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Autore: CisdaETS

Siria ultimo sangue

Enrico Campofreda dal Blog 12 marzo 2025

Prevale la penna ma rispunta il fucile. L’ultima settimana della Siria di al-Sharaa è stata un intreccio di futuro e passato che ha portato il governo islamista di Damasco a proseguire la via dell’annunciata ricomposizione del Paese con la mano tesa e il pugno duro. Durissimo. L’accordo firmato direttamente dal presidente ad interim col responsabile delle milizie siriano-democratiche, il kurdo Mazlum Kobane e quello stipulato con la comunità drusa, tengono fede al passo promesso tre mesi fa dall’ex leader del gruppo Tahrir al-Sham quando entrava nei palazzi che furono degli Asad. Ricomporre una nazione che è multi etnica e multi confessionale per poterla rilanciare in un quadro di sicurezza e pacificazione interna. Questo quadro beato e fiducioso stride coi tre giorni di fuoco e sangue vissuti sulla costa occidentale fra Latakia e Tartus. I morti, anche civili, superano il migliaio, appartengono a famiglie alawite bersaglio dei reparti dell’attuale governo che avrebbe così vendicato l’assalto di giovedì scorso a un ‘nucleo di sicurezza’ da parte di presunti rivoltosi. Questi ribelli altro non sono che appartenenti al regime di Bashar che, come ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica, il vicario apostolico di Aleppo Hanna Jallouf, rispondevano a un tentativo di colpo di mano di Maher Asad. Dall’Iraq l’intransigente fratello dirigeva un complotto di ciò che resta d’un esercito dissolto. Volponi come il generale Dallah sapevano cosa fare, questa è la tesi, creare un ‘Comitato per la liberazione della Siria’ nei luoghi dove risiede la comunità alawita fedele agli Asad. Vera o ipotetica questa panoramica ha avuto il tragico epilogo di tre giorni di repressione violenta abbattutasi su chi c’entrava e chi no. Accuse agli armati di al-Sharaa riferiscono di esecuzioni a sangue freddo di donne e minori, una carneficina. Ma come negli anni della “macelleria” ogni parte sottolinea quel che gli interessa. E dunque gli attuali ribelli (che fino a novembre erano lealisti) avevano sequestrato una pattuglia e sgozzato gli appartenenti cavandogli gli occhi.

Quindi la furia reattiva. A far stragi non c’erano solo i manipoli di al-Sharaa ma jihadisti uiguri tuttora presenti sul territorio. Nel parapiglia, fra le ronde sanguinarie son finiti anche cristiani ch’erano per via, un lago di sangue che non fa bene al presunto desiderio di riconciliazione. Come placare in quei luoghi l’odio plurimillenario fra sunniti e alawiti è un’incognita enorme. Il cambio di regime quasi senza colpo ferire del dicembre scorso aveva dell’irreale; certo tutto avveniva nel cimitero diffuso che in quattordici anni aveva sotterrato mezzo milione di cadaveri. E dopo tanta morte stupisce come l’istinto sanguinario persista. Ma c’è chi sostiene che questi giorni siano stati un colpo di coda proprio di quegli elementi del clan Asad che osservano il Paese solo con gli occhi assetati della guerra. Girano notizie che adesso anche Maher sia riparato in Russia. E sulla Siria che al-Sharaa, abbandonata a suo dire la jihad, vuole rasserenare riportando in patria la diaspora dei concittadini, cercando fondi per una vita normale arricchita di strade, case, scuole, ospedali per tutti, kurdi, drusi e alawiti compresi, pesa l’ombra di chi fomentava i conflitti. Pesi massimi e medi, globali e regionali. Perciò serviranno nuovi tavoli dove dibattere e concordare accordi. Se i buoni uffici verso i drusi del sud-ovest piacciono a Israele che s’era già elevato a loro paladino, avanzando oltremodo sulle alture del Golan occupato da decenni, l’autonomia del nord-est pattuita coi kurdi siriano-democratici può scontentare il governo turco. Ankara sui confini meridionali non vuole reparti armati, ora che con Öcalan si parla di addio alle armi, le misure dovranno essere diverse. Il rebus per un al-Sharaa in giacca e cravatta è assai più complicato dei giorni della mimetica che molti suoi fedelissimi non vogliono dismettere.

Siria, accordo tra governo e curdi: il Rojava tra speranze e insidie

dinamopress.it carla-gagliardini 14 marzo 2025

Il collasso del regime di Assad e la formazione di un nuovo governo di origine jihadista e sotto protezione turca apre nuovi problemi per il Rojava. Il recente accordo tattico fra la nuova amministrazione centrale e le Sdf curde promette il riconoscimento dei diritti di quel popolo ma persistono molte difficoltà, vista anche l’intolleranza del nuovo regime verso gli alawiti

In un Medio Oriente in fiamme la situazione del Rojava, regione nel nord-est della Siria dove da più di un decennio governa la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est) a guida curda, è davvero complicata. L’Amministrazione Autonoma è difesa dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane), accusate dalla Turchia di essere una propaggine del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Così Ankara bombarda da sempre quelle terre e ciclicamente lancia delle campagne militari con le quali intensifica la sua azione. L’ultima è quella partita lo scorso novembre quando da Idlib, roccaforte dell’organizzazione Hts (Hay’at Tahrir al-Sham) finanziata dalla Turchia, si è scatenata l’offensiva delle forze di opposizione arabe sunnite contro l’allora presidente Bashar al-Assad.

Mentre l’Hts procedeva spedita verso Damasco, caduta a dicembre senza sostanziale resistenza, le Sna (Esercito Nazionale Siriano), milizie al soldo di Ankara, costituite prevalentemente da foreign fighters, ricevevano gli ordini di penetrare nel Rojava. Il tentativo dell’operazione militare era di conquistare del territorio per allargare la zona cuscinetto, già esistente, al confine tra Turchia e Rojava e infrangere il sogno delle popolazioni di quelle zone che da anni praticano il confederalismo democratico, secondo il paradigma politico di Abdullah Ocalan.

I nuovi padroni della Siria, sbrigativamente rinominati ribelli dalle cancellerie occidentali, sebbene fino alla fuga di Assad fossero considerati spietati jihadisti formatisi nelle fila di al-Qaeda e dell’Isis, come il loro leader Ahmed al-Shaara, attuale presidente della Siria, si sono presentati al mondo con la faccia candida di chi vuole un paese pacificato, inclusivo, rispettoso di culture, lingue, tradizioni e religioni diverse. L’obiettivo chiaro di queste dichiarazioni è dare rassicurazioni e ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali che affliggono la Siria e la sua popolazione. Senza esitazioni, i leader europei sono volati a Damasco e tra strette di mano e raccomandazioni paterne e materne hanno riaperto le ambasciate.

La taglia statunitense sulla testa di al-Shaara è stata rimossa e la gara a intervistarlo è stata vinta dalla BBC con un colloquio di oltre mezz’ora nel quale il neo-presidente siriano con fare pacato ha rassicurato il mondo delle buone intenzioni del suo governo. Alle domande spinose, come ad esempio quale sarà la politica rispetto alle donne, ha risposto rimandando tutto al futuro parlamento e dichiarando che sarà la legge a determinare le regole. Davvero vago e poco rassicurante, visti i precedenti delle organizzazioni a cui è stato affiliato. Non può essere dimenticato infatti quanto accaduto alle donne ezide rapite dall’Isis in Iraq, vendute come schiave in appositi “mercati” allestiti a Mosul, a Raqqa e persino su piattaforme on-line.

Per quello che riguarda invece il Rojava, sin dalla vittoria contro Assad, che per la verità nessuno ha difeso, nemmeno l’alleato russo, al-Shaara è stato chiaro e ha mantenuto la linea: nessuna regione autonoma e ogni formazione militare dovrà entrare nel corpo militare siriano. Insomma, sembra che alla Daanes e alle Sdf non venga fatta nessuna concessione, nonostante i proclami di una Siria inclusiva.

Le Sdf, attraverso i propri comandi, hanno cercato da subito un dialogo con al-Shaara, consapevoli del crinale scosceso su cui il Rojava si trova. Infatti le Sna, con attacchi da terra e il supporto della Turchia dai cieli, hanno conquistato a novembre la città strategica di Mambij e hanno iniziato ad attaccare la diga di Tishreen, sperando di espugnare successivamente la città simbolo della resistenza del Rojava contro l’Isis, ossia Kobane. A disturbare ci sono poi persino le cellule dell’Isis che, approfittando della situazione ancora instabile in Siria, conducono azioni militari contro le Sdf.

Dall’avvio dell’offensiva contro Assad, è cambiata la guida dell’amministrazione statunitense e alla Casa Bianca siede adesso Donald Trump, considerato oggi più che mai un alleato inaffidabile da parte di tutti. Ma le Sdf conoscono molto bene questo tratto del suo “carattere” perché, pur essendo gli Usa loro alleati, nel 2019, una volta sconfitto l’Isis in Siria, Trump ha ordinato il ritiro delle truppe statunitensi ben sapendo che ciò avrebbe comportato un attacco turco contro il Rojava, cosa prontamente avvenuta.

La partita aperta in Siria, dove anche la Russia e Israele sono parte del gioco, trasforma il paese in un terreno davvero periglioso, metaforicamente (e non solo!) minato.

Per questo le Sdf hanno ritenuto necessario il dialogo con i nuovi capi di Damasco. A renderlo ancor più necessario è stato l’appello del leader curdo Ocalan che lo scorso 27 febbraio, accogliendo l’invito al dialogo per porre fine al conflitto tra Stato turco e movimento di liberazione curdo lanciato a ottobre dal presidente del Mhp (Partito del Movimento Nazionalista), partito di ultra-destra islamista, Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, ha chiesto a tutti di deporre le armi e al Pkk di avviare anche un congresso per decidere dello scioglimento del partito, dichiarando la sua ragion d’essere esaurita.

Il Comandante Generale delle Sdf, Mazlum Abdi, aveva immediatamente replicato che il negoziato in corso in Turchia riguardava solo quel paese e non la Siria ma che si aspettava risvolti positivi anche per il Rojava.

Lunedì 10 marzo è arrivata la notizia che al-Shaara e Abdi hanno siglato un accordo in più punti che deve trovare attuazione entro la fine dell’anno. Il portavoce del Pyd (Partito dell’Unione Democratica) Salih Muslim, in un’intervista rilasciata a ANF News ha commentato gli otto punti del documento in modo positivo, sostenendo che la rivoluzione del Rojava si è consolidata e oggi la regione può dire di aver acquisito uno status che gli permette di essere un partner all’interno dello stato siriano.

Nel complesso l’accordo prevede: il riconoscimento di tutti i popoli a partecipare al nuovo processo politico e a lavorare dentro le istituzioni; il popolo curdo è considerato parte integrante della Siria e dunque gli sono garantiti il diritto di cittadinanza, negato sotto Assad padre e figlio, e i diritti costituzionali; l’impegno a lavorare per un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano, ciò significa secondo Salih Muslim che le Sna e gli attacchi turchi in Rojava verranno combattuti insieme dall’esercito siriano e dalle Sdf; il ritorno dei rifugiati siriani nelle loro terre e nelle loro case, quindi sempre secondo Muslim il territorio siriano verrà liberato della presenza turca che ha occupato dei territori; la lotta congiunta contro dichiarazioni e comportamenti volti a alimentare l’odio e a dividere il paese in fazioni; l’assorbimento da parte delle forze armate siriane delle organizzazioni civili e militari del nord-est della Siria, ossia del Rojava, oltre all’integrazione nello Stato dei valichi di frontiera, degli aeroporti e dei giacimenti di petrolio e gas; la lotta congiunta contro i gruppi legati al regime di Assad.

Questi ultimi due punti sono di particolare rilevanza. Con le immagini terrificanti che corrono sui social delle violenze senza freni delle milizie Hts nei confronti degli alawiti, sostenitori di Assad, è importante che le Sdf facciano prevalere l’approccio non vendicativo, sostenendo la necessità di un esercito teso alla sola difesa, come il confederalismo democratico insegna. A maggior ragione adesso che inizierà il loro processo di integrazione all’interno del corpo militare nazionale.

PROBLEMI E AMBIGUITÀ CHE RESTANO

Nell’accordo manca però ogni riferimento a cosa accadrà della Daanes, che con i suoi giacimenti di petrolio e gas, la cui amministrazione e redistribuzione delle risorse fiscali sarà oggetto di successive intese, fa gola al governo centrale.

Secondo il paradigma del confederalismo democratico l’Autonomia per sostenersi deve avere delle forze di autodifesa, che nel Rojava sono rappresentate proprio dalle Sdf. Cosa succederà una volta che le Sdf diventeranno parte del corpo militare nazionale? Ma soprattutto, cosa si sono detti al-Shaara e Abdi rispetto al destino della Daanes, avendo due posizioni così radicalmente diverse sull’idea di Stato?

Non bisogna dimenticarsi che nella conferenza convocata dal presidente siriano per confrontarsi con politici e società civile sul futuro della Siria, tenutasi il 25 febbraio scorso, né la Daanes né le Sdf sono state invitate e in due dei punti scritti sul documento finale è stato detto chiaramente che nella nuova Siria non c’è lo spazio per organizzazioni militari fuori dall’alveo statale e neppure per regioni autonome.

Come riuscirà o potrà convivere il confederalismo democratico, che è già una pratica reale nel Rojava, con la Siria degli jihadisti dell’Hts è difficile da vedere con nitidezza oggi.

È una partita molto tattica quella che si gioca, certamente costretta dagli eventi politici e militari in rapido mutamento che il Medio Oriente sta vivendo. La regione siriana è ancora una volta dentro fino al collo in questo turbine di violenza, speranze e timori per il futuro.

Nella foto Mazlum Ebdî, comandante in capo delle Forze siriane democratiche. Immagine di Zana Omer – VOAIsis

 

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il nuovo podcast che racconta la lotta delle donne afghane

pressenza.com 14 marzo 2025

“Vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore”

14 Marzo 2025 – Large Movements lancia su Spotify “Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il podcast che vuole riaccendere i riflettori su un paese in guerra per decenni, poi magicamente dimenticato dalla tragica data del 15 agosto 2021.

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan” è un viaggio tra le vicende storiche e il dramma umano che il conflitto afghano porta con sè. Attraverso 6 puntate, in uscita ogni sabato dall’8 marzo al 12 aprile, racconta la storia dell’avvento dei Talebani, dalle origini del gruppo, risalenti a più di 40 anni fa, fino alla situazione attuale in cui è costretta a vivere la popolazione, quella rimasta in Afghanistan e coloro che sono riusciti a essere evacuati.

“Con questo podcast vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore per il loro Paese. Vogliamo raccontare la storia delle donne afghane e delle numerose violazioni dei diritti umani che subiscono” dichiara Rainer Maria Baratti, Vicepresidente di Large Movements.

Il secondo episodio, intitolato “Strade interrotte verso l’equità di genere”, uscirà il 15 marzo e si concentrerà sulla condizione delle donne afghane dopo la presa di potere dei Talebani il 15 agosto 2021. Attraverso testimonianze dirette, il podcast mette in luce la repressione e le difficoltà quotidiane delle donne nel Paese, esplorando anche il ruolo delle organizzazioni internazionali impegnate a sostenere i loro diritti.

Nei successivi episodi, il podcast andrà ad esplorare anche il ruolo della comunità internazionale nella gestione delle varie fasi diplomatiche attraversate dal Paese nonché le motivazioni e gli interessi geopolitici che contribuiscono tuttora a rendere la situazione in Afghanistan di difficile soluzione.

Il podcast, scritto da Martina Bossi, Laura Sacher, Sara Massimi e Rainer Maria Baratti, con il contributo di Mattia Ignazzi, è frutto di un attento lavoro di ricerca e di raccolta di testimonianze. Alla produzione hanno collaborato Nove Caring Humans, mentre la registrazione e la post-produzione sono a cura di William Frezzotti.

L’obiettivo del progetto è offrire un racconto approfondito e umano di un Paese segnato dalla guerra, dando voce a chi vive ogni giorno le sue conseguenze. La serie si compone di sei episodi, in uscita ogni sabato fino al 12 aprile 2025.

Dove ascoltarlo: https://open.spotify.com/show/7slKxrlnBgLIx1zgYcvOfe?si=a217e89b6ce244ce

Sostieni il progetto: Un Paese in guerra è una produzione indipendente. È possibile supportare il lavoro di Large Movements APS partecipando al crowdfunding su www.largemovements.it/sostienici.

Large Movements APS è un’associazione che vuole decostruire le fake news sulla migrazione e promuovere la partecipazione di migranti e rifugiati nei dibattiti politici e nei progetti che li coinvolgono direttamente. Tutto questo tramite la divulgazione, la sensibilizzazione e la progettazione. L’obiettivo principale dell’associazione è informare e sensibilizzare l’opinione pubblica per promuovere, influenzare e/o modificare le politiche pubbliche stimolando la partecipazione attiva sia della società che delle comunità di migranti, rifugiati e della diaspora.

 

 

 

Bologna dà la cittadinanza onoraria al leader curdo Ocalan

ansa.it 14 marzo 2025

La proposta è partita da Coalizione Civica

BOLOGNA, 14 MAR – Presto lo storico leader curdo, Abdullah Ocalan, diventerà cittadino onorario di Bologna.
Lunedì in consiglio comunale verrà votata, infatti, la proposta di conferire al fondatore del partito dei lavoratori Pkk, detenuto da oltre 20 anni nell’isola prigione di Imrali in Turchia da 22 anni, l’importante riconoscimento.

Primo firmatario e proponente dell’iniziativa, sottoscritta da una ventina di consiglieri comunali di maggioranza, è il capogruppo di Coalizione Civica, Detjon Begaj che ha illustrato al proposta in Comune, insieme ad altri esponenti della maggioranza e al Ali Ekber Sultan, di Uiki Onlus, l’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia.
“Il Comune di Bologna sta facendo una cosa importante – conferma Begaj – Abbiamo deciso di conferire la cittadinanza onoraria ad Ocalan prima del suo appello al Pkk alla pace, che ha rafforzato la nostra convinzione. Non solo rappresenta la resistenza del popolo curdo, ma è ispiratore di esperimento straordinario di democrazia, ecologia e femminismo come quello del Rojava”.
Il movimento di Begaj e della vicesindaca Emily Clancy punta non solo alla “liberazione di Ocalan e al riconoscimento dell’esperienza del Rojava, ma a inviare un segnale di pace”.
Anche la vicesindaca Clancy, al lavoro per l’emergenza maltempo, ha ricordato con un messaggio come “con questo gesto simbolico, Bologna ribadisca il proprio impegno per i diritti e la libertà dei popoli”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche la delegata del Comune per i diritti umani, Rita Monticelli, che ribadisce come per “Bologna essere solidali sia una questione politica. Insieme a tutti gli esponenti della maggioranza – spiega Monticelli – abbiamo pensato che fosse necessario far sentire la nostra voce.
Vogliamo schieraci contro la lesione dei diritti umani di Ocalan, che è in carcere in isolamento totale da tantissimo tempo e riconoscere l’importanza della fondazione del Pkk.
Sappiamo che ci sono stati alcuni passaggi considerati contraddittori, ma sappiamo anche che recentemente Ocalan ha chiesto al Pkk di fare un percorso di pace e di sostegno democratico, deponendo le armi in tutti i sensi”.

Il governo siriano ha detto di aver raggiunto un accordo con i principali gruppi curdi

ilpost.it 10 marzo 2025

Prevede che vengano integrati nelle istituzioni politiche e militari siriane: le informazioni certe però sono ancora poche

I principali gruppi della comunità curda sono riuniti nelle Forze democratiche siriane (SDF), un’organizzazione militare e politica che include varie milizie come l’YPG, Unità di protezione popolare, la più famosa milizia curda, e altri gruppi locali. Da sei anni amministrano autonomamente circa un terzo del territorio siriano, nel nord-est del paese, dopo aver sconfitto in quell’area lo Stato Islamico con il sostegno degli Stati Uniti.

Le informazioni certe sul contenuto dell’accordo sono ancora poche e le Forze democratiche siriane non l’hanno ancora commentato pubblicamente. Le uniche disponibili sono contenute in un comunicato della presidenza siriana pubblicato dall’agenzia di stampa statale siriana SANA, in cui si legge che l’accordo integrerebbe «tutte le istituzioni civili e militari nel nord-est della Siria nell’amministrazione dello stato siriano, compresi i varchi di frontiera, gli aeroporti e i giacimenti di petrolio e gas». Non è ancora chiaro però quale sarebbe l’esatto status del territorio oggi controllato dalle SDF.

L’accordo inoltre riconoscerebbe la comunità curda come «parte integrante dello stato siriano, che le garantisce i diritti di cittadinanza e costituzionali». La nuova Costituzione siriana deve essere ancora redatta, ma per decenni il regime di Bashar al Assad ha negato ai curdi moltissimi diritti, fra cui l’insegnamento e l’uso della loro lingua e qualsiasi forma di autonomia amministrativa.

Le Forze democratiche siriane erano il più importante fra i gruppi siriani che ancora non si erano aggiunti ufficialmente alle trattative sulla transizione politica del paese. Lo scorso dicembre non avevano preso parte all’accordo di sciogliersi e confluire in un unico esercito insieme agli altri gruppi armati che avevano contribuito a rovesciare il regime di Assad. Poche settimane fa, a fine febbraio, non avevano partecipato all’incontro organizzato dal governo ad interim nell’ex palazzo di Assad per ascoltare le varie raccomandazioni sulla direzione che dovrebbe prendere il paese.

A dicembre i curdi siriani avevano approfittato della ritirata dell’esercito di Assad durante la fine del regime per conquistare nuovi territori, ma erano stati parallelamente attaccati con una campagna di bombardamenti dalla Turchia, che li considera un pericolo per la propria sicurezza nazionale, e dall’Esercito nazionale siriano, una milizia controllata dal governo turco.

 

 

Il tragico destino delle donne afgane in un documentario di straziante bellezza

ilsole24ore.com  Lara Ricci 12 marzo 2025

«Abbiamo tutti perduto l’Afghanistan» afferma la giornalista e regista Najiba Noori mentre sullo schermo scorrono le immagini del suo aereo che atterra a Parigi, all’indomani della caduta di Kabul, il 15 agosto 2021.

Due anni prima aveva iniziato a filmare sua madre, Hawa. Sposata a 13 a un uomo di 30 anni più vecchio di lei con cui aveva avuto due figlie e quattro figli, dopo essere riuscita a far studiare Najiba, aveva deciso di imparare a leggere e scrivere e avviare un commercio di vestiti ricamati. Rifiutava di passare tutte le sue giornate in casa, ancora giovane, ad accudire il marito con la demenza senile. Najiba l’aveva filmata mentre andava al bazar a comprare libri della scuola elementare per esercitarsi e mentre si recava nella regione di origine della sua famiglia, di etnia hazāra, nella zona di Bamiyan (dove si trovavano le tre gigantesche statue di Buddha distrutte dai talebani nel 2001) per trovare delle ricamatrici.

Il progetto di Najiba si è interrotto bruscamente: ha avuto poche ore per decidere se lasciare l’Afghanistan o restare. Non è nemmeno riuscita a salutare Hawa, e ha potuto portare con sé solo una valigia di 10 kg, in cui ha stipato gli hard disk con le registrazioni su sua madre. Il fratello nei mesi successivi ha però continuato a filmarla, inviandole le immagini tramite colleghi giornalisti che venivano inviati a Kabul a coprire lo sprofondare del Paese nella dittatura dei fondamentalisti islamici. Così è riuscita a realizzare Writing Hawa, un documentario di grande delicatezza e struggente bellezza, presentato al Fifdh di Ginevra, il Festival dei film e forum sui diritti umani, che l’ha accolto con un lunghissimo applauso.

Un lungometraggio che riesce a penetrare nell’esistenza di Hawa con naturalezza, tanto che proprio davanti alla telecamera rivela alla figlia di essere stata innamorata, almeno una volta nella vita (di un cugino del padre). Un’opera completamente priva di quella retorica sull’emancipazione femminile cui siamo abituati.

«Con questo film entriamo nell’intimità di una donna, ed è la storia di tutte le donne afgane, oltre che un importante documento storico su come abbiamo ancora una volta perso il nostro Paese e le nostre speranze» ha affermato, nella tavola rotonda che ha seguito la proiezione, Hamida Aman, fondatrice di Radio Begum e Begum accademy, un’attivista afgana che pochi mesi prima della caduta di Kabul aveva dato vita a un’emittente per far arrivare l’istruzione alle donne tramite la radio e la tv satellitare. Da lì a poco i Talebani avrebbero vietato a tutte le bambine di più di 12 anni di andare a scuola.

«Dopo il 15 agosto 2021 nessuna radio libera trasmetteva più. In quel momento ero in Francia e mi sono chiesta cosa fare. Avevo messo tutti i dipendenti sulle liste di evacuazione, ma siccome non sono stati evacuati siamo andati avanti. Abbiamo 18 antenne e riusciamo a coprire 20 province su 34. Avevamo già iniziato a portare la scuola in casa quando c’era stato il Covid, e per via dell’insicurezza crescente – non sono tre anni che i bambini non vanno a scuola, sono cinque! E le lezioni che facciamo noi non sostituiranno mai quelle fatte in classe» afferma Aman. «È molto importante che le università del mondo diano borse di studio alle ragazze afgane perché possano seguire i corsi online, molte non lo potranno comunque fare, ma almeno avranno la speranza di poterlo fare – aggiunge -. Stiamo offrendo anche sostegno psicologico alle donne via radio. Ci chiamano da ogni regione, riceviamo 20 chiamate all’ora. Le donne sono veramente perdute. I talebani usano l’islam per dire loro che non sono nulla».

«Istruirsi non era facile neanche prima. Non è mai stato facile avere un’educazione. C’erano poche scuole, pochi insegnanti, bisognava lottare in famiglia per dimostrare che ce lo meritavano, poi lottare per dimostrare che ci meritavamo il lavoro. Dobbiamo combattere per tutto, niente ci è dato» ha aggiunto Fereshta Abbasi, che lavora per Human rights watch occupandosi proprio del suo Paese di origine. Non un lavoro facile al momente capire cosa sta accadendo a Kabul: chi parla con loro viene torturato o fatto sparire, e anche i familiari sono minacciati.

Noori, nei due anni di riprese prima della caduta di Kabul aveva anche filmato lo straziante ritorno di sua nipote Zahara. Ormai tredicenne, dopo che il padre l’aveva cacciata di casa, era ricomparsa a casa della madre. Non la vedeva da quando aveva due anni, perché questa aveva dovuto lasciarla quando aveva divorziato dal padre, cui sono affidati i figli in questi casi. Senza sapere che stesse arrivando, quando l’ha vista sulla porta, sua madre ha capito subito che quella ragazza era sua figlia.

Zahara viene poi affidata alla nonna: il nuovo marito della madre aveva paura che l’ex marito potesse vendicarsi sui suoi figli, o che creasse loro problemi legali, non avendo loro nessun diritto di ospitarla, e non avendo lei neppure i documenti. Subito Hawa l’aveva fatta studiare, insieme si esercitavano a scrivere. Noori ritrae tutti questi avvenimenti in presa diretta, mentre la tv nella stanza enumera le province che giorno dopo giorno cadono nelle mani del talebani e la preoccupazione crescente della sua famiglia. Quando i talebani sono alle porte, Zahara è in pericolo, si sa che i fondamentalisti nelle città rastrellano le case per trovare bambine che abbiano più di 12 anni e portarle via. Sono perciò costretti a rimandarla dal padre, che sta nelle campagne, dove questo non accade. Le danno un telefono, ma risulta subito spento. In esilio Noori apprende che Zahara è stata costretta dal padre a sposarsi.

Dopo che il fratello di Hawa viene picchiato per avere girato delle immagini, la famiglia decide di partire, e dopo un anno e mezzo in Iran riesce a raggiungere Najiba in Francia. Ma non c’è lieto fine nel film. «Non l’ho voluto, perché non ho nessuna speranza che le cose possano migliorare. L’unica speranza sono le donne dell’Afganistan. Ma il mio è l’unico Paese al mondo dove gli è impedito di potersi istruire!» afferma Noori.

Conferenza dell’11-12 aprile a Roma Campagna Libertà per Öcalan, Soluzione politica alla questione curda

http://uikionlus.org 12marzo 2025

A tutte le reti di solidarietà, comitati e sostenitori della Campagna Libertà per Öcalan, Soluzione politica alla questione curda

Oggetto: Conferenza dell’11-12 aprile a Roma (Centro Congressi Frentani)

Cari e care,

Negli ultimi anni, insieme abbiamo compiuto passi importanti nella costruzione di reti internazionali di solidarietà in tutta Europa e oltre, organizzando azioni, scrivendo lettere alle istituzioni chiave e portando davvero questo tema alla ribalta della politica internazionale e dell’opinione pubblica. Grazie a tutti i vostri sforzi, siamo riusciti in parte a raggiungere i nostri obiettivi. Dal 23 dicembre, ci sono stati diversi incontri con Abdullah Öcalan, nei quali egli ha sottolineato la soluzione della questione curda. Ora, per raggiungere tutti i nostri obiettivi, è necessario lavorare di più insieme.

Dal suo inizio nell’ottobre 2023, la campagna è riuscita a riunire sindacati, movimenti sociali, avvocati, giuristi, partiti politici, funzionari eletti, artisti, intellettuali, attivisti, premi Nobel e milioni di curdi, costruendo reti di solidarietà a livello locale e internazionale. In questo modo, ha cercato di rompere l’isolamento di Ocalan e di rendere possibile una soluzione politica giusta e democratica alla secolare questione curda in Turchia, consentendo la sua partecipazione a un nuovo dialogo.

Grazie al nostro sforzo collettivo nell’ultimo anno, siamo riusciti a fare pressione sullo Stato turco e sulle istituzioni internazionali, creando le condizioni per ricominciare gli incontri con Öcalan. Tuttavia, come ha dichiarato Öcalan nel primo incontro tenutosi in autunno con i rappresentanti del partito DEM, il suo isolamento continua. Ciò che è diventato ancora più evidente è il ruolo cruciale di Öcalan nel trovare una soluzione politica alla secolare questione curda. Poiché la questione curda rimane la questione politica contemporanea più centrale del Medio Oriente, la sua risoluzione pacifica è quindi cruciale per la pace e la stabilità dell’intera regione. Inoltre, fornendo un approccio paradigmatico a molte delle crisi sociali e politiche più pressanti di oggi, le soluzioni di Öcalan servono come tabella di marcia per la stabilità e la coesistenza in Medio Oriente.

Nonostante le enormi difficoltà, affidandosi al paradigma del Confederalismo Democratico ideato da Öcalan, il popolo del Rojava ha dimostrato una straordinaria capacità di costruire una società inclusiva basata su principi di democrazia, uguaglianza di genere e giustizia sociale. Con la caduta del regime di Assad, questa esperienza potrebbe essere un modello positivo per la nuova Siria, ma è in pericolo, minacciata dalle politiche oppressive del regime turco e dai continui attacchi dei suoi mercenari.

Vi invitiamo a partecipare a questa conferenza di due giorni per sviluppare un piano comune per la prossima fase della campagna per la libertà di Öcalan. Nell’ambito della conferenza, ogni rete avrà la possibilità di condividere il proprio punto di vista e le proprie riflessioni sulla campagna, nonché le proposte per il futuro.

Ci auguriamo di vedervi alla conferenza,

A nome del network e dell’Iniziativa Nobel,
Prof. Kariane Westrheim

PS: Vi preghiamo di registrarvi tramite:info.kurdishnetwork@gmail.com

Contatti:Tiziano Saccucci cell:3762517272

Presidio. Le donne afghane: «No all’apartheid di genere, sia riconosciuto come crimine»

 avvenire.it Elisa Campisi 7 marzo 2025

Sono studentesse o rifugiate afghane, molte delle quali sono fuggite dal proprio Paese nell’agosto 2021 e adesso si stanno rifacendo una vita in Italia anche grazie all’aiuto della Fondazione Pangea. Sono scese in piazza a Roma, nell’ambito di una mobilitazione che sta toccando diversi Paesi in vista della Giornata internazionale delle donne. «Solidarietà per le donne afghane», gridano in più lingue. In alto i cartelli, anche questi in afghano, inglese e italiano. Chiedono il riconoscimento dell’apartheid delle donne come crimine contro l’umanità da parte dell’Unione europea e delle Nazioni unite. Perché, come riporta uno dei tanti cartelli al presidio, “il silenzio alimenta la crudeltà”.

Proprio loro che in qualche modo ce l’hanno fatta, avvertono il forte senso di responsabilità verso le altre e ora chiedono diritti per tutte le donne al mondo e specialmente per quelle rimaste nel loro Paese di origine. «In Afghanistan le donne non possono studiare, lavorare o uscire liberamente di casa», spiega Muzhda che oggi è qui grazie alla Fondazione, ma ricorda bene la fuga in aeroporto in quelle tragiche ore che sono passate alla storia come “la caduta di Kabul”. Dall’Italia, insieme a tutte le donne scese in piazza, «chiedo il riconoscimento della discriminazione subita come crimine contro l’umanità» perché anche in Afghanistan, come nel resto del mondo, «ognuno ha un sogno per la sua vita, ognuno ha i suoi diritti» e bisogna restituire una voce a chi ne è privato. Anche Nooria è riuscita a scappare nell’agosto 2021 grazie a Pangea, ma nonostante la paura di quei momenti allora «non riuscivo ancora a immaginare cosa sarebbe successo dopo».

«Sono passati 30 anni dalla Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle donne di Pechino, ma le richieste di allora sono ancora attuali», ricorda Simona Lanzoni, vicepresidente della Fondazione Pangea. «Tutto il mondo resta inerte davanti alla disumanizzazione delle donne che si sta compiendo in Afghanistan, una delle più vergognose negazioni dei diritti fondamentali e delle libertà delle donne, da quello alla formazione a quello semplicemente di cantare, per esempio», ribadisce Lanzoni.

Il presidio a Roma e quelli in contemporanea in più città sono solo una tappa in un percorso più ampio di iniziative per la rivendicazione dei diritti e della libertà di tutte. La vicepresidente serve un lavoro trasversale per la prevenzione della violenza e il rafforzamento del sistema di protezione internazionale, sia nei Paesi in pace che in quelli in conflitto, sia nei processi migratori che in quelli di integrazione negli Stati di arrivo. È in quest’ottica che Pangea sarà tra le tante realtà che parteciperanno alla sessantanovesima sessione della Commissione sulla condizione delle donne che si terrà presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 10 al 21 marzo 2025. «In quest’occasione chiederemo in particolare l’applicazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea che il 4 ottobre 2024, con una decisione storica, ha affermato che le restrizioni imposte dai talebani alle donne afghane si qualificano come “atti di persecuzione” sufficienti per ottenere automaticamente lo status di rifugiato ai sensi della Direttiva 2011/95/UE che stabilisce i parametri per la concessione della protezione internazionale nell’Ue», specifica Lanzoni. Un altro focus importante dell’appuntamento all’Onu saranno i matrimoni precoci che riguardano non solo l’Afghanistan o i contesti socio-economici più svantaggiati: «Nonostante decenni di battaglie da parte delle attiviste femministe, questo fenomeno continua impunemente e la strategia per porre fine all’impunità è fondamentale per smantellare il patriarcato e garantire che le donne siano al sicuro da qualsiasi forma di violenza». Tuttavia, se non si riesce a fare squadra non ci sarà mai il superamento di questi ostacoli, mette in guardia Lanzoni, che conclude: «”Ripartire da Sé” è il claim di Pangea, senza dimenticare nessuna e nessuno. Dobbiamo costruire una nuova stagione di diritti, proprio quella che tarda ad arrivare».

 

 

 

 

Le donne afghane fuggite dai talebani per studiare all’estero rischiano il ritorno imminente dopo i tagli all’USAID

bbc.com Yogita Limaye* 8 marzo 2025

 

«La casa per noi è come una tomba». L’Afghanistan tre anni e mezzo dopo

Il Manifesto, 8 marzo 2025, di Sara Segantin, Lorenzo Tecleme

Il racconto da Kabul «Ogni giorno ci impongono nuove leggi. Non possiamo uscire senza un parente maschio. Non possiamo lavorare. Se qualcuna protesta, viene arrestata o sparisce»

Sono passati tre anni e mezzo da quando l’esercito talebano è entrato a Kabul, ponendo fine al debole governo filo-occidentale di Ashraf Ghani e instaurando un regime di repressione e violenza che ha privato le donne dei diritti fondamentali alla libertà, all’istruzione e, spesso, anche alla vita e alla dignità.

«PRIMA DELL’ARRIVO  dei Talebani non eravamo al sicuro, era pericoloso c’erano attentati, ma almeno potevamo rivendicare i nostri diritti. Io studiavo perché volevo diventare medica. Poi non c’è stato più niente». Asmira – nome di fantasia per motivi di sicurezza – parla da Kabul. «I Talebani dicono che ‘la casa è il posto per una donna’, ma la casa è una tomba. Sono viva, ma non vivo. Ogni giorno ci impongono nuove leggi. Non possiamo uscire senza un mahram – un parente maschio. Non possiamo lavorare. Anche andare al parco è vietato. Se qualcuna protesta, viene arrestata o sparisce. Una mia amica è stata frustata perché il suo velo si era leggermente spostato mentre camminava. Io sono fortunata, la mia famiglia è ancora qui. Le donne i cui uomini sono morti o sono dovuti fuggire, come fanno? Non possono neanche fare la spesa».

I talebani controllavano ampie zone dell’Afghanistan da ben prima della presa di Kabul. Ma con la ritirata definitiva delle truppe occidentali – decisa da Donald Trump e attuata da Joe Biden – nel 2021 le grandi città sono cadute e l’esercito regolare afghano si è arreso, a una velocità che nessun analista aveva previsto. L’ex presidente Ghani è fuggito e l’Emirato Islamico dell’Afghanistan è tornato in vita.

FRA I TANTI GIOVANI che si sono battuti per la libertà dell’Afghanistan c’è Shaheen Hussian Zada, poco più di vent’anni, uno dei pochi riusciti a fuggire. «Ho sempre odiato la guerra eppure sono stato costretto a crescere in guerra. Sono l’opposto di coloro che hanno portato via la gioia e i sogni di milioni di famiglie», ci racconta. «La mia scelta l’ho fatta quando ho sacrificato tutto per difendere la mia città: o libero o morto. Per la libertà di tutti e di tutte mi batterò sempre. Ero molto giovane quando ho scelto di combattere per resistere, avevo paura, ma non volevo che i Talebani portassero via tutto. Uccidono, torturano, stuprano. Io c’ero quando nel 2021 hanno preso Herat e poi una dopo l’altra le province sono cadute. Il 15 agosto sono entrati a Kabul. Io e la mia famiglia vivevamo lì. Mi ricordo il terrore. Ho lasciato la capitale alle 13.00, circa due ore prima che arrivassero. Sono andato nel Panshir, dove ancora si resisteva. Abbiamo tenuto duro un paio di settimane, ma il mondo se n’era andato e i Talebani disponevano di armi leggere e pesanti, mentre noi avevamo poche attrezzature e poca esperienza: non eravamo soldati, eravamo solo ragazzi che volevano difendere la libertà».

SHAHEEN rappresenta un pezzo di società afghana – urbana, istruita – che da sempre guarda con ostilità all’iper-conservatorismo islamico, ma che non è riuscita ad essere un contraltare sufficiente ai Talebani. «È chiaro che se uccidi tutti quelli che la pensano diversamente e chiudi in casa metà della società magari hai meno “instabilità” e le persone forse si sentono più sicure. Ma qual è il prezzo?». «Oltre a essere ingiusto non ha senso! – gli fa eco Asmira – come fa una società a stare in piedi senza metà del suo popolo? Se queste restrizioni continueranno, il Paese dovrà affrontare problemi economici, sociali e politici sempre più gravi».

LE CANCELLERIE europee non paiono particolarmente turbate. Tra il 2018 e il 2020 circa la metà delle richieste di asilo presentate da afghani sono state respinte, il governo di Ghani prima di cadere era stato finanziato dall’Ue perché trattenesse i migranti e a poco tempo dal ritorno dei Talebani diversi Paesi – Germania, Belgio – hanno dichiarato l’Afghanistan «posto sicuro» per il rimpatrio dei migranti. «Chi è rimasto, chi è riuscito a fuggire, non è un numero in un telegiornale. Siamo persone con speranze, sofferenze, sogni. Abbiamo un’identità e una storia: vogliamo imparare, ma anche raccontare e dirvi di non dimenticare», dice Shaheen. «L’Afghanistan quello lontano e quello poco oltre le vostre porte di casa, non vuole pietà né compassione, chiede rispetto e giustizia nella sua lotta per la libertà. Sono solo un ragazzo e non ho risposte, ma ho visto cose che non volevo vedere e non voglio più che esistano. Ho visto anche la forza e il coraggio. Nelle donne afgane, che resistono a una condizione che nessuno di noi qui può immaginare. In chi in Europa non si arrende all’odio. Possiamo essere forti e liberi solo insieme, donne e uomini da ogni paese, oltre gli stereotipi e i pregiudizi per costruire un mondo in cui l’umanità sia più forte delle frontiere».

«PERCHÉ questo silenzio?», si chiede Asmira. «Le ragazze afgane non interessano a nessuno? Noi stiamo resistendo. Ma siamo sole. Più c’è libertà più c’è responsabilità. Chiedo a voi, popoli d’Europa, di unirvi alla voce del popolo afgano e di lottare contro le ingiustizie».