Donne e curdi, le prime vittime della Repubblica Islamica
Uikionlus – 20 ottobre 2021 – di Gianni Sartori
Secondo quanto scrive nel suo rapporto di settembre l’Associazione dei diritti dell’uomo del Kurdistan (KMMK) sarebbero in sensibile aumento le violazioni dei diritti umani da parte dello Stato iraniano nel Rojhilat (il Kurdistan dell’Est).
Sia le esecuzioni che le uccisioni, così come gli arresti e le torture. In significativa crescita anche i casi di suicidio. Il mese scorso almeno tre curdi sono morti in maniera sospetta e una persona è stata giustiziata senza processo. Otto kolbar (“spalloni”, frontalieri…) sono stati uccisi dalle guardie di frontiera e una cinquantina di persone sono state arrestate. Solo in settembre, ripeto.
Stanche di subire maltrattamenti, soprusi e torture, dal 16 ottobre le detenute curde del carcere di Ourmia sono in sciopero della fame. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il tentativo della direzione di obbligarle a frequentare dei corsi (non meglio precisati) stabiliti dall’amministrazione carceraria. Per chi si rifiutava è scattata la rappresaglia: proibizione di ricevere telefonate dai familiari e soltanto un’ora d’aria giornaliera.
In un primo momento le detenute avevano reagito con proteste e incendiando le coperte. Come ritorsione molte sono state torturate e minacciate di finire in isolamento.
Le poche notizie sulla protesta sono filtrate attraverso i familiari delle prigioniere.
Va comunque precisato che non sono solamente le donne curde a subire la violenza delle istituzioni iraniane. Secondo Iran Human Rights le donne giustiziate dal regime di Teheran dal 2010 al 2021 sono state almeno 164 (comprese alcune minorenni). Un numero alquanto inferiore rispetto a quello delle prigioniere politiche giustiziate nei primi anni della soidisant “rivoluzione” islamista (anche se non si è mai potuto accertarne il totale). Solo nel 2020 delle 16 donne giustiziate nel mondo, ben 9 (più della metà) sono state impiccate in Iran. Fermo restando che presumibilmente i media iraniani riportano soltanto il 30% delle esecuzioni tacendo sulle rimanenti (soprattutto se si tratta di donne) e che per le donne (e per quelle curde in particolare) non esiste parità di diritti civili rispetto agli uomini. Tantomeno uguaglianza in campo legislativo.
Inoltre è stato possibile documentare che la maggioranza delle donne rinchiuse nel braccio della morte delle carceri iraniane provengono da situazione di emarginazione, sottoposte – oltre che al patriarcato – a discriminazione, disuguaglianze, povertà.
Emblematico il caso di Hourieh Sabahi. Madre di cinque figli (di cui uno disabile), abbandonata dal marito. Quando venne giustiziata per presunto spaccio di droga, i suoi familiari non avevano nemmeno il denaro sufficiente per seppellirla.
E secondo IHR non si tratterebbe di un caso isolato. Altro tabù che evidentemente la società civile iraniana non ha ancora adeguatamente affrontato è quello dei matrimoni forzati. Tra le donne giustiziate nel periodo 2010-2021 almeno sei erano “spose bambine” mentre Safieh Ghafouri era una sposa offerta da una tribù ad un’altra per placare una faida sanguinosa.
Per la donna, anche se maltrattata, non esiste possibilità autonoma di divorzio. Con tali premesse non appare casuale che quasi il settanta per cento dei casi di omicidio per mano femminile siano contro un marito (compresi quelli dei “matrimoni temporanei”). Altra questione su cui non si vuole indagare è quello dei casi di pazzia (una evidente attenuante se venisse presa in considerazione).
Molte condanne derivano da accuse legate agli stupefacenti, ma non sempre appaiono plausibili. Sono state accusate di spaccio anche persone arrestate nel corso di proteste e manifestazioni. Zahra Bahrami, 46 anni, era stata incarcerata per le proteste del 2009 e inizialmente condannata per “moharebeh” (inimicizia contro Dio). Successivamente venne torturata per costringerla a confessare inesistenti reati legati alla droga e giustiziata nel gennaio 2011.
Numerose – dicevo – le condanne per omicidio, considerato tale anche quando la donna si era difesa da uno stupro (come nel caso di Reyhaneh Jabbari di 26 anni, torturata perché si autoaccusasse e giustiziata il 25 ottobre 2014). Altre condanne per “inimicizia contro Dio (moharebeh) o per “attentato alla sicurezza dello stato” (sia che si tratti di proteste, azioni di guerriglia o spionaggio).
Gran parte delle confessioni (in genere l’unica prova a carico dell’imputato) verrebbero, secondo IHR, estorte con la tortura.
Inoltre spesso nel corso della fase investigativa non si consente alla persona accusata di parlare con un avvocato. Senza dimenticare (a ulteriore conferma della sostanziale subalternità della donna nella società iraniana) che nei casi relativi alle aggressioni e all’omicidio le testimonianze di una donna sono ritenute di scarso valore. Oltre a quella di Reyhaneh Jabbari (già citata) qualche altra vicenda risulta particolarmente odiosa.
Nell’ottobre del 2018 è stata giustiziata Zeinab Sakamvand (ne avevamo parlato anche qui); sposa bambina, minorenne all’epoca della morte del marito e ripetutamente vittima di stupro da parte del cognato (che lei accusava di essere il vero omicida). Prima di impiccarla le autorità avevano atteso che mettesse al mondo il figlio (poi nato morto) concepito in carcere. Per i carcerieri sarebbe stato il frutto di una relazione con un detenuto, ma non si può escludere che fosse stata violentata.
Soffriva invece di malattia mentale Zeinab Khodamorad, giustiziata nel dicembre 2020. Portata via dall’ospedale subito dopo un parto dal marito (nonostante il parere contrario dei medici) dopo qualche giorno aveva ucciso il figlio.
Vittima di abusi domestici da parte di un marito che non le volle concedere il divorzio, Maryam Karini ha trascorso 13 anni nel braccio della morte prima di essere impiccata nel marzo di quest’anno. Nel caso dei prigionieri politici (numerosi come abbiamo visto i curdi) in genere vengono accusati di “attentato alla sicurezza dello stato” e la condanna a morte può dipendere da “inimicizia contro Dio” (moharéebeh), “corruzione sulla terra” (efsad-fil-arz), “ribellione armata” (baghy) e spionaggio.
Emblematica la vicenda della militante curda Shirin Alamhooli. Arrestata nel 2008, in quanto membro del PJAK era stata condannata dal tribunale “rivoluzionario” per moharéebeh. Non parlava il farsi e quindi non aveva potuto nemmeno difendersi nel corso del processo. Nelle lettere scritte dal carcere di Evin aveva raccontato le torture a cui venne sottoposta per mesi. Venne giustiziata nel maggio del 2010.
PAKISTAN: TERRORISMO DI MARCA SETTARIA O STRATEGIA DELLA TENSIONE?
Gianni Sartori
Sempre più spesso ci tocca consatare come molte lotte di natura indipendentista (di “liberazione”) vengano strumentalizzate (degenerando rispetto alle rivendicazioni originarie) per qualche “regolamento di conti” tra le varie potenze regionali. Forse è anche il caso del Belucistan
Per cui appare arduo collocare i recenti massacri di natura settaria perpetrati in Pakistan da un presunto (soidisant…?) Fronte di Liberazione del Belucistan.
Quantomeno bisogna ricordare altri avvenimenti, non necessariamente collegati, ma in qualche modo “sincronici”.
Dalla ribellione innescata dai giovani in Bangladesh che ha portato alla cacciata e fuga (in India) della prima ministra Sheikh Hasina (e sui cui aleggia – così come aleggiava sulla defenestrazione nel 2022 del leader pakistano Imran Khan e del suo PTI – il sospetto di “rivoluzione colorata”, manovrata fomentando anche movimenti islamisti) alla recente visita del leader indiano Shri Narendra Modi a Kiev interpretata come una “andata a Canossa” per espiare (dopo la tirata d’orecchi di Washington) in qualche modo l’eccesso di equidistanza (pendente verso Mosca) nella guerra tra Russia e Ucraina. Osservando quel che accade in Pakistan e in Bangladesh si deve sempre tener conto di un possibile ruolo dell’India (e viceversa). Non solo quando si tratta del conteso Kashmir, ma anche per la regione del Punjab (divisa in due dalla frontiera indo-pakistana).
E poi, dato che qui si parla di Belucistan, non si può trascurare ovviamente l’Iran. Se il Belucistan “pakistano” costituisce circa il 48% del Paese (la più vasta provincia del Pakistan con ben 347.190 km²), in Iran (province di Sīstān e Balūcistān) arriva a coprire 181.785 km² del territorio (a cui va aggiunta una piccola porzione delle aree meridionali dell’Afghanistan). E come in Pakistan, ormai da decenni anche le province iraniane di Sīstān e Balūcistān sono percorse da fermenti separatisti dei Beluci.
Il 16 febbraio di quest’anno Teheran aveva bombardato con aerei e droni il territorio pakistano per colpire le basi di un gruppo separatista del Belucistan Jaish ul-Adl. Gruppo considerato salafita e jihadista e già noto in quanto responsabile nel 2019 dell’uccisione di 27 membri del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica.
L’operazione iraniana sul territorio pakistano era avvenuta a un giorno di distanza da un’altra analoga condotta in Irak.
Entrambe come risposta agli attacchi rivendicati dallo Stato islamico a Kermal (3 gennaio 2024) e a quello di Rask del 15 dicembre 2023 (undici poliziotti uccisi) rivendicato da Jaish ul-Adl.
Ovviamente il Pakistan aveva protestato vigorosamente per questa violazione dello spazio aereo. Accusando l’Iran di aver provocato la morte di alcuni bambini.
Insomma un bel casino, un groviglio. Non contate comunque su chi scrive per sbrogliare il bandolo della matassa.
Cerco solo di “contestualizzare” quanto è avvenuto nel Belucistan “pakistano” alla fine di agosto.
Questi i tragici eventi.
Il 26 agosto oltre una ventina di persone (23 quelle accertate, per la maggior parte originarie del Punjab) sono state uccise nel distretto di Musakhail (sud-ovest del Pakistan, Belucistan).
Stando alle rivendicazioni, i responsabili dell’eccidio appartengono a un gruppo di separatisti beluci, il BLA (Baloch Liberation Army). Una trentina di terroristi avevano installato posti di blocco lungo l’autostrada costringendo a scendere i passeggeri di una ventina di autobus e di alcuni camion e furgoni (poi incendiati). Dopo averne controllato i documenti e l’identità, avevano aperto il fuoco.
In un’altro attacco (sempre nella nella provincia di Monday), evidentemente coordinato con il primo, una quindicina di persone, ugualmente provenienti dal Punjab, venivano assassinate.
In un comunicato il BLA aveva rivendicato il grave atto terroristico sostenendo che in realtà sarebbero stati uccisi “soldati in abiti civili” in quanto “la lotta è contro l’esercito pakistano occupante”.
Una presa di posizione poco convincente se pensiamo ad altri episodi simili.
Come in aprile quando, nei pressi della città di Naushki, una decina di lavoratori provenienti dal Punjab (e impiegati nell’estrazione delle risorse minerarie), dopo essere stati fatti scendere, venivano ammazzati brutalmente.
Nelle ore immediatamente precedenti il gruppo separatista aveva assaltato anche una caserma nei pressi di Kalat uccidendo sei agenti e quattro civili. Inoltre erano stati distrutti con l’esplosivo alcuni tratti della rete ferroviaria.
Da un comunicato del ministro dell’Interno Mohsin Naqvi si è poi appreso che le forze dell’ordine avevano ucciso una dozzina di miliziani (mentre altre fonti dell’esercito pachistano parlavano di una ventina).
Alla fine le vittime complessive (compresi militari e miliziani beluci) superavano come minimo la settantina.
Gianni Sartori (30-8-2024)
https://centrostudidialogo.com/2024/10/13/asia-opinioni-azione-terroristica-in-belucistan-contro-lavoratori-immigrati-di-gianni-sartori/
ALEPPO IN MANO AI MERCENARI JIHADISTI DI ANKARA
Gianni Sartori
Ha resistito cinque giorni Rusil Mohammed Khalaf alle gravi lesioni riportate per un bombardamento dell’artiglieria turca. La tredicenne è deceduta venerdì 29 settembre nell’ospedale di Aleppo dove era stata trasportata dal suo villaggio, Helîsa (distretto di Fafîn).
Qui, nel bombardamento del 24 novembre, erano rimaste ferite una mezza dozzina di persone, tra cui tre bambini. Un altro dei feriti, un uomo di 44 anni, è ugualmente deceduto dopo il ricovero in ospedale.
Il villaggio dove viveva Rusil sorge circa 20 chilometri a sud-est da Tel Rifat e 15 a nord di Aleppo. Fa parte del cantone di Afrin-Shehba amministrato dall’AANES (Amministrazione autonoma del Nord e dell’est della Siria). Qui, dopo l’invasione turca del 2018, si sono rifugiate migliaia di persone. Finora una sorta di enclave di interposizione (difficile definirla “zona smilitarizzata”, meglio no man’s land) tra i territori controllati dal regime di Damasco e quelli occupati da Ankara e dai suoi mercenari. Comunque obiettivo costante di bombardamenti.
Nel frattempo, da venerdì 29 novembre, le bande armate di Hayat Tahrir al-Sham e altre fazioni islamiste cominciavano ad entrare in Aleppo. Completando un’operazione contro l’esercito di Damasco avviata il 26 novembre e divenuta incalzante, irrefrenabile nella notte del 27 (utilizzando anche l’abituale metodo dell’auto-bomba contro i posti di blocco governativi). Incontrando scarsa resistenza da parte dei militari siriani (si è parlato di trattative accomodanti) e determinando l’evacuazione degli abitanti da alcuni quartieri.
Stando a quanto viene riportato da fonti curde “molte persone che vivono nelle zone di Aleppo finora controllate dal regime di Damasco si rifugiano nei quartieri di Şêxmeqsud e Eşrefiyê gestiti dall’AANES” e sotto la protezione delle Forze Democratiche Siriane (Hêzên Sûriya Demokratîk). Alcune associazioni di autisti si si stanno prodigando inviando decine di autobus per consentire ai cittadini di Aleppo di spostarsi in aree più sicure. Così come altri mezzi sono stati inviati a Raqqa. L’operazione umanitaria si svolge con la collaborazione dell’AANES e una ventina di autobus sarebbero già partiti da Aleppo portando in salvo gruppi di studenti.
Il 30 novembre comunque la notizia è diventata ufficiale (v. i comunicati di ANHA News). Gran parte di Aleppo si trova ormai sotto il controllo di Hayat Tahrir Al Sham. In particolare: Bustan El Qesir, Kelasê, Ferdos, Qesîle, la cittadella di Aleppo e dintorni, i quartieri di Cemîliye, Bustan Zehara, Selahedîn, Heleb El Cedîde, El Feyd, parte dei distretti di Rashidîn, Ramûsa, Hemdaniye, Pîşesazi, Mîrîdiyane di Bab Neyreb. Probabilmente anche i quartieri di Eziziye e Suryan.
Stando alle immagini fin qui diffuse, i mercenari sembrano ostentare anche simboli dell’Isis.In un comunicato delle Forze Democratiche Siriane si avverte che “gli attacchi contro la regione del nord e dell’est della Siria sono penetrati in profondità”. Aggiungendo che la cosa era altamente prevedibile in quanto i preparativi erano in corso da tempo. Intanto una ventina di civili hanno perso la vita (molti di più i feriti) a causa di un bombardamento. Gli aerei – forse russi – avevano colpito la folla assiepata nei pressi della rotatoria di Al-Basil. Complessivamente le vittime (tra civili e combattenti) dei primi quattro giorni di questa operazione militare tra Idlib e Aleppo sarebbero almeno 327.
E pensare che è almeno dal 2018 (assalto a Afrin) che le bande jihadiste ex (ex ? mah?!?) Al-Qaida imperversano, ammazzano, saccheggiano, stuprano…sotto la supervisione di Ankara che nei territori da cui i curdi son dovuto fuggire costruisce insediamenti. Per poi due anni fa riprendere alla grande gli attacchi sia sul terreno che dal cielo (aviazione turca ovviamente).
Ma nessuno diceva niente, forse per non disturbare Erdogan…
Non so se ora la situazione gli sia sfuggita di mano e i tagliagole fascio-islamici si muovano autonomamente.
Oppure, semplicemente, per Erdogan sia arrivato il momento di regolare i conti con i curdi una volta per tutte…
Vedremo…
Ma chi sono i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham?
HTS è una formazione jihadista (classificata come terrorista dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu) che da qualche tempo controlla la regione di Idlib (nord-est della Siria). E’ composta da vari gruppi islamisti tra cui l’ex (ex ?) Al Qaeda Nusra (ribattezzata nel 2016 Fateh al-Sham). La sua influenza – con la tacita approvazione della Turchia – si va estendendo in buona parte del nord della Siria mentre contemporaneamente tenta di riciclarsi con un’immagine pubblica meno repulsiva (ma stando alle informazioni fin qui circolate a Idlib vige un regime teocratico totalitario). Tra l’altro uno dei responsabili del mancato attentato di Monaco era legato a HTS.
Gianni Sartori
ESCALATION MILITARE E CRISI UMANITARIA NEL NORD DELLA SIRIA, MA PER ORA I CURDI RESISTONO
Gianni Sartori
Com’era prevedibile l’unica resistenza valida all’attacco portato dall’alleanza turco-jihadista nel nord della Siria è stata finora quella delle Forze democratiche siriane (SDF, formate da combattenti curdi e dai loro alleati arabi). Il 30 novembre sul fronte di Al Bab (provincia di Aleppo) si sono registrati combattimenti tra le SDF e i mercenari filo-turchi del soidisant Esercito nazionale siriano (SNA). Gli scontri si sarebbero svolti (condizionale d’obbligo in quanto le notizie sono per forza di cose frammentarie; non si hanno dati certi nemmeno sul numero dei caduti) nella zona di Tedef. Dopo che in questa area si era creato un “vuoto di potere” per la ritirata delle truppe governative di Damasco, gli ascari di SNA avevano tentato di procedere nella loro avanzata.
Stando a quanto diffuso dall’agenzia ANHA, le unità di SNA avrebbero dovuto ritirarsi di fronte alla risposta delle SDF.
Altre fonti riferiscono di bombardamenti russi contro le postazione jihadiste. Nel corso di tali attacchi una base jihadista che sorgeva in prossimità di una serie di silos contenti grano, sarebbe stata distrutta (ma preservando i silos e il loro prezioso contenuto).
Qui la Turchia negli anni scorsi (agosto 2016) aveva avviato l’operazione “Scudo dell’Eufrate”. Ufficialmente per combattere l’Isis, ma in realtà per approfittare della vittoria imminente delle SDF contro lo Stato islamico (ormai in ritirata). Non a caso l’intervento turco seguiva di poco la liberazione di Manbij operata dalle milizie curdo-arabe.
Nel frattempo (1 dicembre 2024) arrivano notizie di operazioni dell’aviazione turca i cui caccia stanno sorvolando il distretto di Til Temir (cantone di Cizîr, nord-est della Siria). Gli aerei turchi si sono alzati in volo dopo una serie di bombardamenti dell’artiglieria turca contro i villaggi locali. Segnale inequivocabile che l’invasione delle milizie jiadiste non è soltanto “tollerata”, ma supportata dall’esercito di Ankara.
Nonostante le rassicuranti dichiarazioni di molti esponenti politici (anche nostrani), ormai si assiste impotenti all’intensificazione dei combattimenti e al fatale deterioramento della vita quotidiana delle popolazioni. Tra l’incudine dell’invasione e il martello dei bombardamenti.
Vittime, come sempre, soprattutto tra i civili. Nella regione di Aleppo anhe oggi (1 dicembre) almeno quattro persone (tra cui due bambini rispettivamente di 2 e 3 anni) sono rimasti ferite mentre rientravano nel loro villaggio (Nairbiyeh) da Haidariya.
Contemporaneamente anche la città di Tal Tamr (cantone di Al-Jazira) veniva sottoposta a estenuanti bombardamenti da parte dell’esercito turco. Tra i villaggi maggiormente colpiti, Al-Tawila e Qabur al-Qaraqna. Pare che non vi siano vittime, ma solo gravi danni materiali (tra cui una centrale elettrica).
Durissimi combattimenti si stanno svolgendo nelle campagne di Afrin tra le Hêzên Rizgariya Efrînê (HRE, Forze di Liberazione di Afrin) e i mercenari filo-turchi che tentano di infiltrarsi con l’appoggio del’artiglieria che colpisce sia le infrastrutture che le aree abitate. Ma le bande jihadiste rimangono bloccate dalla strenua resistenza curda. Nessuna meraviglia del resto. E’ dal 2018 (con l’operazione turca ironicamente denominata ”ramoscello d’ulivo”) che – per quanto “occupata, rastrellata, passata per le armi…” – Afrin combatte e non si arrende.
Purtroppo, ripeto, è sulla popolazione civile che le conseguenze pesano inesorabilmente. Rendendo sempre più incerte, precarie le condizioni di vita in un contesto già fragile.
Oltre all’incremento esponenziale degli sfollati (profughi interni), alla penuria alimentare e alla pressoché generalizzata mancanza di servizi sanitari, va considerato che l’inacessibilità di molte aree rende assai poblematici gli indispensabili interventi umanitari.
Altri scontri tra curdi e jihadisti si registrano nel cantone di Şehba (villaggi di Şewarqa e di Malikiyê), mentre i bombardamenti turchi avrebbero colpito (sempre condizionale d’obbligo in questa fase incerta e convulsa) anche Şewarqa, Merenaz, Kiştiar e Tetmeraş.
Le postazioni jihadiste vengono a loro volta colpite dall’aviazione russa, sia nella regione di Aleppo (almeno tre morti tra le milizie filo-turche nei quartieri di Rausa e Kirêdiya) che di Idlib.
Quanto a Damasco, starebbe rafforzando le difese militari della città di Hama posizionandosi sul monte Zên El Abidin (anche se per ora non vi sono segnali di una imminente controffensiva governativa).
Preoccupazioni per la sorte della popolazione civile sono state espresse sia dal segretario generale della Lega Araba, Ahmed Abu Al Xeyt, sia dagli Stati Uniti. Anche se è lecito dubitare della buona fede di Sean Savett (porta-voce del Consiglio nazionale di sicurezza). Il quale oltretutto attribuisce – fantasiosamente – la responsabilità di quanto sta avvenendo alla “intransigenza di Damasco” (e non alla Turchia, membro della Nato).
Per quanto concerne gli appelli per un cessate-il-fuoco immediato, si ha la netta impressione che rimarranno inascoltati a lungo.
Gianni Sartori
ROJAVA RESISTE !
Gianni Sartori
Come ricordava nel suo comunicato del 24 Dicembre (Sauvons Kobané, Sauvons le Rojava !) la Coordination Nationale Solidarité Kurdistan (CNSK, un coordinamento di organizzazioni curde e della sinistra francese)* dieci anni fa, nel 2014, sembrava che “niente e nessuno potesse arrestare l’avanzata delle bande jihadiste dello Stato islamico che aveva conquistato metà dell’Iraq, massacrato gli ezidi di Shengal e proclamato il califfato sull’Iraq e sul nord della Siria. Mentre dalla sua autoproclamata “capitale”, Raqqa, partivano le direttive per compiere attentati in Europa e soprattutto a Parigi”.
Resisteva soltanto una piccola città in prossimità della frontiera turca, Kobane. Mentre Daesh mobilitava tutte le sue forze contro questo estremo caposaldo di libertà, la Turchia bloccava le frontiere impedendo l’arrivo di rinforzi ai curdi di Kobane e reprimeva le espressioni di solidarietà arrestando i manifestanti e condannandoli a decenni di carcere. Le combattenti e i combattenti curdi caddero a migliaia, ma (come quella di Stalingrado contro i nazifascisti) la resistenza di Kobane rappresentò l’inizio della disfatta per Daesh. Fino alla caduta di Raqqa e al definitivo smantellamento del Califfato.
Da allora, riprendendo il comunicato della CNSK “i curdi alleati delle tribù arabe siriane, hanno costruito una federazione autonoma dei popoli del nord e dell’est della Siria. L’AADNES, fondata su un contratto sociale rivoluzionario: totale uguglianza tra le religioni, i gruppi etnici, parità uomo/donna in tutte gli organi direttivi della federazione autonoma, uguaglianza in materia di divorzio, eredità etc.”. A cui si dovrebbe aggiungere l’abolizione della pena di morte, il protagonismo delle donne nel campo dell’autodifesa armata, il rinnovato rispetto ambientale…
Ma la repentina caduta di Bachar Al Assad ha consentito la presa del potere in Damasco di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), organizzazione in tempi recenti ancora affiliata a Al Qaeda. Ragion per cui è lecito mantenere dei dubbi sulle dichiarazioni di adesione ai principi democratici del leader Ahmad Al Chareh. Il decreto sul disarmo di tutte le milizie, nelle intenzioni di HTS avrebbe dovuto coinvolgere anche le Forze Democratiche Siriane (SDF) che difendono l’AADNES. Ma le SDF per ora hanno declinato l’invito.
Sembra invece non dover riguardare l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), notoriamente costituito da jihadisti armati e finanziati da Ankara in chiave anti-curda. Dopo Manbij e Tall Rifaat ora gli ascari di Ankara puntano su Kobane, città-simbolo.
“Lasceremo ancora una volta – concludeva il comunicato di CNSK– che siano i curdi a sacrificarsi per fermare le orde jihadiste?”
Va riconosciuto a Erdogan (finanziatore e manovratore ben poco occulto del SNA) di non fare mistero su quali siano le sue reali intenzioni. Risale alla settimana scorsa un suo intervento (alla cerimonia per i premi TÜBİTAK et TÜBA) in cui sfacciatamente dichiarava che la Turchia “è più grande della Turchia e non può accontentarsi dei suoi 782 000 km²”. Una rivendicazione della “missione che la Storia ci ha affidato” (o dello “spazio vitale”?) che implica altri progetti di invasione sia in Rojava che in Bashur (Kurdistan entro i confini iracheni).
Quanto alla situazione (fluida, instabile…) sul campo di battaglia, al momento pare che le Forze Democratiche Siriane (SDF) stiano respingendo, infliggendo gravi perdite, l’Esercito Nazionale Siriano (SNA). Sia impedendo l’attraversamento dell’Eufrate verso est, sia passando alla controffensiva. Nonostante il 24 dicembre i militari turchi siano intervenuti direttamente sul terreno per aiutare gli alleati in difficoltà, alcune delle località perse nel corso delle ultime due settimane sono tornate sotto il controllo curdo con nuove teste di ponte sulla riva ovest del fiume.
Mentre ovviamente proseguono i sistematici bombardamenti (artiglieria, aerei, droni…) che colpiscono soprattutto obiettivi civili.
Il 23 dicembre è iniziata l’operazione delle SDF denominata Eziz Ereb (in memoria del comandante della Brigata Mártir Şervan, caduto il 10 dicembre nella battaglia del ponte Qereqozak).
Nella mattinata del 24 dicembre “è stato respinto un attacco dei mercenari dell’occupazione turca nel villaggio di Qabr Emo a est di Manbij dove ora si stanno svolgendo feroci combattimenti tra le nostre forze e i mercenari”. Ricordo che secondo l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani (SOHR) le SDF al momento si troverebbero a una decina di chilometri dalla città di Manbij.
Inoltre le forze arabo-curde avrebbero distrutto alcuni veicoli militari degli avversari (come documentato da video e foto).
Continuano pure a combattere presso la diga di Tishrin anche le forze del Consiglio Militare di Manbij. Arrestando l’avanzata del SNA contro i villaggi di Mahshiyat al-Tawahin e Khirbet Tuwaini (distretto di Abu Qalqil). Catturando blindati, pezzi di artiglieria con le relative munizioni e distruggendo un veicolo BMB e altri due veicoli militari che trasportavano mitragliatrici pesanti DshK. Nella serata del 24 dicembre i combattimenti erano ancora in corso.
Sempre nel pomeriggio del 24 dicembre (come ha comunicato Ronahi TV), una forte esplosione si è avvertita nella città di Manbij senza che al momento siano disponibili informazioni più precise.
Coincidenza. A diversi chilometri di distanza, in territorio turco, nella mattinata del 24 dicembre un’altra esplosione devastava (almeno una dozzina le vittime) la fabbrica di munizioni ZSR nel quartiere di Kavakli (distretto di Karesi, ovest della Turchia). “Curiosamente – ironizzava una fonte curda – stavolta le autorità turche non accusano la guerriglia curda”.
Riassumendo, questo a grandi linee il quadro generale nella serata del 24 dicembre:
Dalle zone occupate dalla Turchia di Serêkaniyê (Ras al-Aïn) e di Girê Spî (Tall Abyad), proseguono gli attacchi delle truppe jiahadiste mercenarie di SNA contro la regione autonoima. Attacchi mirati soprattutto verso la regione di Tall Tamir (a amaggioranza cristiana) e la città di Aïn Issa lungo la strategica autostrada M4.
Nel villaggio di Alya (Al-Aalye ash-Sharqiya, a ovest di Tall Tamir, hanno tentato di penetrare nella zona autogestita, ma almeno tre assalitori soni caduti per mano delle SDF. Diversi altri sono rimasti feriti e alcuni pick-up sono andati distrutti.
Ripetutamente colpiti dai bombardamenti turchi la zona di Zirgan (Abu Rasen, a est delle aree occupate di Serêkaniyê) e i dintorni di Tall Tamir. Particolarmente danneggiati i villaggi di Tawila e di Tel Tawil, oltre alla parte centrale di Zirgan.
Altri due miliziani jihadisti sono rimasti uccisi nel villaggio di Umm al-Baramil (nei pressi di Ain Issa) mentre cercavano di infiltrarsi oltre le linee difensive delle SDF. A seguito dei bombardamanti turchi, migliaia di persone di Aïn Issa sono rimaste semza elettricità. Più a est, i villaggi di Fatisa e di Mişêrfa, sono stati ugualmente duramente colpiti, mentre a Qizelî, nella mattinata del 24 dicembre, veniva distrutto un deposito di grano.
Non mancano segnali di speranza.
Nel Cantone di al-Jazira, l’amministrazione di al-Hasakah ha indetto una marcia di sostegno ai combattenti delle SDF che si stanno sacrificando per arrestare l’occupazione turca del nord-est della Siria.
Partita dal quartiere di Tal Hajar, ha visto la partecipazione di migliaia di rappresentanti curdi, arabi, assiri, armeni… Oltre a molti esponenti politici e della società civile.
Inalberando le bandiere delle SDF, dell’AADNES e della rivoluzione siriana, hanno lanciato slogan quali “L’unità delle diverse componenti garantisce la stabilità”, “No all’occupazione turca”, “Le SDF sono la nostra forza”, “Viva la fratellanza tra i popoli”, “Viva l’unità del popolo curdo”, “Viva la resistenza del Rojava”.
Stessi concetti espressi in molti striscioni e cartelli.
Dopo aver osservato un minuto di silenzio per i caduti, era intervenuto Aldar Khalil (membro della Co-Presidenza del PYD) appelandosi alla “democrazia in Siria e al rispetto di tutte le componenti della società”.
Chiedendo a tutti di “lavorare uniti per costruire una Siria democratica” e ricordando che le SDF “non sono soltanto una forza militare, ma una forza di protezione che rappresenta la volontà dei popoli del nord e dell’est della Siria” . Senza dimenticare che se la regione è diventata un “simbolo, un modello di ordine democratico e di fratellanza tra i popoli” gran parte del merito spetta al ruolo di pioniere delle donne.
A inasprire ulteriormente i rapporti tra gli invasori filo-turchi e le tribù arabe (su cui forse Erdogan contava per dividere l’amministrazione autonoma), un ulteriore evento esecrabile.
Un miliziano della divisione al-Hamza (Al-Amshat, battaglione del SNA sotto comando turco) ha rapito e violentato una bambina di sette anni a Manbij scatenando la furiosa, legittima reazione della tribù Al-Bubna (si parla di scontri con vittime tra milizie tribali e SNA). Si tratta dell’ennesimo crimine di guerra e contro l’umanità opera dei mercenari jihadisti che colpiscono di preferenza la popolazione civile.
Intanto a Damasco, oltre ai negoziati (scontati) tra la Turchia e gli islamisti, vengono segnalate le trattative tra alcune potenze occidentali e Hayat Tahrir al-Sham, i nuovi detentori del potere in Siria.
Gianni Sartori (24 dicembre 2024)
*nota 1
CNSK: Amis du Peuple Kurde en Alsace – Amitiés Kurdes de Bretagne – Amitiés Kurdes de Lyon Rhône Alpes – Amitiés Kurdes de Vendée – Association Iséroise des Amis des Kurdes – Association France Kurdistan – CADTM : Comité pour l’abolition des dettes illégitimes -Conseil Démocratique Kurde en France – Ensemble – Mouvement Jeunes Communistes de France – Mouvement de la Paix – Mouvement des Femmes Kurdes en France – Mouvement contre le Racisme et pour l’Amitié́ entre les Peuples – Nouveau Parti Anticapitaliste – Parti Communiste Français – Union Communiste Libertaire – Union Syndicale Solidaires – Solidarité et Liberté Provence