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Tag: Diritti delle donne

In Afghanistan, un uomo di 45 anni sposa una bambina afghana di 6 anni

Sotto il regime dei talebani, i matrimoni infantili si diffondono e le ragazze perdono protezione e voce

Rawa News, 28 giugno 2025

Una foto che circola sui social media mostra un uomo di 45 anni con la bambina di 6 anni che ha appena sposato: un esempio straziante del peggioramento della crisi dei matrimoni infantili sotto il regime dei talebani.
Fonti locali di Helmand affermano che un uomo di 45 anni, che ha già altre due mogli, ha sposato una bambina di 6 anni.

Secondo le fonti, il padre della ragazza l’avrebbe data in sposa a quest’uomo anziano “in cambio di denaro”.

Secondo alcune fonti, la cerimonia di nozze tra l’uomo di 45 anni e la bambina ha avuto luogo venerdì 27 giugno 2025.

Tuttavia, prima che la bambina venisse consegnata al suo “marito” 45enne, sono intervenuti funzionari talebani locali, non per impedire il matrimonio, ovviamente, ma per dare prova della loro versione di “moderazione”. Fonti affermano di aver intimato all’uomo di aspettare che la bambina compisse la maturissima età di 9 anni prima di portarla a casa sua.

Il matrimonio precoce – in particolare quello forzato di bambine con uomini molto più grandi o di mezza età – rimane una delle forme di violenza di genere più diffuse e culturalmente radicate in tutto l’Afghanistan. Dal ritorno al potere dei Talebani, questa pratica ha registrato un’impennata drammatica, alimentata dalle politiche ultrapatriarcali del regime, dal crollo delle tutele legali e dalla crescente disperazione economica delle famiglie. La normalizzazione di queste unioni coercitive, sotto l’egida della tradizione, non solo priva le bambine della loro infanzia e dei diritti umani fondamentali, ma rafforza anche un più ampio sistema di oppressione di genere che prospera sotto il regime talebano.

 

Catturare la tranquilla resilienza delle donne afghane

La resilienza non è una scelta: per le donne, e per gli afghani in generale, è una necessità

Phoebe West, Rawa.org, 25 gennaio 2025

Nel corso di sei mesi, la fotografa Kiana Hayeri e la ricercatrice Melissa Cornet hanno realizzato un ritratto della vita delle donne afghane sotto il regime talebano. In un Paese che sta affrontando una delle più gravi crisi dei diritti delle donne nel mondo,  “No Woman’s Land” cattura le loro lotte, ma illumina anche i modi sottili ma potenti in cui resistono, dalle aule segrete ai momenti di tranquilla convivenza in casa. Qui Hayeri racconta a Phoebe West come la coppia ha affrontato il progetto nonostante l’accesso limitato imposto dal regime talebano, e perché la resistenza è una necessità per le donne afghane.

Nel corso di sei mesi, Hayeri e Cornet hanno trascorso dieci settimane in sette province, parlando con 100 donne e ragazze per capire cosa significhi essere una donna in Afghanistan oggi. “Volevamo coprire tutto”, mi dice Hayeri da Damasco. “Volevamo mostrare cosa significa essere una donna nelle aree rurali, in quelle urbane, per le donne istruite e per quelle non istruite, per mostrare cosa è cambiato per loro e per raccontare tutti gli aspetti della storia”. La storia dell’Afghanistan è lunga e complessa, caratterizzata da instabilità politica e da un controllo oppressivo sui diritti delle donne: “Ogni regime ha usato le donne come simbolo di modernità o di purezza morale”, afferma Hayeri.

“Volevo essere molto rispettosa”, afferma Hayeri. Ogni immagine è stata concepita come unica e creata in collaborazione con il soggetto, garantendone la sicurezza e la capacità di agire. “Anche se le donne non si sentivano a loro agio a mostrare il proprio volto”, spiega Hayeri, “hanno comunque la loro individualità nelle foto”.

“No Woman’s Land” non si sottrae all’oscurità che pervade l’esistenza delle donne in Afghanistan oggi, ma non è nemmeno tutta la storia. Anche la gioia e la speranza esistono, trascendendo il personale, per incarnare la resistenza e la sfida in una terra di oppressione. “Spero che continui a vivere come documentazione di ciò che sta accadendo in Afghanistan”, dice Hayeri, “e diventi qualcosa su cui la prossima generazione potrà costruire: le fondamenta su cui costruire resilienza e speranza. Potranno guardare indietro a questo e capire cosa è possibile”.

Il progetto è frutto della collaborazione tra Hayeri e la ricercatrice sui diritti delle donne Melissa Cornet. Lavorare insieme è stato chiaramente illuminante per entrambe, consentendo a ciascuna di esprimere la propria creatività e condividere la responsabilità nelle decisioni relative al lavoro. Al di là di Hayeri e Cornet, le radici della collaborazione si estendono ben oltre. Considerando quanto sia diventato limitato l’accesso in Afghanistan sotto il regime dei Talebani, lo spazio concesso loro è stato possibile grazie all’esistenza di reti già esistenti e alla reputazione all’interno della comunità: “Gran parte dell’accesso è avvenuto tramite passaparola”, spiega Hayeri, “così dicevamo alla nostra rete chi volevamo incontrare e loro garantivano per noi”.

Sia Hayeri che Cornet hanno vissuto a Kabul per anni e nutrono un profondo amore per l’Afghanistan, che traspare dal loro lavoro. Avevano una solida base di relazioni di fiducia su cui costruire, un linguaggio per comunicare senza bisogno di un interprete e il tempo per garantire che tutti i partecipanti desiderassero davvero essere lì: “In alcune delle scene che vedete, mi conoscono da tre o quattro anni”, dice, “quindi sanno che non farei nulla che mettesse a repentaglio la loro sicurezza, e abbiamo avuto il tempo per tornare più e più volte. Questo non accade più nel nostro campo di lavoro”.

Hayeri ha lavorato molto in Afghanistan, ma questo progetto è stato diverso da qualsiasi altro: “Grazie a questa borsa di studio, ho potuto fare tutto ciò che volevo in modo creativo ed è stato molto appagante”, spiega. Hayeri afferma di aver sempre scattato con la luce naturale: “L’Afghanistan ha questa tonalità calda”. Ma per “No Woman’s Land” ha deciso di usare luci al neon. “Gli afghani adorano le luci al neon”, dice sorridendo, “vai nelle gelaterie, nei ristoranti, in qualsiasi posto all’aperto: hanno luci al neon ovunque”.

Sentendo lo spazio concesso alle donne ridursi sempre di più, Hayeri e Cornet hanno deciso di “portare le luci al neon nelle loro case e nei loro spazi”. La decisione di portare la luminosità nei santuari di queste donne ci porta a pensare ai loro cieli che passano dal technicolor al pallore del cielo coperto, mentre i progressi di decenni si disfano nel giro di poche settimane quando, nella tarda estate del 2021, i Talebani tornano al potere.

Passato e futuro sono presenti in tutta l’opera. Diverse inquadrature di “No Woman’s Land” catturano diverse generazioni di donne: ogni fotogramma racchiude cicli di repressione e instabilità politica. È difficile comprendere l’ampiezza di ciò che per queste ragazze è appena passato e impossibile: per le più anziane è la storia che si ripete, un’eco di una vita passata, ma per le giovani, le loro figlie e nipoti, è un futuro nuovo, intero, cancellato in un istante.

“La resilienza non è una scelta”, afferma Hayeri. “Per le donne, e per gli afghani in generale, direi che è una necessità”. È un grande privilegio poter pensare alla resilienza come a una scelta. All’interno dell’oppressione che, ancora una volta, è diventata la realtà per le donne in Afghanistan, la resistenza e la ribellione esistono a livello molecolare: non si manifestano per le strade perché gli altri le guardino, ma accadono continuamente. Ballare a porte chiuse, fare arte e creare disegni all’henné diventano atti di sfida di fronte alla cancellazione della personalità.

Realizzare questo lavoro oggi non sarebbe possibile – ogni parvenza di accesso che esisteva allora è stata chiusa – ma la portata di ciò che è stato creato è illimitata. “È molto facile per le persone attribuire il titolo di apartheid di genere all’Afghanistan”, riflette Hayeri, “ma non si parla dell’apartheid che si sta verificando in Cisgiordania. La lotta per i diritti delle donne va oltre l’Afghanistan. C’è in Palestina, in America, in Kenya!”.

Dopo la nostra conversazione, Hayeri si unirà ai festeggiamenti a Damasco per il 14° anniversario della rivoluzione siriana, durante i quali elicotteri militari lasceranno cadere fiori e coriandoli, per ricordare che accanto alla fragilità dei diritti delle donne nel mondo c’è il potenziale del cambiamento e la possibilità di qualcosa di meglio.

 

I curdi nel caos mediorientale

La situazione attuale, le questioni aperte e perché la proposta di un confederalismo democratico, il nuovo paradigma pensato da Abdullah Ocalan, manda in fibrillazione ognuno dei Paesi dove la presenza curda, pur minoritaria, è importante

Carla Gagliardini, Patria Indipendente, 26 giugno 2025

I curdi vivono prevalentemente sul territorio di quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e sono rappresentati da una galassia di sigle di partito e organizzazioni che risultano per molti un rompicapo. Oggi di curdi si parla troppo poco nel dibattito politico nostrano eppure stanno accadendo delle cose in Medio Oriente dove il loro posizionamento politico, in ciascuno degli Stati dove abitano, ha un peso che non si può trascurare.


In Iraq il partito di maggioranza curdo, il KDP, che guida il governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sogna ancora l’indipendenza ma ha dovuto per il momento accantonarla dopo aver indetto e vinto il referendum nel 2017, però represso con la forza militare dal governo centrale iracheno, con il benestare di Turchia, Iran e Stati Uniti. I rapporti tra Erbil e Baghdad sono tesi per il ritardo cronico dei pagamenti da parte della capitale irachena ai dipendenti pubblici del Kurdistan iracheno ma ancor più per la questione dei territori contesi, ossia quelle regioni e distretti del Paese che ciascuno rivendica per sé e che sono strategicamente molto rilevanti. Il KDP mira a dare alla Regione del Kurdistan iracheno un’autonomia economica che però Baghdad ostacola per tramortire il disegno indipendentista.

Più a ovest, sotto l’autorità del governo centrale iracheno, si trovano poi i curdi del campo profughi di Makhmur che con i curdi del KDP non vanno proprio d’accordo. Si tratta di famiglie curde che hanno lasciato la Turchia negli anni Novanta del secolo scorso a seguito della distruzione dei loro villaggi da parte di Ankara. Fuggiti dalla repressione, Saddam Hussein aveva assegnato loro un fazzoletto di terra dove rifugiarsi a Makhmur. Il campo viene ciclicamente messo sotto assedio dalle forze militari irachene e dal 2019 subisce un embargo da parte del governo del Kurdistan iracheno. Perché? Per aver dichiarato il proprio diritto all’autodeterminazione e aver realizzato il nuovo paradigma politico pensato da Abdullah Ocalan, fondatore del PKK, ossia il confederalismo democratico, che non piace né a Baghdad né a Erbil.

Il confederalismo democratico

Il confederalismo democratico prevede la fine degli Stati-Nazione attraverso un processo democratico che deve saper trascinare il consenso dal basso, supportato da un lavoro politico e culturale fortemente organizzato. Ocalan è dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che ha abbandonato l’idea di costruire uno Stato curdo indipendente perché sostiene che gli Stati-Nazione portano al nazionalismo e il nazionalismo produce conflitti armati. La sua analisi si concentra sul Medio Oriente e propone un sistema democratico su base confederale dove l’autodeterminazione dei popoli si coniuga con una democrazia radicale secondo il modello bottom-up (1), con la demolizione del sistema patriarcale e con il sostegno a una società ecologica. Tale modello manda in fibrillazione tutti e quattro gli Stati dove la presenza curda è importante, nonostante rappresenti sempre una minoranza, perché questi governi sono energicamente nazionalisti, assai poco rispettosi delle minoranze, soprattutto se rivendicano diritti, e i poteri sono fortemente centralizzati.

In Turchia i curdi sono stati lungamente perseguitati e prova ne sono le prigioni del Paese che parlano di migliaia di loro gettati in una cella per essersi espressi contro il sistema politico repressivo di Ankara. Ocalan lo scorso ottobre ha accolto l’appello lanciato dal leader del partito islamista estremista e alleato di Erdogan, Devlet Bacheli, ad aprire un nuovo processo di pace. Attualmente però questo si trova in una fase di stallo perché a fronte della decisione assunta dal PKK con il suo ultimo congresso, tenutosi il mese scorso, favorevole al dissolvimento dell’organizzazione qualora siano avviati i percorsi di democratizzazione internamente alla Turchia, dal governo turco non si è ancora visto o sentito nulla che vada in quella direzione e la repressione verso i dissidenti politici si è fatta più aspra, con la rimozione anche di molti dei sindaci curdi eletti durante le scorse elezioni amministrative e sostituiti con commissari nominati dal governo.

Nel frattempo la Siria ha avuto il suo scossone con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte del leader della formazione jihadista Ahmad al-Shara, sostenuto da Ankara, il quale ha dichiarato immediatamente che la Siria sarà uno Stato centralizzato e nessuna forma di autonomia amministrativa sarà concessa. Ovviamente al-Shara quando esprimeva la linea politica della Siria che ha in mente guardava dritto negli occhi i curdi dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria, la DAANES, che dal gennaio del 2014 si governano, insieme agli altri popoli del Rojava, nel rispetto del contratto sociale che hanno siglato e che è l’espressione concreta del confederalismo democratico.

Delle negoziazioni tra al-Shara e Abdì, comandante delle SDF, le Forze di difesa siriane che difendono il territorio del Rojava e la DAANES, ci sono state ma il primo con azioni politiche successive ha parzialmente disatteso gli impegni assunti, impedendo il riassorbimento delle tensioni in corso. Poiché al-Shara è un alleato di Erdogan e il presidente turco vuole la fine della DAANES, che tiene sotto pressione anche attraverso le milizie proxy del SNA, per i curdi del Rojava la situazione è molto critica, in considerazione anche del fatto che l’alleato statunitense non è mai stato così inaffidabile come da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca.

Le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, giovane curda iraniana, rea di non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica
E poi ci sono i curdi dell’Iran, anche loro oppressi da un regime che nel settembre del 2022 ha ucciso una giovane curda iraniana, Mahsa Amini, per non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica. La morte di Mahsa ha scatenato la rivolta di tante giovani e tanti giovani che hanno coniato lo slogan “Jin Jiyan Azadi”, ossia “Donna Vita Libertà”, con il quale gridano la loro rabbia ma esprimono anche la loro resistenza contro un regime che soffoca le libertà e che se la prende in modo più violento con le donne e le minoranze.


Netanyahu è sotto processo della Corte penale internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui 125 Paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma. Non lo hanno ratificato Russia, Stati Uniti e Israele.
Sentire Benjamin Netanyahu pronunciare “Jin Jiyan Azadi” rivolgendosi al popolo iraniano per incitarlo a sollevarsi contro il regime degli Ayatollah e così fare un favore a Israele, speranzoso in un cambio di regime nel Paese, è stato un insulto alla battaglia coraggiosa che uomini e donne stanno facendo per conquistare la democrazia. Netanyahu, colui che verrà ricordato dalla storia per le migliaia di donne (e bambini, ma anche uomini) morte a Gaza, trasformata da lui e dal suo governo in un inferno, che ha fatto trascinare Israele davanti alla Corte penale internazionale dal Sud Africa con l’accusa di crimine di genocidio e che è destinatario di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità forse ha pensato che bastasse ripetere come un pappagallo “Jin Jiyan Azadi” per ottenere la simpatia del popolo iraniano, il quale aveva già iniziato a morire sotto le sue bombe.

PJAK e KJAR

Il PJAK, il Partito della Vita Libera del Kurdistan, a seguito dell’aggressione di Israele all’Iran ha rilasciato un comunicato stampa il 14 giugno scorso con il quale lucidamente afferma che “questa è una guerra di potere e di interessi in conflitto, non una guerra di liberazione dei popoli e delle nazioni” e aggiunge che “l’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia una triste realtà: per gli Stati le vite delle persone non contano”. Il comunicato prosegue lanciando un appello all’unità e alla collaborazione democratica “tra chi crede nella libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari” perché “il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e un regime dittatoriale”. Il PJAK considera “un dovere storico la cooperazione tra i partiti curdi e la transizione dal governo partitico all’autogoverno popolare in Kurdistan” e invita “tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile, con le donne iraniane in prima linea, ad avviare una nuova fase della rivoluzione ‘Jin Jiyan Azadi’”. Gli fa eco la dichiarazione del 18 giugno del KJAR, la Società delle donne libere del Kurdistan dell’Est, che dopo aver espresso con chiarezza “che questa guerra non è una guerra di liberazione della società e tantomeno delle donne” sottolinea come i movimenti delle donne lavorino per liberare la società in tutti i suoi segmenti e che “per raggiungere questi obiettivi è necessario abbandonare centralismo, dogmi religiosi, patriarcato e nazionalismo”.


I curdi in Iran temono che questa guerra scatenata da Israele porterà a una maggiore repressione da parte di Teheran nei confronti degli oppositori e delle minoranze e si stanno organizzando per resistere all’ondata di violenza che si aspettano. Temono che dopo l’Iraq, la Libia e la Siria, con gli interventi occidentali che hanno prodotto conflitti permanenti, adesso sia venuto il momento dell’Iran. Il modello che offrono per venire fuori dal caos mediorientale è ancora una volta il confederalismo democratico, il quale permetterebbe di costruire e mantenere la pace attraverso il principio della solidarietà tra i popoli e consentirebbe di sciogliere le contraddizioni create ad arte dagli Stati facendo leva sulla religione e sulle provenienze etniche per mantenere il dominio sui popoli.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv

NOTE

(1) Si tratta di un modello che attribuisce lo spazio politico-decisionale alle periferie, organizzate su base cittadina e, nelle città più grandi, sulle assemblee di quartiere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”: la lotta disperata di una vedova afghana per i suoi figli

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 16 giugno 2025

Hadia* aveva solo 21 anni quando suo marito fu ucciso in un attentato suicida nella capitale afghana Kabul, lasciandola da sola con tre figli piccoli da crescere.

Il bombardamento ha sconvolto la vita un tempo pacifica della famiglia. Ancora traumatizzata dalla perdita del marito in modo così violento, Hadia si è improvvisamente trovata a dover uscire e cercare lavoro in un Paese dove, anche prima del ritorno al potere dei talebani, la maggior parte delle donne rimaneva a casa con i figli.

Ma se la vita era dura prima del 2021, non era nulla in confronto a ciò che Hadia deve affrontare ora. Oltre a non riuscire a trovare lavoro a causa delle crescenti restrizioni imposte alle donne dai talebani afghani, è stata costretta a nascondersi sotto la minaccia che le venissero portati via i figli.

Dopo aver fatto tutto il possibile per tenerli al sicuro, Hadia ora deve affrontare una causa legale intentata dal padre del marito defunto per ottenere la custodia della figlia adolescente e dei due figli più piccoli. Sebbene affermi che l’uomo sia un tossicodipendente, essendo una donna single, la legge le sarebbe comunque contro.

“Un giorno, mio ​​figlio è tornato a casa pallido. Mi ha detto che suo nonno gli aveva bloccato la strada e aveva cercato di costringerlo ad andare con lui”, ha raccontato.

“Mi si strinse il cuore. Se i miei figli finissero con lui, li venderebbe sicuramente per pagarsi la droga.”

I suoi timori non sono infondati. L’Afghanistan ha uno dei tassi di tossicodipendenza più alti al mondo, povertà e disperazione sono diffuse e la disponibilità di stupefacenti è molto elevata.

Hadia sentiva di non avere altra scelta che fuggire e da allora ha cambiato casa tre volte. Ora vive in una zona tranquilla di Kabul, ma teme di non essere al sicuro nemmeno lì, dopo che suo suocero ha sporto denuncia alle autorità accusandola di aver rapito illegalmente i bambini.

“Il pensiero che dopo tutto quello che ho sopportato, tutto questo dolore e questa solitudine, possano finire nelle mani di un tossicodipendente mi fa impazzire”, ha detto.

La situazione di Hadia, per quanto estrema, offre uno spaccato della difficile situazione delle vedove e delle altre madri single nell’Afghanistan odierno, dove povertà, restrizioni legali e lo stigma sociale della vedovanza hanno creato una tempesta perfetta di sofferenza.

Lo scorso anno, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha segnalato che in Afghanistan le famiglie guidate da donne sono quelle che hanno subito le conseguenze più gravi del declino economico del Paese.

Per Hadia, trovare un riparo e un lavoro negli ultimi anni è stata una sfida enorme. Senza un uomo, ha faticato persino ad affittare un alloggio. Faceva i lavori che riusciva a trovare, lavorando nelle scuole e nelle fattorie per soli 4.000-5.000 afghani (60-70 dollari) al mese, o tessendo tappeti. Tornata a casa tardi, è stata criticata come “immorale” e le è stato chiesto con chi fosse stata.

“Se indossavo vestiti nuovi, mi sussurravano: ‘Chi glieli ha comprati? E ​​in cambio di cosa?'”

Costrette al matrimonio

Sebbene abbia ancora 30 anni, le rughe sul volto di Hadia parlano di anni di dolore e stanchezza e la pelle delle mani che accarezzano delicatamente il viso del suo giovane figlio è ruvida.

Il consiglio religioso presso il quale si è lamentato il suocero l’ha convocata per un’udienza, ma la sola idea la terrorizza.

Hadia si preoccupa soprattutto per la figlia tredicenne, temendo che il suocero la spinga a un matrimonio precoce. Essendo stata lei stessa vittima di un matrimonio forzato, sa cosa significherebbe.

Hadia non ricorda esattamente se aveva 13 o 14 anni quando suo padre la diede in sposa a un uomo di 32 anni, in un cosiddetto matrimonio di scambio, una pratica tradizionale in cui una ragazza di una famiglia viene scambiata con una ragazza di un’altra.

“Mio padre mi ha data via in cambio del matrimonio di mio fratello. All’epoca non capivo cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato”, ha detto.

Quel matrimonio durò solo un anno. Litigi tra il fratello di Hadia e sua moglie portarono alla loro separazione, a seguito della quale anche Hadia divorziò. Pochi mesi dopo, suo padre la risposò, questa volta con l’uomo che sarebbe diventato il padre dei suoi figli.

Il suo secondo matrimonio durò 14 anni. Nonostante le difficoltà, Hadia lo descrive come una vita relativamente tranquilla. Ma con la morte del marito in un attentato suicida, il ciclo di dolore e sofferenza ricominciò da capo.

Nonostante tutte le sofferenze che ha sopportato, Hadia non abbandona mai la speranza. Sogna un futuro diverso per i suoi figli, libero dal dolore che ha conosciuto.

Ora vive in un rifugio nascosto, la cui ubicazione non è stata rivelata da Rukhshana Media. Temendo di perdere i suoi figli, nascondersi è l’unica opzione che sente di avere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”, ha detto. “Persino la legge di questo Paese darebbe ragione a un uomo come lui, un tossicodipendente.”

Nota*: Nome cambiato per motivi di sicurezza.

Bennett: serve un approccio “a tutto campo” per porre fine all’oppressione sistematica di genere in Afghanistan

OHCHR, Comunicato stampa, 18 giugno 2024

Il modello di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali delle donne e delle ragazze da parte dei talebani si è intensificato, causando danni immensi che hanno interessato generazioni e tutti gli elementi della società in Afghanistan, ha affermato oggi un esperto delle Nazioni Unite.

“L’istituzionalizzazione da parte dei Talebani del loro sistema di oppressione di donne e ragazze, e i danni che continua a radicare, dovrebbero sconvolgere la coscienza dell’umanità”, ha affermato Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, che ha presentato il suo ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani, parlando a fianco delle donne afghane. “Queste violazioni sono così gravi ed estese che sembrano costituire un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile, che potrebbe costituire crimini contro l’umanità. Questo attacco non solo è in corso, ma si sta intensificando”.

Bennett ha chiesto ai talebani di adottare misure immediate per porre fine al loro sistema di oppressione di genere che priva le donne e le ragazze dei loro diritti fondamentali.

Il Relatore speciale ha inoltre sollecitato un approccio “a tutto campo” per sfidare e smantellare il sistema istituzionalizzato di oppressione di genere dei talebani e per chiamare a risponderne i responsabili.

Questo approccio include l’uso di meccanismi di responsabilità internazionali, quali la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia, nonché il perseguimento dei casi a livello nazionale secondo il principio della giurisdizione universale.

Ha inoltre raccomandato agli Stati membri di adottare il concetto di apartheid di genere e di sostenerne la codificazione, dopo aver ascoltato le donne afghane affermare che questo termine descrive al meglio la loro situazione.

Bennett ha affermato che è fondamentale che la società civile afghana, comprese le donne impegnate nella difesa dei diritti umani, partecipi in modo significativo alla riunione degli inviati speciali delle Nazioni Unite per l’Afghanistan che si terrà a Doha alla fine di questo mese e che i diritti delle donne e delle ragazze siano affrontati sia direttamente sia nell’ambito di discussioni tematiche.

“Il miglioramento dei diritti umani è fondamentale per un Afghanistan in pace con se stesso e con i suoi vicini. Non discutere di questo tema comprometterebbe sia la credibilità che la sostenibilità del processo”, ha affermato l’esperto.

Bennett ha affermato che prima di procedere a qualsiasi normalizzazione o legittimazione delle autorità de facto in Afghanistan, dovrebbero essere introdotti miglioramenti concreti, misurabili e verificati in materia di diritti umani.

“Gli afghani, in particolare le donne e le ragazze afghane, hanno dimostrato un coraggio e una determinazione straordinari di fronte all’oppressione dei talebani. La comunità internazionale deve dare prova di protezione e solidarietà, anche con azioni decise e basate su principi, che mettano i diritti umani al centro di tutto”, ha affermato Bennett.

 

Il Sig. Richard Bennett è il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan . Ha assunto ufficialmente l’incarico il 1° maggio 2022. Ha prestato servizio in Afghanistan in diverse occasioni ricoprendo diversi incarichi, tra cui quello di Capo del Servizio per i Diritti Umani della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA).

I Relatori Speciali fanno parte delle cosiddette Procedure Speciali del Consiglio per i Diritti Umani. Procedure Speciali, il più grande organo di esperti indipendenti nel sistema delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, è il nome generico dei meccanismi indipendenti di inchiesta e monitoraggio del Consiglio che affrontano situazioni nazionali specifiche o questioni tematiche in tutto il mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non fanno parte del personale delle Nazioni Unite e non percepiscono alcun compenso per il loro lavoro. Sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione e svolgono il loro servizio a titolo individuale.

Non solamente io!

Il forte grido di dolore delle ragazze afghane davanti all’indifferenza per le continuate privazioni di ogni loro spazio vitale, cui sono costrette dalle leggi fondamentaliste talebane e della diffusa mentalità ignorante e misogina

Samana Jafari, 8AM Media, 22 giugno 2025

Ero seduta sulla sedia, ma la mia anima era altrove. Le gambe mi tremavano per l’ansia e le dita erano strette l’una all’altra. Le tecniche di respirazione profonda si stavano rivelando inefficaci e lo stress si faceva sempre più opprimente. Mezz’ora prima avevano annunciato che l’esame sarebbe iniziato con un’ora di ritardo, il che significava altri trenta minuti intrappolati in questa tensione soffocante. Anche la ragazza seduta accanto a me sembrava nervosa, forse anche più di me. Feci un respiro profondo e cercai di distrarmi. Tanto per rompere il ghiaccio, le chiesi: “A che livello sei?”.

Lei mi guardò e disse: “A1”.
Perfetto. Eravamo allo stesso livello.

Il lenimento della musica

Continuai la conversazione fino ad arrivare alla domanda che rivolgevo sempre e che aveva sempre dato un solo tipo di risposta. «Perché stai studiando il tedesco?»

Potrei giurare di aver visto il dolore affiorare nei suoi occhi. Riconobbi il groppo in gola e le lacrime pungenti che le si appiccicavano alle ciglia. Neanche lei se la passava bene.

«Non c’è altra scelta», rispose. «Per tre anni ho bussato a tutte le porte per poter seguire le cose che amo, ma non se n’è aperta nemmeno una. Ora sono solo stanca”.

Rimasi in silenzio,  non avevo nulla da offrirle come conforto. Anch’io ero stanca, stanca di lottare e di non raggiungere mai alcun risultato. In effetti, tutte in quella classe erano esauste, tutte avevano preparato le valigie per fuggire da un Paese in cui non c’era posto per loro.

Avvertendo il mio silenzio, aggiunse: “Ti piace la musica? A me piace molto cantare”.

Io e la mia amica illuminammo al solo sentir parlare di musica. Raccontammo quanto la musica significasse per noi e la mia amica parlò delle sue esperienze canore durante gli inni scolastici.

Quei giorni sembravano ormai un sogno lontano: i giorni in cui ci avvolgevamo i nastri neri, rossi e verdi intorno ai polsi, mettevamo le mani sul cuore e cantavamo con orgoglio l’inno nazionale davanti a centinaia di persone. Giorni in cui l’insegnante non si presentava e noi chiedevamo al nostro amico di recitare le poesie in Dari dal nostro libro di testo con una melodia. Giorni in cui cantavamo tutti all’unisono:

“La luce del risveglio ha riempito il mondo,
Per quanto tempo dormirai nell’ignoranza, o compagno?”.

Anche la ragazza condivise con noi i suoi ricordi legati al canto. Desiderose di sentire la sua voce, le chiedemmo se poteva canticchiare qualcosa per noi. Lo fece, ma la canzone che scelse scatenò una ribellione dentro di me, una ribellione di sentimenti sepolti che dovevano essere liberati.

Lei cantò e io mi immersi nei ricordi, nelle parole che avevo conservato per tre anni: le prese in giro che avevo sopportato nei momenti peggiori, le frecciatine crudeli di chi mi circondava.

“O, mia patria, ancora una volta, eccoti qui con le spalle al Pamir,
Scuoti le stelle, perché l’alba si diffonda”.

Solo io, con milioni di ragazze

Ancora oggi qualcuno mi ha detto: “È un bene che le scuole abbiano chiuso. Stavi studiando solo per necessità”. La sua risata dopo – un pugnale conficcato nel cuore – è stata insopportabile.

“Scrollati di dosso le stelle, perché le stelle di questa città
sono tutte cicatrici di ferite, tutti ricordi di catene”.

Solo pochi giorni prima, qualcun altro mi aveva detto: “Nessuno rimane analfabeta. Tu non puoi andare a scuola – gli altri vivono una vita perfettamente normale”. Strano come, in un paese in cui a milioni di ragazze è vietato l’accesso all’istruzione, a ognuna di noi venga detto: solo tu. Solo io? E la prossima generazione? Le ragazze in prima media quest’anno? Quelle che si sono unite a noi solo due mesi fa? Solo io? E la ragazza in nero, seduta di fronte a me?

“Io sono la speranza di un giorno, quando ti vedrò come meriti,
Un’immagine dai mille colori, come le ali di un pavone”.

Anche lei aveva dei sogni: forse, con la sua bella voce, sperava di studiare musica un giorno. Ma ora aveva messo a tacere quella voce, l’aveva sepolta in fondo alla sua anima, solo per poter rimanere in questo paese. E per cosa? Che cosa offre questo Paese per scegliere una vita invisibile qui piuttosto che una visibile altrove? Perché, nonostante tutte le ingiustizie che questa terra ci infligge, cantiamo ancora canzoni per la nostra patria con tanta passione?

“Lascia che i fiori, il grano e i papaveri fioriscano nei tuoi campi,
lascia che il sole sorga dalle tue spalle orgogliose”.

Cos’ha questa terra che ci spinge a morire per essa, anche quando non ci è permesso camminare liberamente tra i suoi campi in fiore? Perché ci vergogniamo di aver deciso di andarcene? Perché altri se ne sono andati così facilmente, hanno fatto le valigie al primo segno di un’altra bandiera nel cielo e non si sono mai voltati indietro?

“O mia patria, che nessuno dei tuoi germogli pianga mai, 

Che nessuno soffochi nel tuo dolore.”

A questo punto della canzone, la sua voce si incrinò per l’emozione. Lei stava male e noi stavamo peggio. Perché il mondo continuava a dire “soltanto tu” a milioni di persone come noi? Giuro sul Dio in cui credo, non sono solamente io.

Perché nessuno vuole capire?

Quel giorno non risposi. La guardai soltanto, con gli occhi colmi di dolore. Perché qui nessuno ci capisce. E non avrebbero bisogno delle nostre parole per capire. Tutto è visibile: nei nostri occhi addolorati, nelle nostre voci strozzate dalle lacrime, nel pianto nascosto nella notte, nelle statistiche internazionali, in ogni angolo di questa geografia ferita.

Tutto è sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno vuole capire.

Nessuno vuole ammettere che non sono l’unica. Vorrei essere soltanto io, perché mi sono abituata a piangere di notte e se la mia assenza potesse portare gloria alla mia patria, se la mia presenza qui fosse la causa della povertà, dell’insicurezza, dell’impotenza, allora scomparirei volentieri. Vorrei che sacrificando me, solo me, si potessero ricucire i pezzi rotti del mio Paese.

Ma nessuno vede. Nessuno capisce.

Se sono l’unica a essere stata privata di qualcosa, perché ho dovuto camminare per chilometri, controllando tutte le biblioteche che ho incontrato, per trovare dei libri di testo per la dodicesima classe? Sono l’unica? E allora chi sono queste ragazze esauste intorno a me, quelle che hanno scelto questa classe per sfuggire alla propria disperazione? Perché qualcuna si è data fuoco e nessuno se n’è accorto? Perché qualcuna si è buttata da questo stesso edificio e nessuno l’ha vista? Perché nessuno ha notato il tremito nella voce di quella ragazza?

Perché sono diventati tutti ciechi e sordi?

Dov’è la cantante afghana Zalala? I talebani sono accusati di aver nascosto la verità

Mentre aumentano i timori per l’incolumità dell’artista, molti afghani accusano i talebani coprire la sua scomparsa e le istituzioni internazionali come l’UNAMA di non fare nulla per difendere i diritti delle donne e del popolo afghan0

RAWAnews, 21 giugno 2025

La cantante pashto Zalala Hashimi, finalista della 12ª serie di Afghan Star, è scomparsa da oltre due settimane a Kabul. Il marito ne ha denunciato la scomparsa dopo che era uscita di casa per andare a trovare un’amica e non era più tornata. Nonostante le ricerche approfondite, non è stata ritrovata e sia l’amica che la sua famiglia affermano di non sapere dove sia.

Come molte altre artiste, Zalala è stata costretta al silenzio. Pur avendo la possibilità di lasciare il Paese, ha scelto di rimanere a Kabul per motivi familiari. Secondo l’ideologia talebana, le donne artiste sono viste con disprezzo ed etichettate come immorali, rendendo di fatto sacrificabile la loro vita.

Un video sfocato che circola online, che mostrerebbe Zalala mentre cammina e corre, viene utilizzato da fonti affiliate ai Talebani per affermare che è partita di sua spontanea volontà. Tuttavia, non ci sono prove credibili a sostegno di questa versione e gli osservatori ritengono che faccia parte di un  tentativo più ampio di normalizzare la sua scomparsa e allontanare i sospetti da chi è al potere.

Le istituzioni internazionali come l’UNAMA, profondamente inserite nel panorama politico di Kabul, hanno risposto con nient’altro che “espressioni di preoccupazione” di routine. Molti afghani accusano queste organizzazioni di complicità, sostenendo che privilegiano la diplomazia a porte chiuse con i leader talebani rispetto alla sicurezza e ai diritti del popolo afghano, soprattutto delle donne.

Mentre la paura e la frustrazione crescono, gli attivisti chiedono pressioni internazionali urgenti e una reale assunzione di responsabilità. Il caso di Zalala Hashimi non è isolato: è un riflesso del terrore imposto alle donne afghane da un regime che il mondo continua a tollerare.

Dal ritorno al potere dei Talebani nel 2021 – insediati con il sostegno degli Stati Uniti – l’Afghanistan è diventato un inferno per le donne. Sotto il governo talebano, le donne sono state sistematicamente cancellate dalla vita pubblica, bandite dall’istruzione, dal lavoro e dall’espressione artistica e sottoposte a severe restrizioni che hanno spinto molte di loro alla disperazione.

 

Le donne afghane affrontano una quasi totale esclusione sociale, economica e politica

The European Times, 18 giugno 2025, Notizie delle Nazioni Unite

Ma di recente il livello di partecipazione ha raggiunto un nuovo minimo: zero.

Nessuna donna negli organi decisionali nazionali o locali.

Si prevede che nessuna ragazza frequenterà l’istruzione secondaria dopo il divieto del dicembre 2024.

Questi numeri fanno parte dell’indice pubblicato martedì dall’agenzia per la parità di genere UN Women che è lo studio più completo sulla disuguaglianza di genere in Afghanistan da quando i talebani hanno ripreso il controllo di fatto nel 2021.

Dipinge un quadro preoccupante della situazione della parità di genere in Afghanistan.

“Dal [2021], abbiamo assistito a un attacco deliberato e senza precedenti ai diritti, alla dignità e all’esistenza stessa delle donne e delle ragazze afghane. Eppure, nonostante le restrizioni quasi totali alle loro vite, le donne afghane perseverano”, ha dichiarato Sofia Calltorp, responsabile dell’azione umanitaria di UN Women, a briefing a Ginevra.

Sommario
Il secondo divario di genere più ampio al mondo
Il rapporto pubblicato da UN Women ha evidenziato che, sebbene il regime talebano abbia assistito a una disuguaglianza di genere “senza precedenti”, le disparità esistevano già da molto prima del 2021.

“Il problema della disuguaglianza di genere in Afghanistan non è iniziato con i talebani. La loro discriminazione istituzionalizzata si aggiunge a barriere radicate che frenano anche le donne.,” ha detto la signora Calltorp.

Secondo l’indice, l’Afghanistan presenta attualmente il secondo divario di genere più grave al mondo, con una disparità del 76 per cento tra i risultati delle donne e degli uomini in materia di salute, istruzione, inclusione finanziaria e processo decisionale.

Le donne afghane sono attualmente realizzando solo il 17 per cento del loro potenziale e le recenti politiche del governo de facto, tra cui il divieto di accesso delle donne all’istruzione secondaria previsto per dicembre 2024 e le restrizioni sempre più severe alla libertà di movimento delle donne, perpetueranno e forse peggioreranno questo potenziale sottoutilizzato.

Esclusione sistematica ed effetti sociali
Questo tipo di esclusione sistematica delle donne dalla società a tutti i livelli non solo impedisce il progresso sulla Sviluppo Sostenibile Obiettivi (OSS) e la parità di genere, ma aggrava anche la povertà e l’instabilità in senso più ampio, rendendo più difficile per l’economia diversificare le fonti di lavoro.

“La risorsa più grande dell’Afghanistan sono le sue donne e le sue ragazze. Il loro potenziale continua ad essere inutilizzato”, ha affermato il Direttore Esecutivo di UN Women Sima Bahous.

Attualmente, solo il 24% delle donne fa parte della forza lavoro, rispetto all’89% degli uomini. Il continuo e prolungato conflitto economico ha portato ad un aumento del numero di donne nella forza lavoro.

“Crisi economiche, politiche e umanitarie concomitanti – tutte incentrate sui diritti delle donne – hanno spinto molte famiglie sull’orlo del baratro. In risposta a ciò – spesso per pura necessità – sempre più donne stanno entrando nel mondo del lavoro”, ha affermato la signora Calltorp.

Tuttavia, le donne continuano a lavorare prevalentemente in posizioni meno retribuite e meno sicure e sono in larga parte responsabili di tutto il lavoro domestico non retribuito.

La signora Calltorp ha osservato che, nonostante le “devastanti” difficoltà quotidiane a cui vanno incontro le donne afghane, queste continuano a difendere se stesse e i propri diritti.

“[Le donne afghane] continuano a trovare modi per gestire attività commerciali e difendere i propri diritti e quelli di tutti gli afghani… Il loro coraggio e la loro resilienza attraversano generazioni”, ha affermato la signora Calltorp.

Scelte drastiche
Parallelamente al deterioramento del panorama della parità di genere, le prospettive degli aiuti in Afghanistan sono sempre più fosche, con solo il 18 percento del piano di risposta umanitaria per l’Afghanistan finanziato per il 2025.

Ciò sta avendo un impatto tangibile sul campo, portando le agenzie delle Nazioni Unite e i partner a chiamata per azioni e fondi.

“In Afghanistan abbiamo visto ripetutamente come il sostegno dei donatori possa fare la differenza tra la vita e la morte… Facciamo un appello urgente ai donatori affinché aumentino i finanziamenti flessibili, tempestivi e prevedibili”, hanno affermato.

Le donne, le ragazze e altri gruppi vulnerabili sono particolarmente colpiti da questa carenza di finanziamenti: 300 centri di nutrizione per madri e bambini malnutriti hanno chiuso e 216 centri contro la violenza di genere hanno sospeso le attività, con un impatto su oltre un milione di donne e ragazze.

“Le scelte che faremo ora riveleranno ciò che rappresentiamo come comunità globale. Se il mondo tollera la cancellazione delle donne e delle ragazze afghane, invia un messaggio che i diritti delle donne e delle ragazze ovunque sono fragili e sacrificabili.,” ha detto la signora Calltorp.

“Le donne e le ragazze afghane non si sono arrese e noi non ci arrenderemo con loro.”

Fonte

Da dirigenti ad allevatrici di polli: la dignità delle lavoratrici afghane

Avvenire, 9 giugno 2025, di Nasrin Jawadi e Khadija Haidary, Sheberghan (provincia di Jawzjan)

Espulse dai taleban dalle principali professioni, tante sono costrette a vendere uova, cucire o fare le domestiche per sfamare se stesse e le famiglie. «Non sanno quanto sappiamo essere perseveranti»

Dare voce alle donne. Quando e dove non ne hanno. Perché della loro condizione ancora troppo svantaggiata si sappia e si parli. Dal Libano all’Iraq, dal Messico alla Nigeria, dall’Afghanistan alla Somalia, dall’India al Perù: sono 10 le reti indipendenti di giornaliste che hanno aderito alla nostra proposta “Donne senza frontiere”, il progetto di Avvenire per l’8 marzo 2025. A partire da quella data pubblichiamo ogni 15 giorni un reportage di ciascuna delle reti coinvolte. Questa puntata è stata realizzata dalla giornalista Sandy Hayek da Tripoli (Libano), della rete femminista Sharika Wa Laken.

Somaya nasconde il cesto di uova sotto il chador blu mentre si affretta verso il mercato Yingi Kint di Sheberghan, nella provincia di Jawzjan. È un luogo frequentato esclusivamente da uomini ma Somaya ha messo da parte la paura per andarci ogni giorno. La prima tappa è un piccolo negozio di alimentari di un conoscente con cui si è accordata per vendere le uova. «Da ognuno ricavo cinque afghani (la valuta locale equivalente a meno di dieci centesimi di euro, ndr)», racconta a Zan Times. «Vendo da 30 a 35 uova al giorno. A volte vado di negozio in negozio per smerciarle se il mio conoscente non le compra tutte». Sa che i taleban proibiscono alle donne di girare per il mercato o di commerciare apertamente. Quindi non si attarda ma torna a casa il più rapidamente possibile. Con i modesti guadagni delle uova deve soddisfare le necessità essenziali della propria famiglia.

Nei quasi quattro anni di potere, i taleban hanno imposto numerose leggi e regolamenti volti a limitare in modo grave o addirittura proibire il lavoro delle donne. Per prima cosa, queste ultime sono state espulse dagli uffici governativi, poi è stato vietato loro di avere incarichi nelle organizzazioni non governative, nelle Nazioni Unite, nelle università e persino nei saloni bellezza femminili. Con la progressiva riduzione delle opportunità di impiego, sempre più afghane sono state costrette ad accontentarsi di posti non qualificati e faticosi. Dodici anni fa, da quando il marito è morto in un incidente stradale, Somaya è diventata il capofamiglia: deve, dunque, farsi carico della figlia e della madre. Un nucleo di tre donne è fuori dalla logica dei taleban per i quali Somaya, come tutte le altre, deve uscire di casa solo in compagnia di un tutore maschio. Questa 44enne – che sopravvive nutrendo e prendendosi cura di alcuni polli – un tempo era una dirigente dell’amministrazione provinciale. «Avevo esperienza nel mio campo – spiega –. Le persone erano soddisfatte del mio lavoro; tutti mi rispettavano. In realtà, non avevo mai gestito un allevamento di pollame; non sapevo nemmeno badare a una sola gallina. Ma ho dovuto arrangiarmi e imparare poiché non trovo nient’altro. E ciò mi rattrista profondamente». Un tempo guadagnava circa 10mila afghani al mese (quasi 130 euro, ndr). Ora è fortunata se arriva alla metà grazie al pollaio improvvisato nel cortile di casa.

Somaya non è un caso isolato, come confermano i dati. Nel 2024, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha rivelato che, a causa delle restrizioni, l’occupazione femminile totale è calata dall’11 per cento al 6 per cento nel giro di due anni. Di recente, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), citando l’Ong specializzata Acaps, ha dichiarato che il numero di lavoratrici afghane è precipitato dal ritorno al potere dei taleban. Il rapporto Acaps, pubblicato a febbraio, sottolinea che mettersi in proprio è l’unica opzione disponibile per le donne. Per questo, il numero di imprese al femminile è quadruplicato tra il 2021 e il 2024. A questo, sempre in base alle stime di Acaps, si aggiunge la cifra di società senza licenza gestite da donne, più che raddoppiata negli ultimi anni. Ma anche queste attività non sono esenti da gravi rischi. Nel giugno 2022, Zuleikha e il marito sono stati licenziati dopo che il loro ufficio ha ricevuto un avvertimento dai taleban. Entrambi erano professionisti con 15 anni di esperienza nelle organizzazioni internazionali, tra cui Acted e l’Aga Khan development network. Eppure non sono riusciti a trovare un nuovo impiego. Così, come Somaya, hanno creato un pollaio in cortile e hanno avviato un allevamento di galline. La coppia, che un tempo guadagnava più di 40mila afghani al mese (circa 500 euro, ndr), ora fatica a ricavarne 3mila (meno di 40, ndr). «Le galline depongono le uova; i miei figli ed io ci prendiamo cura di loro, poi vendiamo le uova e con questo copriamo a malapena le spese», spiega. Il marito di Zuleikha, inoltre, possiede un triciclo da carico che gli consente di ottenere 200 afghani al giorno (2,5 euro, ndr). Con queste cifre non ce la fanno a sopravvivere. «Crescere un figlio è difficile, figuriamoci sei. Siamo davvero in una situazione difficile, non siamo in grado di andare avanti», si lamenta. Zan Times ha parlato con sette donne delle province di Takhar e Jawzjan che in passato ricoprivano incarichi qualificati all’interno della pubblica amministrazione o in Ong e ora devono allevare galline o svolgere altri lavoretti, come il ricamo o le pulizie domestiche, per sfamare se stesse e le famiglie.

Fino al novembre 2024, Shabanam, 32 anni, è stata formatrice in un istituto di educazione sanitaria. Ora è una sarta che decora con le perline le culle dei neonati. Seppure aveva appreso quest’arte fin da bambina dalla madre, prima non l’aveva mai considerata un mezzo per guadagnarsi da vivere. «Mio marito mi diceva: “Non farlo, non ci riuscirai” – racconta –. Ma dopo essere caduta in depressione a causa della disoccupazione, ho insistito. Avevo necessità di lavorare e di essere indipendente». Shabanam vende i suoi prodotti alle donne del quartiere, nei bazar locali e ad acquirenti che comprano all’ingrosso e li esportano in altre province. Sposata da solo due anni fa e senza figli, è determinata a costruire una vita migliore per la futura famiglia. «Questa è la mia lotta. I taleban si illudono di poter sconfiggere le donne afghane, ma non sanno nulla della nostra perseveranza e della nostra capacità di resistenza», dichiara con voce risoluta.

Mentre Shabanam e marito riescono comunque a cavarsela, Golchehra, 27anni, capo di una famiglia di sei persone, vive sull’orlo di un precipizio. Un tempo direttrice di una scuola privata, è costretta ad accettare qualsiasi lavoro per sfamare i suoi. Golchehra va di casa in casa, lavando vestiti e pulendo case per 250 afghani al giorno (circa 3 euro, ndr). «Alcune famiglie mi umiliano, mentre altre, con compassione, mi dicono: “Che fine ha fatto la ragazza che un tempo era direttrice e aveva un buono stipendio?”». In alcune case dove ha prestato servizio, è stata molestata. «Alcuni uomini mi hanno proposto di fare sesso in cambio di denaro e questo mi turba profondamente», dice. «Devo, però, fare finta di nulla. Ho dovuto reprimere tutti i sentimenti. Ora vivo solo per la mia famiglia». Non può smettere di lavorare anche se non si sente al sicuro. «Vorrei trovare un posto migliore. Non è facile. Ci provo, però nella speranza che le mie sorelle non debbano affrontare quel che sto soffrendo io».

Sono stati utilizzati pseudonimi per le intervistate, così come per Nasrin Jawadi, giornalista afghana
Khadija Haidary è una reporter di “Zan Times”
La traduzione dall’inglese è di Lucia Capuzzi

Zan Times, il giornale delle donne scavalca i Continenti: lo scrivono insieme reporter rimaste nel Paese ed espatriate
Quando, il 15 agosto 2021, i taleban sono tornati a Kabul, Zahra Nader non era in Afghanistan. Era partita tre anni prima per salvarsi dalla furia degli estremisti che avevano intensificati gli attacchi mirati nei confronti dei giornalisti. Zahra, corrispondente di punta per il “New York Times” dalla capitale afghana era un bersaglio. Da qui la scelta di trasferirsi a Toronto con la famiglia e là ha frequentato un dottorato in Studi di genere alla York University. Anche a distanza, il crollo della Repubblica e la creazione dell’Emirato è stato un duro colpo. «Ho sentito di avere la responsabilità di fare qualcosa per le donne del mio Paese». Nell’agosto 2022 è nato, così, “Zan Times”, cioè il “giornale delle donne”, poiché ha una redazione tutta femminile. A realizzare il quotidiano online sono reporter afghane della diaspora e da altre rimaste all’interno e costrette a pubblicare con uno pseudonimo. Sono queste ultime a raccogliere informazioni locali, a realizzare interviste e inchieste su temi scomodi per il regime: dagli abusi nei confronti delle minoranze, ai matrimoni forzati, la violenza domestica, la resistenza femminile. Un lavoro ad alto rischio: rischiano di essere arrestate, sottoposte a punizioni fisiche, addirittura uccise. Per questo, l’anonimato è fondamentale. Gli articoli sono confezionati insieme alle colleghe espatriate che le supportano con ricerche e monitorando i loro spostamenti per cercare di ridurre i pericoli. «Ci informano ogni volta che escono di casa per lavoro, ci indicano esattamente dove si recheranno e chi incontreranno. Le giornaliste locali, inoltre, non si conoscono fra loro in modo da evitare che, in caso di fermo, possano rivelarne i nomi ai taleban. Siamo noi a fare da collegamento», sottolinea la fondatrice di “Zan Times” che, per iniziare il progetto ha dato fondo ai propri risparmi e ha coinvolto i lettori in una raccolta online. I testi sono scritti in inglese e farsi, simile al dari, tra le lingue più diffuse in Afghanistan insieme al pashtu.

Le insegnanti affermano che i talebani le hanno licenziate senza pensione

amu.tv  Sharif Amiry  13 giugno 2025

Diverse insegnanti affermano di essere state licenziate dai Talebani senza alcun indennizzo o pensione, gettando molte di loro in una profonda crisi economica.

Le insegnanti, alcune delle quali lavorano da decenni nel sistema scolastico pubblico afghano, protestano per la brusca perdita di mezzi di sussistenza e chiedono il pagamento degli stipendi dovuti.

Oltre ai licenziamenti, le insegnanti denunciano che i loro stipendi sono stati ripetutamente tagliati e alcune sono state riassegnate a scuole lontane per ordine dei Talebani. Nel frattempo, i dipendenti pubblici che rischiano il licenziamento affermano che il processo è stato arbitrario e privo di trasparenza.

“Ho insegnato per più di 35 anni. Ora che ho perso mio marito e non ho figli, sono senza lavoro. Non ricevo la pensione. Non so cosa fare”, ha detto Madina, un’insegnante.

La situazione di Madina non è unica. Molte insegnanti intervistate da Amu TV affermano di essere state costrette a dimettersi o licenziate direttamente, spesso senza preavviso o indennità di buonuscita.

“Inizialmente, il nostro stipendio è stato ridotto da 7.000 afghani a 5.000. Ma ora ci pagano 3.000 afghani. Non sappiamo come permettercelo. Viviamo nello stesso posto, ma ci hanno assegnato una scuola lontana, dove è difficile e costoso raggiungerla”, ha detto un’insegnante.

Un dipendente pubblico ha descritto i licenziamenti come indiscriminati e ingiustamente mirati.

“Siamo sull’orlo del licenziamento. I nostri colleghi vengono licenziati ogni giorno. Siamo preoccupati di cosa fare. I licenziamenti sono stati selettivi e privi di fondamento giuridico”, ha detto un dipendente pubblico.

Gli economisti avvertono che la rimozione arbitraria di insegnanti e dipendenti pubblici donne esperte potrebbe destabilizzare ulteriormente la già fragile economia afghana e aggravare le disuguaglianze esistenti.

Queste politiche potrebbero minare i servizi pubblici in un momento in cui il Paese meno se lo può permettere”, ha affermato l’economista Sayed Masood. “Danno non solo alle persone colpite, ma anche al sistema educativo più ampio”.

A Kandahar, fonti hanno rivelato che il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha ordinato una riduzione del 20% del personale governativo. I critici avvertono che questi tagli vengono attuati in modo sconsiderato, privando le istituzioni pubbliche di competenze e colpendo in modo sproporzionato le donne.

Mentre i licenziamenti continuano, insegnanti e dipendenti pubblici chiedono un giusto processo, trasparenza e il ripristino di stipendi e pensioni, richieste che, finora, sono rimaste senza risposta.