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Autore: CisdaETS

Le forze talebane usano scosse elettriche sulle donne afghane sopra i vestiti

Rukhshana Media, 12 luglio 2025

Secondo quanto riportato da Rukhshana Media, le forze talebane stanno somministrando scosse elettriche alle donne per aver violato un obbligo così restrittivo sull’uso dell’hijab che impone loro persino di coprirsi il volto in pubblico.

Vittime e testimoni oculari hanno descritto donne rese incoscienti da scosse elettriche mentre resistevano ai tentativi della famigerata polizia morale afghana di arrestarle per il loro abbigliamento. Altri hanno riferito che i dispositivi erano ampiamente utilizzati nelle carceri femminili.

L’organizzazione per i diritti umani Amnesty International ha chiesto il divieto globale dei dispositivi che erogano scosse elettriche a contatto diretto, definendoli “intrinsecamente abusivi” e affermando che possono causare lesioni gravi e persino la morte. Gli standard internazionali per le forze dell’ordine stabiliscono che le scosse elettriche dovrebbero essere utilizzate solo come ultima risorsa e per autodifesa.

Nafisa*, 20 anni, stava comprando delle sciarpe invernali con sua sorella a Kabul lo scorso ottobre, quando le due sono state aggredite da quattro agenti della polizia morale talebana in uniforme. Uno di loro le ha chiesto perché non fosse vestita come sua sorella, che indossava un completo nero dalla testa ai piedi e una mascherina sul viso, poi le ha ordinato di salire in macchina. Terrorizzata, ha stretto forte la mano della sorella e ha cercato di resistere mentre una donna che lavorava con la polizia la trascinava via.

“Quando ho opposto resistenza, mi hanno dato la scossa elettrica. Dopo, non ricordo più nulla”, ricorda Nafisa, che è stata trattenuta per la notte in una cella di polizia fredda e buia con altre otto donne e tre ragazze.

Una giovane donna è stata picchiata e arrestata per essere vestita in modo inappropriato, nonostante indossasse abiti lunghi fino al ginocchio, un hijab inappropriato, un’altra per aver avuto contatti con un uomo con cui non aveva alcun legame di parentela. Altre sono state arrestate per aver mendicato per strada.

La sorella maggiore di Nafisa, Zohal*, 24 anni, balbetta nervosamente ricordando quel giorno. “Nafisa è caduta a terra davanti ai miei occhi e i talebani l’hanno trattata come un cadavere, l’hanno gettata in macchina e se ne sono andati”, racconta. “È stato il momento peggiore della mia vita e quei secondi mi sono sembrati ore. Ho continuato a chiedere aiuto alla gente, ma se ne sono andati. Nessuno ha osato dire una parola ai talebani”.

Entrambe le donne hanno dichiarato di essere rimaste traumatizzate dall’accaduto e hanno successivamente assunto antidepressivi per diversi mesi.

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Meno di un anno dopo il loro ritorno al potere nel 2021, i talebani hanno introdotto nuove e severe regole che impongono alle donne di coprirsi completamente indossando un burqa o un hijab completo con una mascherina per il viso e di non uscire se non in caso di assoluta necessità.

L’applicazione della legge è stata rigorosa e ha incluso arresti di massa, inizialmente in un’area della parte occidentale di Kabul, dominata dalla popolazione di etnia hazara, e poi in altre parti del paese, secondo una ricerca delle Nazioni Unite . Alcune donne sono state rilasciate dopo poche ore, ma altre sono rimaste in custodia per giorni o addirittura settimane, ha scoperto. Il loro rilascio è stato spesso subordinato alla promessa da parte dei parenti maschi di vigilare sul loro abbigliamento in futuro.

Una fonte che ha parlato con Rukhshana in condizione di anonimato ha ricordato di aver sentito le urla di una donna a un posto di blocco talebano in una zona centrale di Kabul. Si è precipitato verso la folla che si era radunata e ha visto una donna alle prese con la polizia morale, che stava cercando di trascinarla dentro un veicolo. Diversi uomini tra la folla hanno cercato di intervenire e liberare la donna, ma è stato intimato loro di non interferire con il lavoro del Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, che controlla gli sforzi dei talebani per imporre la legge islamica in Afghanistan, ha riferito la fonte. Poi, uno degli agenti ha estratto un dispositivo dalla tasca e lo ha puntato al collo della donna, infliggendole scosse elettriche più volte fino a farla perdere conoscenza e cadere a terra. Quattro agenti di polizia l’hanno afferrata per braccia e gambe e hanno trascinato il suo corpo senza vita dentro il veicolo, ha ricordato.

Un altro testimone oculare ha descritto un incidente avvenuto nei pressi di un centro commerciale di Kabul, dove gli ufficiali talebani hanno utilizzato scosse elettriche per fermare una giovane donna che si rifiutava di salire sul loro veicolo.

“Resisteva molto, diceva ‘Non ci vado'”, ha detto il testimone. “Alla fine, le hanno dato una scossa elettrica. La poveretta è crollata a terra e l’hanno spinta violentemente dentro il veicolo. La polizia morale è terrificante.”

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Quasi tutte le donne e le ragazze che hanno avuto incontri con militari o agenti di polizia talebani affermano di aver subito violenze di qualche tipo. La nuova legge, ampiamente criticata, sulla Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio conferisce agli agenti ampia autorità di affrontare le donne in merito al loro abbigliamento e di infliggere punizioni immediate. Anche prima della sua introduzione, gli agenti talebani utilizzavano dispositivi per la scossa elettrica contro le donne, in particolare il 16 gennaio 2022, quando furono impiegati per disperdere una protesta pacifica di piazza .

Wahida Amiri, ex detenuta e attivista per i diritti delle donne di 33 anni, ha descritto l’incidente in un’intervista rilasciata a Rukhshana Media dopo l’accaduto.

“Le loro forze armate ci hanno circondato in uno spazio aperto e ci hanno fatto prigioniere”, ha detto. “Il trattamento riservato dai talebani alle manifestanti in strada è stato terrificante e orribile. Hanno usato gas lacrimogeni, sparato colpi in aria e usato scosse elettriche contro le donne”.

Sebbene l’uso di scosse elettriche contro manifestanti disarmati costituisca una chiara e grave violazione dei diritti umani, sembra che per gli ufficiali talebani l’utilizzo di tali dispositivi sia diventato una prassi routinaria. Non sembra esistere un protocollo formale o un sistema di responsabilità per il loro utilizzo, né alcuna supervisione per prevenirne gli abusi.

Rukhshana Media ha anche documentato casi di donne sottoposte a scosse elettriche in carcere. Nel 2022, Zarifa Yaqubi ha trascorso 41 giorni sotto la custodia delle forze talebane, che, a suo dire, l’hanno torturata per costringerla a confessare con l’uso di scosse elettriche e percosse con cavi.

Parwana Ibrahimkhil Najrabi, un’altra ex prigioniera talebana che ha trascorso almeno un mese in isolamento, ha affermato che il gruppo ha utilizzato scosse elettriche durante il suo arresto.

Per Nafisa, il danno è duraturo. Ricorda ancora la cella e si preoccupa per le altre donne con cui l’ha condivisa.

“Non so come andare avanti”, ha detto. “Credo di portarmi dietro la prigione talebana ovunque. Le scosse elettriche, la stanza fredda e buia, le molteplici accuse e le donne il cui destino è sconosciuto.”

Nota*: i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

* Pubblicato in collaborazione con More to Her Story.

[Trad. automatica]

La Palla della Speranza: un inizio, non una fine

8AM.MEDIA, 12 luglio 2025, di Salonia Salahshoor 

Un modo delle donne per resistere [n.d.r.]

Il sole era impietoso, ci bruciava la pelle e ci imponeva la resa. Ma i nostri cuori battevano più forte. Ci spingevano a restare, a continuare a correre. Sussurrando: giocate di più, correte più veloci, ridete più forte. Perché non era solo un gioco, era un atto di resistenza. Ogni secondo trascorso su quel campo era tempo rubato, un frammento di libertà in un mondo che voleva silenzio e immobilità per noi.

Questa era solo la prima partita, una partita in cui non c’era nulla di pronto. Niente scarpe da ginnastica, niente uniformi adeguate, nemmeno un pallone decente. Raccogliemmo una vecchia palla di plastica semisgonfia e corremmo su un campo di cemento, duro e rovente sotto i nostri piedi. Indossavamo abiti lunghi, da tutti i giorni: i nostri chador e sandali economici. Ma a chi importava? Il solo fatto di essere riusciti a riunirci, al riparo da occhi indiscreti, era già una vittoria.

Il nostro gioco sembrava più una corsa caotica che un vero calcio. La palla continuava a sfuggirci di mano e a sbattere contro i muri. A volte, i nostri piedi si impigliavano nei vestiti e cadevamo. Ma ridevamo a crepapelle, dal profondo dell’anima. Era così che giocavamo, non nonostante il caldo, ma proprio per quello. Perché se riuscivamo a sopportare quello, potevamo sopportare qualsiasi cosa. Il sole picchiava dal cielo come se i suoi raggi cocenti stessero schiacciando il terreno screpolato sotto di noi. Anche solo respirare quell’aria secca e rovente era una battaglia. Ma niente di tutto ciò importava. Perché in quel giorno indimenticabile, giocammo a calcio per la prima volta. E non fu solo una partita: fu la prova vivente dello spirito indomito di ragazze che desideravano un campo tutto loro. Un campo che, sebbene lontano anni luce dagli stadi dei nostri sogni, era sacro per noi.

I talebani avevano costruito il loro campo: un mondo di aridità, restrizioni e controllo soffocante. Ma qui? Qui c’era il nostro campo. Un pezzo di terra rubato dove, per qualche ora, abbiamo scritto le nostre regole.

Correvamo con abiti lunghi che ci avvolgevano le gambe, con sandali con i tacchi alti che sprofondavano nel fango a ogni passo. Ridicolo? Forse. Ma la cosa veramente ridicola era l’idea che tessuti e scarpe potessero imprigionare la nostra gioia. Ogni caduta, ogni scoppio di risate che seguiva i nostri inciampi era un duro colpo in faccia a coloro che pensavano di poter dettare come ci muovevamo, come vivevamo. L’aria era densa di calore, ma le nostre risate erano fatte di libertà: la libertà delle ragazze in un paese chiamato Afghanistan. Non erano solo suoni; ogni risata, ogni grido di vittoria mentre la palla roteava in aria era un mattone nel mondo che stavamo costruendo. Un mondo in cui esistevamo con coraggio e senza scuse.

Non avevamo arbitri né tribune. Nessun trofeo ci aspettava. Ma nella nostra mente? Eravamo giganti. Ogni scatto dopo il pallone era una corsa verso qualcosa di più grande di noi. Con ogni passaggio, non stavamo solo giocando: stavamo riscrivendo la storia. Nella nostra immaginazione, quel terreno polveroso diventava uno stadio olimpico, echeggiando delle acclamazioni di migliaia di persone. Il pallone ai nostri piedi non era solo cuoio e aria: era speranza, una promessa e la prova che anche in una gabbia si possono spiegare le ali.

Il tempo non è mai stato dalla nostra parte. L’orologio continuava a ticchettare, le ombre si allungavano. Un silenzioso avvertimento che tutto questo non sarebbe durato. Ma in quegli attimi fugaci, abbiamo costruito l’eternità. La palla che roteava in aria era un simbolo di vita in un mondo che ci voleva insensibili. Questo era più che football; questa era alchimia. Abbiamo preso la polvere, la paura e le regole fragili e le abbiamo trasformate in oro.

Nessuno ha battuto il tempo. Forse abbiamo giocato solo per venti minuti. Prima che qualcuno se ne accorgesse, prima che potesse sorgere qualche problema, prima che la nostra gioia diventasse un pericolo, abbiamo concluso la partita. Ma quei venti minuti sono stati sufficienti. Abbastanza per dimostrarci che, nonostante tutti i limiti, potevamo ancora creare momenti che ci appartenevano. Momenti semplici, eppure traboccanti di significato. Quel giorno non avevamo arbitri, spettatori e un campo vero e proprio. Ma ciò che avevamo era più prezioso di tutto ciò: la voglia di giocare. Anche sul cemento rovente, anche solo per pochi minuti, anche con ogni limite.

A partita finita, abbiamo lasciato il campo senza fiato, ma trasformati. Le nostre braccia erano intrecciate sulle spalle. Potevano prendere palla. Potevano scendere in campo. Ma non avrebbero mai potuto spegnere il fuoco che avevamo acceso nei nostri cuori. Perché la libertà non è un luogo, è un sentimento. E una volta che l’hai assaporata, anche solo per un attimo, la insegui per sempre. Quindi lasciali costruire recinti. Lasciali scrivere leggi. Continueremo a giocare. Continueremo a ridere. Continueremo a sognare stadi che un giorno saranno nostri.

Potete leggere la versione persiana della storia di questa donna afghana qui

[Trad. automatica]

 

CURDI-TURCHIA. Il PKK brucia le armi e attua il suo disarmo: e ora?

Pagine Esteri, 12 luglio 2025

Le fiamme che hanno avvolto i mitra ieri mattina nella valle montuosa di Jasana, nel nord dell’Iraq, hanno illuminato non solo una cerimonia simbolica, ma un momento decisivo per un intero popolo. Davanti agli occhi di funzionari turchi, iracheni e curdi, trenta combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) – metà dei quali donne – hanno dato fuoco al proprio arsenale, suggellando con quel gesto la fine di una lotta armata durata oltre quarant’anni. Con le armi allineate in un grande calderone di metallo, i militanti, in uniformi beige, hanno consegnato simbolicamente un pezzo della propria identità e della loro esistenza.

Al centro della cerimonia Bese Hozat, comandante del PKK, che ha letto ad alta voce – prima in turco, poi in curdo – la dichiarazione con cui il movimento armato nato nel 1978 annunciava la sua trasformazione: «Distruggiamo volontariamente le nostre armi, in vostra presenza, come gesto di buona volontà e determinazione». Alle sue spalle i militanti più giovani, molti dei quali nati quando il conflitto era già in corso, e quelli dei funzionari dei servizi segreti turchi e iracheni, rappresentanti del governo regionale del Kurdistan, esponenti del partito filo-curdo turco DEM. Presenze che fino a pochi anni fa sarebbero state impensabili accanto a dirigenti del PKK.

Il processo di disarmo era stato annunciato pubblicamente già a maggio, dopo un appello di Abdullah Ocalan, storico leader del PKK detenuto dal 1999 nell’isola-prigione turca di Imrali. In un raro videomessaggio diffuso mercoledì scorso, Ocalan è tornato a parlare, invocando la creazione di una commissione parlamentare turca che supervisioni il disarmo e apra la strada a una pace duratura.

Un conflitto lungo quattro decenni
La nascita del PKK, nel 1978, fu la risposta di una generazione curda all’annichilimento delle istanze culturali e politiche nel sud-est della Turchia. La svolta armata arrivò nel 1984, con il primo attacco contro obiettivi militari turchi. Da allora, ondate di repressione, operazioni militari, controinsurrezioni e una diaspora curda sempre più politicizzata hanno accompagnato la storia del movimento. Negli ultimi anni, pressato militarmente, il PKK aveva arretrato oltreconfine, rifugiandosi in zone montuose nel nord dell’Iraq. È da lì che, paradossalmente, ora arriva il segnale più forte di cambiamento.

La portata di quanto accaduto ieri non si ferma al gesto simbolico del rogo delle armi. La fine delle ostilità tra il PKK e Ankara potrebbe incidere direttamente anche in Siria, dove milizie curde alleate del PKK, come le YPG, controllano ampie porzioni del nord-est del Paese. Gli Stati Uniti, che hanno sostenuto tali forze nella lotta all’ISIS, premono da mesi per una loro integrazione nella futura architettura di sicurezza siriana post- Bashar Assad, il presidente caduto a dicembre. Ankara, che ha sempre considerato le YPG un’estensione del PKK, potrebbe ora attenuare le proprie opposizioni.

Un processo fragile
Secondo fonti del governo turco, il disarmo rappresenta una «svolta irreversibile». I prossimi passi, dicono, includeranno la reintegrazione dei membri del PKK nella società turca, un’amnistia selettiva e programmi per la riconciliazione nelle province curde. Un processo che non sarà privo di ostacoli. All’interno del partito di governo e tra i vertici dell’apparato militare e giudiziario, rimane forte l’opposizione a qualsiasi concessione percepita come una “legittimazione” del PKK. Allo stesso tempo, esiste un’aspettativa crescente tra le comunità curde per riforme concrete: il riconoscimento della lingua curda nei programmi scolastici, la decentralizzazione amministrativa, la fine dello stato di emergenza de facto in molte province orientali.

Il partito DEM, che ha svolto un ruolo di mediazione nel processo e che ha ottenuto importanti successi alle recenti elezioni amministrative, ha già presentato una lista di richieste che includono la revisione delle leggi antiterrorismo e l’abolizione dei limiti alla partecipazione politica dei curdi. La loro posizione è chiara: la pace non potrà fondarsi soltanto sulla resa delle armi, ma dovrà costruirsi sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza.

Oltre il disarmo, una questione politica
Il disarmo del PKK segna un passaggio epocale, ma non rappresenta la conclusione della “questione curda” in Turchia. Come sottolineano numerosi osservatori, la vera sfida è politica. E la figura di Ocalan, pur detenuto da oltre venticinque anni, rimane centrale. La sua immagine, ben visibile alla cerimonia di Jasana, ha confermato che il suo ruolo simbolico non è venuto meno. Ma ora serve altro, soprattutto occorre verificare le reali intenzioni di Erdogan che riceve il “regalo” della fine della lotta armata del PKK offrendo in cambio garanzie vaghe su diritti fondamentali che i curdi reclamano da decenni. Uno dei pericoli è che il leader turco, liberatosi della spina nel fianco rappresentata dal PKK, usi il rafforzamento della sua leadership per portare avanti la sua politica ultranazionalista in forma più attenuata verso i curdi in patria e allo stesso tempo continui la linea del pugno di ferro contro gli altri curdi nella regione.

“Ci hanno buttati via come spazzatura”: l’Iran accelera la deportazione di 4 milioni di afghani prima della scadenza

The Guardian, 7 luglio 2025 di Hamasa Haqiqatyar e Rad Radan, da Zan Times

Migliaia di donne sole costrette a tornare affrontano una repressione estrema e l’indigenza a causa delle leggi dei talebani che proibiscono loro di lavorare o viaggiare senza un tutore maschio.

I rifugiati costretti a tornare a vivere sotto il regime sempre più repressivo dei talebani hanno parlato della loro disperazione mentre l’Iran accelera la deportazione di circa 4 milioni di afghani fuggiti nel paese.

Solo nell’ultimo mese, oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, sono tornate in Afghanistan dall’Iran, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni. I numeri sono aumentati prima della scadenza di domenica, fissata dal regime iraniano, per tutti gli afghani senza documenti che devono lasciare il Paese.

I talebani, tornati al potere nel 2021, sono stati accusati di aver imposto un sistema di apartheid di genere in Afghanistan. Le donne che tornano nel Paese devono convivere con leggi oppressive che impediscono loro di mostrare il proprio volto, parlare o apparire in pubblico, oltre a essere escluse dalla maggior parte dei lavori e dell’istruzione. Chiunque venga sorpreso a violare queste regole rischia la fustigazione in pubblico .

Una donna dietro il finestrino di una cabina parla con una donna che indossa un velo in prima fila fuori

Parlando con il Guardian e con l’agenzia di stampa afghana Zan Times , a un valico di frontiera nel sud dell’Afghanistan, Sahar*, 40 anni, viaggia con cinque figli e afferma di non avere idea di dove andrà a vivere ora. Vedova originaria di Baghlan, una città nel nord dell’Afghanistan, viveva in Iran da oltre un decennio. Gestiva una piccola sartoria e aveva recentemente versato una caparra per una casa. La scorsa settimana, racconta, è stata arrestata, prelevata con i figli da un campo profughi vicino alla città meridionale di Shiraz e deportata.

“Sono arrivati ​​nel cuore della notte. Li ho implorati di darmi due giorni per recuperare le mie cose. Ma non mi hanno ascoltato.” Sahar, deportata afghana “Non sono nemmeno riuscita a mettere in valigia i loro vestiti. Sono arrivati ​​nel cuore della notte. Li ho implorati di darmi solo due giorni per recuperare le mie cose. Ma non mi hanno ascoltato. Ci hanno buttati fuori come spazzatura.”

Fino a poco tempo fa, le donne venivano raramente rimpatriate forzatamente dall’Iran. Gli uomini, spesso lavoratori clandestini, avevano maggiori probabilità di essere arrestati ed espulsi. Ma i funzionari di frontiera afghani affermano che di recente si è verificato un cambiamento, con almeno 100 donne non accompagnate espulse attraverso un unico valico di frontiera nella provincia di Nimroz, nel sud del Paese, tra marzo e maggio di quest’anno.

Tornare in Afghanistan senza un tutore maschio mette le donne in diretto conflitto con la legge talebana, che proibisce loro di viaggiare da sole. Molte di quelle rimpatriate dall’Iran si ritrovano bloccate al confine, impossibilitate a proseguire il viaggio.

Con temperature che ora raggiungono i 52 °C, le autorità locali affermano che diverse persone sono morte durante gli attraversamenti forzati. I funzionari di frontiera affermano che almeno 13 corpi sono arrivati ​​nelle ultime due settimane, ma non è chiaro se siano morti per il caldo e la sete o se siano stati uccisi durante i raid aerei israeliani in Iran.

Chi arriva ai valichi di frontiera nell’Afghanistan meridionale dice di essere assetato, affamato ed esausto, dopo aver camminato per ore sotto il sole. La maggior parte non ha effetti personali, documenti o un piano su dove vivere.

“Da Shiraz a Zahedan [vicino al confine afghano], ci hanno portato via tutto. Sulla mia carta di credito c’erano 15 milioni di toman (110 sterline) . Una bottiglia d’acqua costava 50.000 toman, un panino freddo 100.000. E se non ce l’avevi, tuo figlio se moriva”, racconta Sahar.

I talebani affermano di offrire alloggio a breve termine e assistenza per il trasporto alle donne deportate senza un mahram (un uomo adulto che possa accompagnarle durante il viaggio). Ma molte rimpatriate affermano di non aver ricevuto alcun aiuto. Secondo la politica dei talebani, alla maggior parte delle donne single è vietato ricevere terreni, viaggiare da sole nella propria provincia d’origine o trovare un impiego.

Sahar dice che le sue opzioni in Afghanistan sono scarse. Ha una madre anziana a Baghlan, ma non ha casa, lavoro e marito, il che significa che, sotto il regime talebano, non può viaggiare da sola né lavorare legalmente. “Ho chiesto terra [ai talebani], qualsiasi cosa per ricominciare. Mi hanno detto: ‘Sei una donna, non hai mahram. Non hai i requisiti'”.

Molti finiscono per affidarsi alla famiglia allargata o a reti informali. Una donna, tornata di recente con un neonato, racconta di essersi vista negare cibo e alloggio. “Mi hanno detto: ‘Non sei idonea. Non hai un uomo con te’. Ma il mio bambino ha solo quattro giorni. Dove dovrei andare?”

L’agenzia delle Nazioni Unite, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e altri gruppi forniscono aiuti temporanei ai valichi di frontiera, ma non hanno il mandato o le risorse per un supporto a lungo termine.

Sugli autobus che trasportano le deportate dai centri di detenzione ai confini con l’Afghanistan, le donne raccontano anche di essere state oggetto di abusi verbali, richieste di tangenti per i servizi di base e di mancanza di aria condizionata a causa del caldo estremo. “Dicevano che era uno spreco per voi afghani. Mio figlio piangeva per il caldo, ma l’autista rideva e ci prendeva in giro”, racconta Zahra*.

* I nomi sono stati cambiati

Kreshma Fakhri ha contribuito a questo articolo.

[Trad. automatica]

 

Ocalan riappare in video: «Disarmo senza indugi»

il manifesto, 10 luglio 2025, di Tiziano Saccucci

LE PRIME IMMAGINI DAL CARCERE DEL LEADER DEL PKK DAL 1999 Plauso al percorso di pace intrapreso dal movimento curdo: «Un passo storico e urgente»

«Cari compagni, per senso etico, mi sento in dovere di fornirvi risposte chiare e articolate sui problemi, le soluzioni, i risultati raggiunti e la situazione concreta del nostro Movimento Comunalista». Con queste parole, Abdullah Ocalan è riapparso per la prima volta in video dal 1999. Un segnale che arriva in un momento cruciale per il processo di pace tra il movimento curdo e lo Stato turco.

Il filmato, diffuso mercoledì dall’agenzia Firat News, mostra il leader storico del Pkk circondato da sei compagni di prigionia: Hamili Yıldırım, Ömer Hayrı Konar e Veysi Aktas – già noti per aver condiviso con Ocalan anni di isolamento e già presenti nella foto dell’appello del 27 febbraio – e tre volti nuovi: Ergin Atabey, Zeki Bayhan, Mahmut Yamalak, intellettuali detenuti da decenni con l’accusa di appartenenza al Partito dei Lavoratori del Kurdistan.

SECONDO FONTI del movimento curdo, la presenza di questi ultimi a Imrali rappresenta un passo di Ankara nel contesto dei negoziati. I tre farebbero parte di un gruppo di lavoro incaricato di affiancare Ocalan nella redazione del nuovo “Manifesto per la società democratica”, annunciato dal leader curdo nel video, destinato a sostituire “La Via della Rivoluzione del Kurdistan”, testo guida del movimento per oltre cinquant’anni.

Il documento diffuso porta la data del 19 giugno, ma la sua pubblicazione è arrivata solo ora. Mentre sul piano pubblico il processo di pace pareva stagnare, la delegazione del partito Dem, che svolge il ruolo di mediatore, è stata particolarmente indaffarata: il giorno prima della data riportata nella lettera, i rappresentanti del partito avevano incontrato Ocalan per la quinta volta, mentre Devlet Bahceli proponeva al Parlamento la creazione di una commissione di cento membri per gestire i negoziati.

A Imrali, dopo anni di isolamento quasi assoluto, nelle ultime settimane il traffico si è fatto insolito: i prigionieri hanno potuto ricevere visite familiari due volte in poche settimane e domenica scorsa hanno incontrato nuovamente la delegazione Dem, che lunedì ha discusso con il presidente Erdogan, secondo incontro diretto dall’avvio di questa fase negoziale.

NEI SETTE MINUTI DEL VIDEO, Ocalan ha ribadito il sostegno all’Appello per la Pace e la Società Democratica del 27 febbraio scorso, salutando con favore il XII Congresso del Pkk, definito «una risposta positiva, sostanziale ed esaustiva».

Da qui l’invito esplicito a deporre le armi e a istituire una commissione parlamentare «pienamente operativa» presso la Grande Assemblea Nazionale Turca. Senza ulteriori ritardi. «È importante evitare sterili logiche del tipo “prima tu, poi io”: i passi necessari devono essere compiuti senza indugi».

«Dovete accogliere con responsabilità – prosegue Ocalan – l’impegno di garantire la deposizione delle armi davanti all’opinione pubblica. Questo passaggio non solo avrà valore di fronte al parlamento, ma rassicurerà l’opinione pubblica e darà prova del rispetto degli impegni presi» Un chiaro riferimento alla cerimonia annunciata da giorni a Sulaymanyya, nel Kurdistan iracheno, dove il primo gruppo di guerriglieri dovrebbe consegnare simbolicamente le armi, sotto gli occhi di osservatori internazionali.

NON MANCA UN ACCENNO alla questione più spinosa: la libertà personale del leader curdo, definita ripetutamente dal Pkk condizione imprescindibile per la fine della lotta armata: «Non ho mai considerato la mia libertà come una questione personale. Filosoficamente, la libertà dell’individuo non può essere separata da quella della società».

Il discorso si chiude con un monito e una speranza: «Gli ultimi sviluppi dimostrano quanto questo passo storico sia importante e urgente. Affermo con forza e convinzione che queste discussioni ci condurranno verso un nuovo programma teorico e una nuova fase strategica e tattica a livello nazionale, regionale e globale».

Belquis Roshan. “Soltanto noi possiamo liberarci davvero dei Talebani”

Altreconomia, 9 luglio 2025, di Cristiana Cella

Intervista alla ex senatrice del Parlamento afghano, costretta alla fuga dal suo Paese per la terza volta. Ora vive in Germania, schiacciata dal “senso di sconfitta che è più forte del sollievo per lo scampato pericolo”. La resistenza clandestina al regime, il ruolo manipolatorio degli Stati Uniti, il tentativo di ritrovare la speranza. A quasi quattro anni dalla “caduta” di Kabul e dal disastro dell’occupazione occidentale.

In Afghanistan non poteva più restare, Belquis Roshan, ex senatrice del Parlamento afghano (componente dal 2011 della Camera Alta, Meshrano Jirga, e dal 2019 della Camera Bassa, Wolesi Jirga). È dovuta scappare per non essere uccisa. Ma il senso di sconfitta è più forte del sollievo per lo scampato pericolo.

“Ogni momento, da quando sono uscita dall’Afghanistan, è stato difficile. Ho cercato di fare del mio meglio per migliorare il mio Paese ma siamo stati traditi e abbiamo fallito. Sono stata costretta ad andarmene da sola, tutta la mia famiglia è rimasta lì”.

Roshan era molto conosciuta, dalla sua posizione in Parlamento aveva sempre denunciato crimini, corruzione e tradimenti, si era sempre battuta per i diritti delle donne e contro tutti i fondamentalisti islamici che lo infestavano. I nemici non le mancavano. L’abbiamo incontrata a Roma, dove ha parlato alla conferenza stampa alla Camera dei deputati, promossa dal Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) per presentare i risultati della petizione “Stop Fondamentalismi – stop Apartheid di genere”.

Belquis Roshan, non è la prima volta che lascia il suo Paese, giusto?
BR Questa è la terza fuga. Ero scappata con la mia famiglia ai tempi dell’invasione russa e del primo governo talebano ma non immaginavo di ripercorrere di nuovo questa strada. Per tutto il primo anno, dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul, ho sperato di poter restare. Ma poi nel 2022 alcuni politici afghani dell’ex governo sono stati picchiati, torturati, trascinati per strada e uccisi. Dopo questo episodio i miei compagni hanno fatto molta pressione perché partissi. Mi dicevano: “Se tu rimani, ti arrestano e noi restiamo senza speranza. Sarebbe una vergogna per tutto il movimento di resistenza perché non siamo riusciti a proteggerti. All’estero potresti avere la possibilità di aiutarci da fuori”.

È stato difficile arrivare in Europa?
BR Sì, difficile e pericoloso. Pochi mesi prima dell’arrivo dei Talebani a Kabul, il governo ci aveva obbligato a prendere un passaporto diplomatico. Con quel tipo di documento non potevo passare la frontiera, il rischio di essere riconosciuta era alto. Una persona ha portato il mio passaporto in Pakistan e io sono andata a piedi, clandestinamente, attraverso le montagne, con altre persone sconosciute. Un viaggio difficilissimo che molti afghani sono costretti a fare.

Come si sente adesso nella sua vita in Germania?
BR Ho una grande responsabilità, quella di denunciare quello che sta succedendo nel mio Paese, come vivono le persone, le donne soprattutto, e la condizione dei rifugiati in Iran e Pakistan. Ogni volta mi chiedo che colpe hanno gli afghani per dover vivere una simile tragedia da così tanto tempo.

In Afghanistan era molto popolare, aveva tanti sostenitori che credevano in lei. Ha ancora contatti con loro?
BR Sì, li sento regolarmente e mi raccontano un situazione disperata, senza soldi, senza lavoro, molti sono fuggiti in Pakistan e in Iran. L’oppressione e la violenza sono molto forti e la gente non ce la fa più. Ti faccio un esempio. Un amico che era capo di una guarnigione dell’esercito a Farah è stato barbaramente ucciso mentre tornava a casa dopo che l’esercito era stata sciolto. I Talebani hanno chiesto alla famiglia di venire a riprendersi il cadavere ma hanno rifiutato, volevano solo la loro vendetta. Volevano uccidere gli assassini. Ogni famiglia ha un lutto, un massacro, una violenza talebana da vendicare. La vendetta cova e potrebbe esplodere con molta violenza. Il mese scorso i Talebani hanno ucciso 300 ragazzi, così, tutti insieme. Non si può sopportare tutto questo. Ci sarà per forza una rivolta.

È possibile che questa rabbia diventi un giorno una resistenza organizzata?
BR Non posso sapere quando ma sono sicura che prima o poi ci sarà una rivoluzione popolare contro questo governo. Soltanto noi possiamo liberarci davvero dei Talebani.

Quali sono gli ostacoli?
BR Prima di tutto manca una leadership. Nessuno si fida di nessuno, hanno tutti paura uno dell’altro. La gente è spaventata, chiusa, sospettosa. Molte delle persone che si vogliono presentare come leader non sono affidabili. Però piano piano stanno emergendo dei giovani militari e attivisti che cercano di organizzare questa opposizione. Ci vorrà molto tempo, ma sappiamo che ogni famiglia in Afghanistan ha un’arma con cui combattere e tante vendette da consumare. Se una rivolta parte poi tutti si uniranno.

Qualche rivolta spontanea c’è stata in questi anni.
BR Sì, in quasi tutte le province afghane la popolazione si è ribellata, gente comune, gente del mercato, disoccupati, ma sono stati sconfitti. I Talebani hanno arrestato e ucciso tantissime persone, a Badakhshan, Kandahar, Jalalabad. Queste rivolte non hanno leadership e sono molto deboli, sono state spazzate via con facilità dai Talebani. In Panshir, ad esempio, la rivolta militare è fallita. La loro guida, Ahmad Massud, era già all’estero mentre i giovani venivano massacrati. E adesso quella provincia è invasa da 30mila soldati Talebani e ogni giorno ci sono persone che perdono la vita. Sono molto controllati, non possono nemmeno usare un telefono.

E le rivolte delle donne?
BR Le donne sono state coraggiose ma sono state sconfitte perché erano male organizzate. Hanno commesso un errore strategico fondamentale. Si sono riunite e si sono subito espresse apertamente e per i Talebani è stato facile ritrovarle nelle loro case, arrestarle, torturarle e ucciderle. Anche i membri delle loro famiglie vengono perseguitati, ancora adesso.

Che cosa avrebbero dovuto fare?
BR Avrebbero dovuto lavorare a lungo in clandestinità per organizzare una rivolta più grande, più profonda e più unita. Così avrebbero potuto sopravvivere e avere maggiore successo.

Quindi un lungo lavoro clandestino, è questo che, secondo lei, potrebbe funzionare?
BR Sì, non bisogna avere fretta. La resistenza deve essere clandestina e diffusa, non concentrata in un solo luogo, sarebbe troppo fragile. Restare nell’ombra, finché non si sia abbastanza forti da avere speranze di vittoria.

Esiste un consenso ai Talebani nel Paese, ad esempio tra la popolazione pashtun?
BR I Talebani della base sono stufi di questo malgoverno. Stanno facendo un gran lavoro di lavaggio del cervello, costruendo migliaia di madrase (istituti d’istruzione media e superiore per le scienze giuridico-religiose musulmane, ndr) per indottrinare la popolazione, per aumentare il loro consenso, ma non ce la fanno. La rigidità delle loro regole è respinta da tutti. Ovunque c’è una quotidiana disobbedienza civile, come quando ai matrimoni suonano e cantano lo stesso, nonostante i divieti. Addirittura all’interno dei Talebani alcune regole estreme sono rifiutate. Penso che proprio tra i pashtun i Talebani abbiano i loro più forti oppositori. L’ideologia estrema talebana non fa parte della nostra cultura. Gli afghani non sono mai stati religiosi radicali, poi, quando il regime comunista è caduto, l’Onu non si è opposto ai mujaheddin e ha lasciato che prendessero il potere con la loro ideologia estremista. È stato un grave errore non intervenire, non hanno evitato tutte le tragedie che da questo errore sono scaturite. Tragedie che hanno colpito soprattutto le donne. C’è stata tanta violenza contro le donne anche nel periodo passato però almeno si potevano denunciare questi casi, c’erano delle leggi a cui appoggiarsi, adesso ogni crimine è permesso, l’impunità è totale. Ascolto tutti i giorni storie orribili, anche nei racconti della mia famiglia.

Il governo talebano potrebbe sopravvivere senza il sostegno economico degli Stati Uniti?
BR I Talebani si sono appropriati delle miniere e delle altre risorse del Paese ma posso dire con sicurezza che, senza questi soldi, non potrebbero sopravvivere nemmeno sei mesi. Ne hanno bisogno per far funzionare la macchina governativa.

Se questo sostegno dovesse finire, potrebbe essere un vantaggio per far crollare il regime?
BR Non credo. Se i Talebani dovessero restare senza fondi, scoppierebbe una guerra civile, anche tra loro, perché le tensioni interne sono molto alte e, per le risorse, si scatenerebbero sicuramente lotte feroci. Sarebbe un periodo di guerre senza controllo, nessuno gestirebbe più il Paese, tutto sarebbe allo sbando. E questo non conviene nemmeno agli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti potrebbero fare pressioni politiche sul governo talebano?
BR Certo. Gli Stati Uniti stanno giocando contro gli interessi della popolazione afghana. Hanno sempre fatto quello che volevano, consegnare il Paese ai Talebani, mettere due presidenti, gestire i governi fantoccio. Attraverso il ricatto economico potrebbero facilmente mettere pressione sul governo talebano e ottenere quello che vogliono, perfino organizzare delle elezioni, qualsiasi cosa. Ma non lo fanno.

Perché?
BR Non hanno nessun interesse per il miglioramento della situazione della popolazione afghana, l’importante è avere il controllo del Paese, per contrastare meglio la Cina e l’Iran. E per questo serve un Paese fragile, completamente dipendente. Se gli afghani fossero più forti non sarebbero più manipolabili.

C’è ancora una presenza militare statunitense sul territorio afghano?
BR Sul terreno sono molto attivi i servizi segreti non tanto i militari. Ma i Talebani sono in contatto con i soldati americani per addestramento e sostegno militare. Ora sembra che vogliano riprendersi la base di Bagram. Il cielo dell’Afghanistan è sempre nelle loro mani.

Che cosa le manca di più del suo Paese?
BR Le persone, la gente. La libertà di movimento che avevo. Qui sono costretta a stare sempre nello stesso posto, devo chiedere il permesso per viaggiare, per muovermi, sono sempre controllata. Con tutte le difficoltà, in Afghanistan non mi sentivo mai depressa o triste.

C’è ancora speranza in Afghanistan?
BR La guerra da noi dura da 50 anni. Anche adesso è una guerra, alle donne, alla vita, alla libertà, alla gioia, alla sopravvivenza. Ma nonostante tutto, la popolazione afghana continua a essere piena di vita e di speranze per il futuro. Quando parlo con i miei parenti mi dicono sempre: “Non ti preoccupare, tornerai presto. I Talebani rimangono ancora due anni e poi se ne vanno”. Sono loro a dare coraggio a me. Anche quando sento i miei amici, che erano soldati dell’esercito, mi dicono: “Noi ti stiamo aspettando, sappiamo che tornerai e siamo pronti a lavorare ancora con te”.

Cristiana Cella, giornalista, fa parte del Cisda, il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che da tempo collabora con Altreconomia. Per seguire i progetti del Cisda e sostenerne l’operato clicca qui

 

Afghanistan. La Corte Penale internazionale dà la caccia ai leader taleban

Avvenire, 8 luglio 2025, di Angela Napoletano

Confermato l’ordine di arresto delle due massime autorità: il capo supremo Haibatullah Akhundzada e il ministro Abdul hakim Haqqani. L’accusa è di persecuzione contro le donne.

La Corte penale internazionale ha confermato, ieri, l’ordine di arresto delle due massime autorità dei taleban in Afghanistan emesso a gennaio dal procuratore capo Karim Khan. L’accusa che pende sulla testa dell’emiro Haibatullah Akhundzada, il leader supremo del regime islamico, e del ministro della Giustizia Abdul hakim Haqqani, è di «persecuzione contro le donne e le ragazze» e contro le persone «percepite come loro alleate». Reato che lo Statuto di Roma, fondativo della Corte dell’Aja, equipara a «crimine contro l’umanità».

I giudici si sono espressi sulla base delle prove raccolte a documentare gli abusi subiti dalla popolazione femminile da quando i taleban, il 15 agosto 2021, sono tornati al potere a Kabul: omicidi, detenzione, tortura, stupro e sparizione forzata. Al vaglio dei magistrati della Cpi sono finiti anche gli editti emessi a privare le donne e le ragazze afghane dei diritti inalienabili come quello all’istruzione, alla privacy e alla vita familiare, e delle libertà fondamentali come quelle di movimento, espressione, pensiero, coscienza e religione. Servirà, ci si chiede, a contenere la discriminazione sistematica delle donne istituzionalizzata dal governo dell’Emirato islamico?

Per le associazioni a tutela dei diritti umani la mossa è importante per dare speranza alle afghane, fuori e dentro il Paese, a farle sentire meno sole. Anche se non è ancora esecutiva perché legata a un fase preliminare del percorso giudiziario. A questa seguirà un processo e, solo dopo, una sentenza. Il pronunciamento è arrivato quattro giorni dopo il primo riconoscimento ufficiale dei taleban all’estero: venerdì scorso, l’Afghanistan oscurantista è diventato interlocutore ufficiale della Russia di Vladimir Putin. Alla vigilia del quarto anniversario del ritorno al potere, l’emiro Akhundzada ha come “padrino” un Paese che siede in Consiglio di sicurezza Onu.

All’ombra della guerra e della repressione: un messaggio dalla prigione di Qarchak

Sillingers Collective, 2 luglio 2025

Lettera aperta di Golrokh Iraee, Reihaneh Ansari e Verisheh Moradi dalla prigione di Qarchak

Non consideriamo la nostra sofferenza di oggi più grande di quella che è stata imposta al popolo iraniano. Lunedì 23 giugno, mentre oltre tremila persone erano rinchiuse dietro le porte chiuse in varie sezioni della prigione di Evin, i razzi israeliani hanno colpito il complesso carcerario e i suoi edifici. Oltre alle vittime, non si hanno ancora notizie di alcuni detenuti che erano rinchiusi in celle di isolamento.

Martedì mattina, le donne di Evin sono state trasferite nelle carceri di Qarchak e Varamin, sottoposte a severe restrizioni di sicurezza, e circa tremila uomini di Evin sono stati trasferiti nella prigione di Teheran Grande. Sebbene ci troviamo in condizioni peggiori rispetto a prima del nostro trasferimento, dichiariamo, insieme ai nostri compagni e fratelli della prigione di Teheran Grande che sono stati attaccati e sottoposti a pressioni contemporaneamente a noi, che la situazione attuale non fermerà la nostra lotta. Perché sappiamo che questo percorso non è mai stato privo di difficoltà.

Dalla Rivoluzione Costituzionale a oggi, nonostante le numerose guerre, i colpi di stato contro il popolo, il massacro di persone indifese e di dissidenti politici da parte di regimi autoritari nel corso dell’ultimo secolo, e i molti alti e bassi di cui la storia è testimone, il cammino della lotta continua. Oggi siamo nella prigione di Qarchak, ad affrontare le condizioni che più di mille donne con varie accuse hanno sopportato e vissuto per anni. Donne ai margini, che recano sofferenze impresse nel profondo dei loro occhi, testimonianze dei cicli di ingiustizia che ci uniscono nella lotta per spezzarli. Sono le naufraghe ai margini della società, che non trovano posto in nessuna dimensione della vita, non sono presenti nei notiziari o nei media e non sono menzionate nei rapporti sui diritti umani. I loro nomi, le loro storie e il loro dolore rimangono invisibili e inascoltati.

Ciò che ci ha stupite negli ultimi giorni è la verità della vita di queste donne. Donne piegate su letti corti grandi come tombe, desiderose delle più elementari condizioni di vita e di igiene. Tra muri lerci e incrostati che portano il segno di anni di privazioni, molte di loro, senza un solo rial a disposizione, si offrono ai loro compagni di cella solo per i soldi delle sigarette. Per sfruttamento. Per lo sfruttamento sessuale. E si sottopongono a ogni forma di umiliazione. Per riempire lo stomaco. E per ottenere il minimo di ciò che desideravano. Lavorano nella sezione di lavoro del carcere e si prodigano quotidianamente senza sosta (dal trasporto di cibo e rifiuti alla pulizia delle aree di riposo e ai contatti con le guardie carcerarie), senza ricevere alcun salario, solo per qualche minuto in più di telefonate.

Nell’officina del carcere, sono impegnate a cucire e cucire per ottenere un pacchetto di sigarette alla fine della giornata. Queste sono le donne da cui noi, come prigioniere politiche, siamo solitamente separate, a meno che le autorità non ci mettano deliberatamente insieme come forma di punizione o esilio. E ora, anche se siamo state sistemate nella prigione di Qarchak separatamente da loro, le nostre disgrazie non sono separate dalle loro.
Accanto alle instancabili lotte dei popoli contro la dittatura, con obiettivi precisi e una linea d’azione decisa, continueremo a percorrere il cammino della resistenza fino al rovesciamento e all’eliminazione di ogni forma di tirannia. E al fianco di queste vittime dimenticate che sono state escluse dal flusso della vita, rilanciamo la nostra resistenza con maggiore determinazione di prima. E a coloro che alzano le loro voci per noi e per le nostre difficili condizioni, diciamo con voce ancora più forte: ciò che ci è stato imposto oggi non è più grande degli anni di sofferenza che queste donne hanno patito. Quindi impegnatevi per migliorare le condizioni di “noi”, a prescindere dalle accuse che ci vengono rivolte, e per migliorare le condizioni di “noi” che siamo state trasferite nelle carceri di Qarchak e della Grande Teheran, a prescindere dal nostro sesso.

E sappiate che coloro che sono scomparsi sotto le macerie dell’attacco e coloro che sono stati scacciati dal circolo spietato della vita hanno bisogno di aiuto più di noi.
Che noi si possa essere un anello della catena della lotta del popolo iraniano per l’uguaglianza e la libertà, un popolo che ha sopportato oltre un secolo di tirannia e sfruttamento e che continua ad andare avanti.

[Trad. a cur di Cisda]

Dopo lo scioglimento del Pkk, le forze politiche curde cercano nuove strade

lavialibera. Le città invisibili, 6 luglio 2025, di Davide Grasso

Il 12 maggio scorso il Partito dei lavoratori del Kurdistan, uno dei più grandi e longevi movimenti rivoluzionari del mondo, ha annunciato la dissoluzione. Una scelta frutto di una lunga riflessione: dalle critiche ai modelli patriarcali ed ecocidi, passando attraverso l’esperienza rivoluzionaria di Kobane, fino alla fallita insurrezione armata in Turchia. L’analisi di Davide Grasso

Viviamo una fase di violenta ridefinizione degli equilibri storici, normativi e dei rapporti di forza globali. Assistiamo, come ha scritto la Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (Pacbi), al primo genocidio trasmesso in diretta della storia, quello palestinese a Gaza. I massacri russi in Ucraina e le aggressioni israeliane al Libano, alla Siria e all’Iran segnano lo sprofondare del mondo in un secolo di guerra avviato dalle politiche belliche unilaterali statunitensi degli anni Novanta (Serbia), Duemila (Iraq) e dalla ventennale occupazione dell’Afghanistan.

In questo contesto mondiale il 12 maggio scorso l’annuncio della dissoluzione e del disarmo del Partito dei lavoratori del Kurdistan o Pkk – uno dei più grandi e longevi movimenti rivoluzionari di guerriglia nel mondo – ha colto di sorpresa se non deluso molti, a partire da coloro che si erano abituati a considerare questo movimento una delle poche certezze, o un punto di riferimento teorico e politico in un panorama internazionale e postcoloniale dove le forze socialiste appaiono al momento residuali. Per comprendere le ragioni, e soprattutto il senso, della scelta annunciata dal Pkk, occorre considerare tanto le evoluzioni storiche quanto quelle ideologiche di questo movimento.

La comprensibile ostilità dello Stato turco ha invece indotto le nazioni della Nato a bollare l’organizzazione come terrorista. La Corte di giustizia dell’Unione europea, tuttavia, ha sentenziato nel 2018 che l’Ue ha inserito il Pkk nella lista senza portare elementi empirici sufficienti a sostegno di questa decisione

Fondato nel 1978 dopo diversi anni di attivismo studentesco nelle università turche da parte di universitari di lingua madre curda e turca, il Pkk è il più recente dei partiti comunisti al mondo a diventare forza trainante ed egemone nella propria nazione. È stato inoltre uno dei pochi partiti marxisti-leninisti ad assumere un ruolo di peso e durata in una nazione extra-europea abitata da una maggioranza musulmana. Benché vi siano stati altri partiti comunisti di rilievo nel mondo musulmano, a partire dalla Palestina, nella nazione (anch’essa senza stato) del Kurdistan (che conta quasi quaranta milioni di persone di idiomi di derivazione indo-iranica tra Iran, Armenia, Turchia, Siria e Iraq) il Pkk ha saputo in tempi brevissimi incarnare una nuova lotta di liberazione.

La creazione del Pkk e la sua decisione di avviare un’insurrezione armata contro lo Stato turco nel 1984 hanno portato la comunità internazionale a dividersi sulla sua natura: legittimo movimento di liberazione nazionale o organizzazione terroristica? L’Onu non ha mai inserito il Pkk nella lista delle organizzazioni terroristiche, peraltro compilata senza che vi sia una giurisprudenza coerente su questo tema. Sulla stessa linea si è schierata la quasi totalità della comunità internazionale, e tra gli altri Russia, Cina, Iran, Egitto, Brasile e il Sudafrica dopo la liberazione dall’Apartheid. La comprensibile ostilità dello stato turco ha invece indotto le nazioni della Nato (di cui la Turchia è unico membro nel mondo musulmano) a bollare l’organizzazione come terrorista. La Corte di giustizia dell’Unione europea, tuttavia, ha sentenziato nel 2018 che l’Ue ha inserito il Pkk nella lista senza portare elementi empirici sufficienti a sostegno di questa decisione. La sentenza ha mostrato, come le vicende legate alla guerra in Siria, che anche le istituzioni legate alla Nato sono divise su questo punto.

L’affermazione del Pkk

Secondo il Pkk il Kurdistan era una colonia della Turchia anche a causa del tradimento nazionale della classe latifondista curda, che per poter sfruttare contadini e lavoratori ha accettato la sovranità di elite turche o arabe imposte dalle potenze europee

La rapidità con cui il Pkk si è imposto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta sulla scena politica curda è dovuto all’originalità della sua impostazione teorica: secondo il Pkk il Kurdistan non era una regione o parte, ma una colonia della Turchia, e questa dominazione coloniale era possibile anche a causa del tradimento nazionale della classe latifondista curda, che per poter sfruttare contadini e lavoratori ha accettato la sovranità di elite turche o arabe imposte sul Kurdistan dalle potenze europee tra gli accordi di Sykes-Pikot (1916) e il Trattato di Losanna (1923). I militanti del Pkk hanno per questo iniziato già negli anni Settanta una violenta lotta contro le elite curde locali. Questo ha attratto l’adesione di migliaia di giovani contadini. La collocazione comunista e decoloniale del Pkk ha portato inoltre, nel 1979, a un’intesa con il Fronte democratico di liberazione della Palestina a Damasco, che ha propiziato la decisiva apertura di campi di addestramento per il Pkk in Libano (con il benestare di Assad padre in Siria).

Ne è seguita la guerra di guerriglia: prima contro Israele nel paese dei cedri, durante l’invasione del 1982, quindi contro la Turchia della dittatura militare dal 1984. Il carattere tardivo dell’affermazione di questo movimento ne ha fatto un paradosso storico che dura tuttora: all’apice della forza e del sostegno sociale per il Pkk durante la serihildan (sinonimo di Intifadah in curdo) dei primi anni Novanta, il mondo comunista si dissolveva, le forze palestinesi accettavano gli accordi di Oslo mettendo fine alla prima intifadah, l’influenza del marxismo sulle elite intellettuali mediorientali o occidentali si incrinava, gli Stati Uniti riposizionavano le proprie truppe dall’Europa al mondo musulmano con la scusa del debito di guerra iracheno. In questo contesto il Pkk ha avviato una riflessione collettiva ed è diventato l’unico movimento comunista di massa ad aver messo a punto un pensiero e una strategia per rinnovare in profondità i paradigmi della lotta nel contesto successivo sia al 1989 che alla crisi dei movimenti secolari di decolonizzazione. Questa svolta, elemento importante, è stata spronata da una rivolta femminile interna al partito, che ne ha messo in discussione la mentalità patriarcale.

Il Pkk ha ripensato i paradigmi rivoluzionari

Tanto il comunismo quanto la decolonizzazione, secondo il Pkk di fine anni Novanta, avevano raggiunto risultati fondamentali, ma erano rimasti intrappolati nel modernismo divenuto estrattivo, ecocida e genocida

Non sarebbe possibile comprendere la logica del processo di trasformazione di questi mesi senza tenere a mente questi passaggi di lungo periodo. A cavallo del nuovo millennio, tanto prima quanto dopo l’arresto del presidente del partito, Abdullah Öcalan, il Pkk non soltanto ha avviato diversi tentativi di dialogo e coesistenza con lo Stato turco (dal 1993 al 2015), ma ha proposto un’autocritica del movimento comunista nel quadro dell’autocritica generale, considerata necessaria, del paradigma socialista. Essa doveva interessare le pratiche dei movimenti di liberazione europei ed extra-europei, dalla rivoluzione francese all’insurrezione curda, passando per l’Ottobre rosso e la rivoluzione culturale cinese. Tanto il comunismo quanto la decolonizzazione, secondo il Pkk di fine anni Novanta, avevano raggiunto risultati fondamentali, animati da fini giusti e intenzioni cristalline, ma erano rimasti intrappolati in una logica figlia (fin dal XVIII e XIX secolo) del modernismo divenuto estrattivo, ecocida e genocida della modernità capitalista.

Si tratta di una linea di decostruzione che ha punti in comune con la critica della colonialità portata avanti in America Latina, in ambiti più accademici, negli stessi anni. L’idea di rivoluzione mutuata dalla rivoluzione francese era stata – da Parigi a Saigon passando per L’Avana o San Pietroburgo – quella di un’imposizione della logica statale alla società, di una fiducia comprensibile ma a conti fatti ingenua nello “sviluppo” economico e tecnologico, e una sottovalutazione della profondità della penetrazione della mentalità coloniale nella modernità, anche quando declinata in senso socialista e nazionale; una concezione verticale della rivoluzione come ingegneria sociale dall’alto verso il basso che si è nutrita di un sostanziale disprezzo per le tradizioni, i costumi, le identità e le emozioni di coloro che di questa modernità sono relegati a soggetti da dominare, sfruttare e colonizzare.

Il colonialismo sarebbe per il Pkk il portato, tuttavia, di una storia del dominio che non inizia con il capitalismo globalizzato e finanziario battezzato dal Rinascimento europeo. L’era in cui gli dei si mascherano da Stati-nazione di matrice europea, legittimando giuridicamente la presa sull’ambiente e sul genere umano dell’assoggettamento gerarchico sotto forma di capitale, è l’ultimo episodio di una storia complessiva delle civiltà, che offre una varietà non meno problematica di forme di colonialità patriarcale, classista e imperiale. Queste ultime, prone a una logica di asservimento, guerra e colonizzazione di identità sottomesse nel corso (almeno) degli ultimi cinquemila anni, sono l’effetto della prima e più profonda colonizzazione, che si potrebbe definire originaria: quella del corpo e del lavoro delle donne da parte di noi uomini.

Questa riflessione è stata fatta propria anche da nuovi partiti nati nella società curda: il Partito della democrazia e dell’uguaglianza tra i popoli (Dem Parti) in Turchia, il Partito di unione democratica in Siria, il Partito della vita libera in Iran. Non si tratta di forze marginali in termini di peso socio-politico (come spesso sono in questa fase quelle post-comuniste occidentali o arabe), ma rilevanti al punto da mobilitare masse elettorali, migliaia di quadri politici e militanti armati. Le forze del nuovo paradigma in Turchia sono diventate terzo partito del paese, quelle in Siria hanno promosso una rivoluzione nel nord-est, quelle in Iran hanno agito da protagoniste nei movimenti per il cambiamento nel paese e proposto a giugno una terza via rispetto al bivio, giudicato soltanto apparente, tra sostegno alla guerra israeliana o al regime islamico. Lo slogan “Jin, jiyan, azadi” (donna, vita, libertà) è conio dei movimenti delle donne nati da questo “nuovo paradigma”.

Il modello Kobane e l’influsso sulla Turchia

Lo sviluppo di questi partiti, movimenti e rivoluzioni ha trasformato profondamente il panorama politico del Kurdistan, producendo un insieme di attori che hanno prodotto percorsi talvolta diversi. Il successo del nuovo paradigma in Siria, ad esempio, ha portato nel 2014 al grande afflusso di giovani curde e curdi nella resistenza di Kobane attaccata da Daesh (o Isis). L’idea non era prendere il potere in Siria, ma costruire forze economiche e politiche dal basso che contendessero allo stato il potere assoluto sull’insieme del territorio. La rivoluzione confederale punta infatti a una relativizzazione e a un indebolimento tendenziale delle pretese storiche dello Stato-nazione postcoloniale, non alla sua distruzione. Si tratta di una concezione originale della trasformazione come della democrazia, che in questa logica non è principalmente un modello decisionale rappresentativo, ma un modo democratico di vivere e produrre insieme.

A Kobane, per la prima volta, l’intero mondo arabo e quello occidentale hanno preso atto – talvolta attraverso lenti problematiche e variamente razziste – dell’esistenza e della forza di questo movimento transnazionale, molto diverso ideologicamente dagli altri attori delle insurrezioni e resistenze regionali, ma anche dai tradizionali movimenti comunisti. Il successo della resistenza di Kobane ha provocato un terremoto politico in tutto il Kurdistan, con effetti di rilievo in Siria e Turchia. Gran parte delle formazioni dell’Esercito libero siriano che combattevano Assad si sono alleate alle Ypg-Ypj curde formando le Forze siriane democratiche. Il Dem Parti (all’epoca Hdp) ha assunto un peso inedito per una formazione socialista in Turchia, distinta tanto dall’opzione nazionalista quanto da quella islamista. Esso raduna esperienze socialiste e comuniste di varie aree del paese e non solo delle regioni curde. Superando stabilmente, da dieci anni, lo sbarramento del 10% per entrare in parlamento, ha modificato lo scenario istituzionale turco.

L’insurrezione armata del Pkk e la repressione

Nel 2015 si è aperta per il Pkk l’opportunità per promuovere un’insurrezione armata in Turchia, che è stata repressa duramente da Ankara. Molte popolazioni delle aree interessate non ha compreso perché il Pkk l’abbia fatto senza avere i mezzi adeguati

Quando questo processo politico si è manifestato, nel 2015, il Pkk ha ritenuto si fosse aperta una finestra di opportunità per promuovere un’insurrezione armata in Turchia, arrivando fino ai centri urbani del sud-est e nelle periferie di Istanbul. Questa insurrezione è durata mesi ma è stata duramente repressa dallo Stato, che ha attuato una punizione collettiva delle regioni coinvolte radendo al suolo interi quartieri, sommergendo con le dighe reperti archeologici, distruggendo moschee, vie e quartieri: la memoria tangibile e intangibile dei luoghi più importanti per l’eredità culturale curda. Oltre all’uccisione o all’arresto di migliaia di persone, questo ha significato la costruzione di nuovi quartieri secondo i canoni impersonali e le logiche speculative di quella che il Pkk considera la declinazione capitalista dell’idea di modernità.

Questi fatti hanno lasciato un trauma che è fondamentale, io credo, tenere presente in rapporto alla recente scelta del Pkk di sciogliersi. Gran parte della popolazione di quelle regioni non ha compreso allora, e non comprende oggi, perché il movimento ha lanciato un’insurrezione senza avere i mezzi materiali per arginare la reazione statale (di fronte a distruzioni e massacri ancora più gravi, è verosimile che questo confronto abbia presto luogo anche in seno al movimento di liberazione palestinese). Per comprendere questo fenomeno sul piano sociologico è utile considerare che la maggior parte dei militanti del Pkk ha vissuto sulle montagne turche e soprattutto irachene in questi anni, sottoposta a pesanti bombardamenti. Gli attivisti urbani delle regioni curde di Turchia, o gli stessi quadri dirigenti del Rojava, sono stati visti da alcuni di loro, in questo contesto, come “privilegiati” adagiatisi in una narrazione riformista che esclude il necessario, per quanto difficile, scontro diretto con gli apparati statali.

Non sono pochi, in effetti, i quadri politici del Dem Parti, pur vicino ideologicamente al Pkk, che nel 2015 non condivisero la scelta dell’insurrezione armata, soprattutto nelle città. Quale conseguenza della repressione, in questi dieci anni una cappa repressiva ha bloccato la primavera che aveva preceduto e seguito Kobane. Tra i militanti del Pkk (talvolta accusati di non voler ascoltare i dubbi e le perplessità emerse nelle organizzazioni civili) e le organizzazioni legali e sociali si è sviluppato così un certo divario nel contesto curdo di Turchia, che molte e molti testimoni hanno confermato in questi anni.

Un Pkk marginalizzato potrebbe rallentare la trasformazione

La lotta armata in Turchia e Iraq è apparsa tanto più senza sbocchi perché, contrariamente alla guerra rivoluzionaria condotta in Siria, non lasciava intravedere ormai una fine prevedibile e un obiettivo chiaro

Il problema è che il “nuovo paradigma” proposto da Öcalan prevede proprio che la logica contrappositiva con lo Stato – considerata figlia, paradossalmente, proprio della mentalità statale, binaria ma non “dialettica” – sia abbandonata. Al suo posto viene proposta la costruzione di un’alternativa sociale al modo statale di organizzare le relazioni sociali, che mantenga la sua autonomia tanto nelle fasi di autodifesa quanto in quelle in cui la storia presenta l’opportunità di forme di coesistenza con gli ordinamenti statali. Öcalan, coinvolto dal 2024 in un processo di dialogo con lo Stato che ha visto protagonista in primo luogo il Dem Parti, ha allora lanciato la sfida più alta al Pkk, chiedendo di porre fine a una guerra di dieci anni (la più lunga nella storia del partito) e, infine, di una storia di 47 anni.

Il cuore delle politiche rivoluzionarie ispirate al nuovo paradigma del Pkk sono state in questi dieci anni, del resto, non in Turchia ma in Siria, dove il Partito di unione democratica ha scelto una strada che il Pkk ha sempre considerato (sia pur positivamente) come riformista. La lotta armata in Turchia e Iraq è apparsa tanto più senza sbocchi perché, contrariamente alla guerra rivoluzionaria condotta in Siria, non lasciava intravedere ormai una fine prevedibile e un obiettivo chiaro. Gli ultimi dieci anni hanno nei fatti portato il nucleo originario del pensiero socialista curdo, il Pkk, a rischiare di essere marginalizzato dalle nuove forme di organizzazione e teoria del mutamento che quel partito stesso ha contribuito a produrre. La scelta del congresso tenuto dal partito il 5-7 maggio, dove sono stati decretati il disarmo e lo scioglimento – secondo modalità tutte da definire – ha nei fatti preso atto che una certa struttura politico-militare rischierebbe di essere involontario intralcio ai processi di lotta o negoziato in corso in Siria come in Turchia.

A questo si riferisce il documento inviato da Öcalan al congresso, dove il presidente parla della necessità di compiere un ulteriore passo nella trasformazione della personalità limitante, lasciandosi alle spalle i residui di mentalità patriarcale e statale ereditati dal socialismo reale. Resta il fatto che gran parte di ciò che fa da sfondo allo scioglimento annunciato del Pkk è opaco, parte di trattative sostanzialmente segrete in Turchia e solo in parte pubbliche in Siria. Molto di ciò che alberga nelle menti delle dirigenze delle destre turche, soprattutto, non è chiaro. Prima ancora di fare affermazioni audaci su processi che sono tenuti lontani dallo sguardo delle opinioni pubbliche, è bene comprendere le premesse politiche soggettive di quanto sta accadendo.

Il Pkk ha creato un paradigma nuovo, che propone una rottura con il modello rivoluzionario tradizionale. Questo paradigma ha prodotto risultati: rivoluzioni e cambiamenti, nuove istituzioni, sconvolgimenti politici nella regione, nuovi soggetti collettivi organizzati dotati di una certa forza. In uno scenario profondamente trasformato da questi soggetti e processi, il Pkk ritiene di aver esaurito la sua missione. Per questo ha annunciato, nel suo documento congressuale, una nuova fase per un movimento di liberazione che si è originato nel Kurdistan, ma che ormai, in buona parte, lo trascende.

 

Afghanistan, la crisi è sia dentro che fuori dei confini. E i Paesi vicini espellono i profughi

la Repubblica Mondo Solidale, 4 luglio 2025

Rientrare in Afghanistan vuol dire, soprattutto per le ragazze, affrontare l’ossessione liberticida dei talebani. L’84% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà

ROMA – Si avvicina il quarto anniversario del ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, quando, il 15 agosto 2021 issarono la loro bandiera sul palazzo presidenziale di Kabul, dopo l’uscita frettolosa dei contingenti Nato a guida statunitense, di cui era parte anche l’Italia. Da allora, la condizione di vita degli afghani non accenna migliorare né per i residenti, né per i profughi nei Paesi vicini. E’ su questi ultimi che in settimana si sono concentrati l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) e la Federazione di Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale (Ifrc), che hanno lanciato l’allarme sui ritorni forzati da Pakistan e Iran, principali paesi di destinazione per i rifugiati.

Dal Pakistan rientrati 1 milione di rifugiati. Dal Pakistan secondo l’Ifrc, dal 2023 sono rientrati un milione di afghani nel quadro della politica promossa da Islamabad per espellere tutti i profughi afghani residenti irregolarmente. Una dinamica che si è intensificata con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, a gennaio scorso.Quanto all’Iran, primo paese al mondo per popolazione rifugiata secondo dati Unhcr (3,4 milioni), a marzo ha varato una legge che stabilisce l’interruzione al rinnovo del permesso di soggiorno per gli afghani nel Paese. Ancora l’Ifrc avverte che 800mila afghani hanno attraversato il valico di frontiera di Islam Qala, nell’Afghanistan occidentale, di ritorno dall’Iran da gennaio 2025. Di questi, secondo l’Agenzia Onu, 640mila sono rientrati solo nel mese di giugno.

Le persone arrivano esauste. Gli organismi umanitari avvertono che le persone spesso arrivano esauste e senza cibo, acqua o riparo adeguati in un periodo dell’anno segnato dall’aumento delle temperature, aumentando anche la pressione su comunità già in affanno.Lanciano quindi un appello alla comunità internazionale a intervenire a sostegno delle popolazioni.In questo quadro, secondo gli esperti si fanno decisamente sentire gli effetti dei tagli agli aiuti umanitari stabiliti da diversi governi, a partire dagli Stati Uniti.

Da un giorno all’altro sospese mille ostetriche. “Da un giorno all’altro abbiamo dovuto tagliare mille ostetriche e questo significa che delle donne probabilmente moriranno o sono morte partorendo, che i neonati non sopravvivono e che c’è un aumento nella violenza di genere” ha riferito alla Dire Mariarosa Cutillo di Unfpa, il Fondo Onu per la popolazione. Arafat Jamal, rappresentante dell’Unhcr a Kabul, avverte: “Le famiglie afghane vengono sradicate ancora una volta, arrivano con pochi effetti personali, esauste, affamate, spaventate da ciò che le aspetta in un Paese in cui molti di loro non hanno mai messo piede.

La paura delle ragazze per la libertà di movimento. Le donne e le ragazze sono particolarmente preoccupate, perché temono le restrizioni alla libertà di movimento e ai diritti fondamentali come l’istruzione e l’occupazione”.Un quadro confermato dalla famiglia Shukohman, residente in Iran, il cui visto scade a metà agosto: un termine che non pone fine solo alla residenza ma riduce quasi a zero le possibilità di curare la piccola Ayeda, due anni, affetta da Colestasi intraepatica progressiva familiare (Pfic): è una malattia genetica che colpisce il fegato, causa prurito invalidante, ittero e, senza cure, può causare cirrosi epatica e quindi morte.”Mia figlia soffre moltissimo” racconta la mamma di Ayeda all’Agenzia Dire, “piange per il dolore e con gli occhi mi chiede aiuto, ma io non posso fare niente per lei”.

La raccolta di firme. Gli organismi ieri hanno anche lanciato una raccolta firme sulla piattaforma Change.org, evidenziando che in Italia “esistono centri di riferimento con competenze consolidate sulle malattie epatiche rare, in grado di offrire ad Ayeda una possibilità”. L’accoglienza nel nostro Paese “farà la differenza tra la vita e la morte”, concludono.La mamma di Ayeda aggiunge: “Non avremmo mai voluto lasciare l’Afghanistan, ma abbiamo dovuto. Mi mancano profondamente i miei genitori, i miei amici, le valli e le montagne del nostro villaggio. Ma ora rientrare è impossibile”.

L’84% della popolazione sotto la soglia di povertà. In Afghanistan la situazione è drammatica. L’Onu avverte che l’84% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Emergency in settimana ha diffuso il rapporto ‘Accesso alle cure d’urgenza, critiche e chirurgiche in Afghanistan’, dedicato proprio alle difficoltà che la popolazione incontra ad accedere alla sanità, sia per i servizi scarsi o difficili da raggiungere, sia per i costi in aumento.

Tre afghani su 5 non possono curarsi. Dalle interviste raccolte dai ricercatori è emerso che 3 afghani su 5 non possono pagare le cure e per ottenerle spesso si indebitano chiedendo denaro in prestito o vendendo i propri beni.Un afghano su quattro invece deve posticipare o annullare un intervento chirurgico perché non può pagarlo, mentre uno su cinque ha mancato un appuntamento di controllo. Emergency quindi avverte che questa situazione porta a peggioramenti della salute, spesso fatali: oltre il 33% degli intervistati ha riportato una disabilità o un decesso dovuti al mancato accesso alle cure.