriminazione, ma rappresenta un vero e proprio regime di apartheid di genere, che dovrebbe essere riconosciuto come crimine secondo il diritto internazionale, al pari dell’apartheid razziale.

La proposta delle Nazioni Unite
La VI Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha esaminato il tema dei crimini contro l’umanità nella proposta di Convenzione per la redazione e la punizione dei crimini contro l’umanità, al cui interno verrà inserito il crimine di Gender Apartheid. Sebbene esista una convenzione sui crimini di guerra, le Convenzioni di Ginevra, che prevedono anche la protezione dei diritti delle donne in tempi di guerra, non esiste una convenzione analoga che disciplini i crimini contro l’umanità in tempi di pace.

Nel diritto penale internazionale, il crimine più vicino a descrivere le violazioni sistematiche dei diritti delle donne è la persecuzione di genere, riconosciuta dallo Statuto di Roma come crimine contro l’umanità. Questo reato si configura quando un gruppo è oggetto di attacchi mirati e reiterati, basati esclusivamente sulla propria identità di genere. Tuttavia, questo strumento giuridico risulta ancora insufficiente per descrivere e contrastare quei sistemi statali e ideologici che impongono una dominazione strutturale e sistematica fondata sul genere.

È in questo vuoto concettuale che si inserisce il dibattito sull’apartheid di genere, un termine che punta a evidenziare non solo la violenza o la discriminazione episodica, ma la presenza di interi sistemi legali, politici e culturali progettati per subordinare un genere rispetto a un altro. A differenza della persecuzione, l’apartheid implica un’intenzionalità politica, oltre che una visione del mondo imposta attraverso leggi, istituzioni, propaganda e pratiche sociali, spesso giustificate in nome della religione, della morale o della sicurezza.

La presentazione della campagna “Stop all’apartheid di genere in Afghanistan” al Parlamento italiano
Martedì 8 aprile sono stati presentati in Parlamento i risultati della campagna “Stop all’apartheid di genere in Afghanistan” portata avanti dal Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane (Cisda). Da novembre 2024 il Cisda ha iniziato la campagna con una raccolta firme, ancora aperta, e che hanno presentato ufficialmente al Parlamento Italiano. Attualmente si contano più di 2mila firme ottenute da più di 80 associazioni.

La campagna mira proprio a colmare il vuoto giuridico, chiedendo che l’apartheid di genere venga riconosciuto nei trattati internazionali come crimine contro l’umanità, sullo stesso piano dell’apartheid razziale. Allo stesso tempo, punta al riconoscimento del sistema di apartheid di genere attuato in modo strutturale e sistematico in Afghanistan.

Si chiede alla comunità internazionale di adottare da subito misure di condanna per evitare qualsiasi forma di legittimazione del regime talebano, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani e degli obblighi internazionali. Lo Stato italiano ha sottoscritto, insieme a molti altri Paesi, diverse convenzioni internazionali a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne, come la convenzione Onu del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (Cedaw). “Questi atti internazionali pongono a carico dello Stato italiano obblighi a cui non può sottrarsi di fronte alle gravissime violazioni subite dalle donne a livello internazionale” sostiene fermamente il Cisda.

Belqis Roshan, senatrice del Parlamento afghano e attivista per i diritti delle donne costretta a lasciare il Paese dopo il ritorno dei Talebani, durante l’incontro in Parlamento ha sottolineato che, per quanto sia importante riconoscere i crimini perpetrati dal governo talebano nei confronti delle donne riconoscendo quindi l’esistenza di un’apartheid di genere, molti governi ancora sostengono l’Afghanistan e si pongono complici dei crimini commessi.

Lo stesso accade in altri contesti internazionali, come nel caso della Siria e del genocidio dei Palestinesi, dove il silenzio e il supporto a regimi oppressivi non fanno altro che perpetuare la palese violazione dei diritti umani.