L’anniversario. Afghanistan, l’incubo taleban compie 4 anni. Le donne? Cancellate
Avvenire, 15 agosto 2025, di Lia Capuzzi
L’addio tumultuoso degli Usa il 15 agosto 2021 ha segnato uno spartiacque: nel Paese c’è un vero e proprio apartheid di genere, mentre l’assistenza umanitaria si è ridotta
«Come sto? Come in una prigione». Soraya, il nome è di fantasia per ragioni di sicurezza, 30 anni, era una docente di inglese in un liceo fino a undici mesi fa. Prima, ai tempi della Repubblica, lavorava in una scuola della sua comunità – che è preferibile non indicare –, a due ore a nord di Kabul. Ha continuato a farlo anche dopo il 15 agosto 2021, quando i taleban sono tornati al potere in seguito al ritiro precipitoso delle forze Usa e Nato. Poco dopo che l’ultimo aereo statunitense è partito lasciando dietro di sé migliaia di collaboratori locali e le loro famiglie, gli ex studenti coranici hanno vietato l’istruzione femminile dalla fine delle elementari. Soraya impartiva ugualmente lezioni alle studentesse delle superiori in una “scuola clandestina”, una delle tante cresciute nell’esteso “cono d’ombra” dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Un’area che il regime estende o restringe a propria discrezione. «Sapevano della nostra esistenza. Solo per un po’ ci hanno lasciato fare per non irritare il consiglio degli anziani che ci proteggeva. Poi, un anno fa sono cambiate le autorità locali. E un mese dopo hanno fatto irruzione ei hanno arrestati tutti». Soraya e le altre quattro colleghe sono state rilasciate nel giro di poche ore. I due colleghi maschi sono in cella da dieci mesi. «In fondo neanche noi siamo mai uscite. Nel quartiere tutti ci evitano. Pensano che siamo state violentate in carcere… Ora sopravvivo facendo piccoli oggetti di artigianato. Ma ho paura che tornino a prendermi.….».
Una società senza donne
La cancellazione della componente femminile dalla vita civile, come l’ha definita nel nuovo rapporto la missione Onu in Afghanistan (Unama), è senza dubbio il tratto più vistoso di quattro anni di potere taleban. Attraverso una sfilza di oltre un centinaio di editti – sempre temporanei e senza, di fatto, cambiare la Costituzione – il regime ha realizzato una vera e propria apartheid di genere: le donne sono escluse dalla pubblica amministrazione, da quasi tutte le professioni, dal sistema educativo. Non possono viaggiare se non accompagnate da un “mahram”, parente maschio, devono coprire corpo e volto, non possono entrare nei parchi e nemmeno parlare ad alta voce. Misure applicate con crescente intensità fino all’attuale giro di vite attuale, denunciato da Unama.
Il ritorno di Mosca
A quest’ultimo ha contribuito lo spazio conquistato dal regime in ambito internazionale. Al principio isolati e con 7 miliardi di dollari di fondi congelati nelle banche statunitensi, i taleban sono riusciti progressivamente a insinuarsi nelle sempre più evidenti fratture della comunità internazionale. In particolare, quella tra Occidente – o Occidenti – e asse russo-cinese. Cruciale la rottura dei legami con al-Qaeda e l’impegno contro il terrorismo internazionale, in particolare i rivali estremisti di Isis-K. E il “bottino” offerto: le terre rare che fanno gola al mondo, da Donald Trump a Xi Jinping. Lo scorso febbraio, il portavoce dei taleban Zabihullah Mujahid, ha dichiarato di avere avviato «contatti» diplomatici con 40 Paesi. Il ministero degli Esteri di Kabul, in realtà, nel sito ufficiale, restringe la lista a 29. Di fatto, poi, di questi, con una mossa inedita, solo la Russia di Vladimir Putin ha riconosciuto l’Emirato il mese scorso. A 46 anni dal ritiro dell’Armata Rossa dalla nazione, Mosca si è ritagliata un ruolo da protagonista nel “Grande gioco” afghano battendo sul tempo la Cina che – insieme Emirati, Uzbekistan e Pakistan – non ha mai chiuso l’ambasciata a Kabul. La scelta del Cremlino non sembra comunque destinata a restare isolata. India, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan hanno aperto alla collaborazione diplomatica e consolare con i taleban. L’imminente missione del presidente di Teheran, Masoud Pezeshkian, sarebbe la seconda di alto dopo quella del premier uzbeko Abdulla Aripov di un anno fa. Ad accelerare la svolta iraniana, la determinazione a ridurre la pressione dei rifugiati afghani: oltre 1,5 milioni sono stati rispediti indietro nell’ultimo anno, 250mila solo a giugno. Proprio il nodo migratorio sta causando mutamenti anche nell’orientamento europeo. Ufficialmente la linea non cambia. Retorica e condanne verbali a parte, però, la Germania ha appena siglato un accordo con cui accetta due inviati dell’Emirato per gestire i rimpatri mentre la Norvegia ha accettato una delegazione taleban all’ambasciata di Oslo. Pur senza una presenza fissa, Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Bulgaria hanno già concordato protocolli di liberazione. Perfino l’Onu ha ospitato un gruppo di osservatori alla Conferenza sul clima di Baku e, nel giugno 2024, complice lo smantellamento dei campi di papaveri da oppio, ha avuto a Doha il primo incontro formale con i rappresentanti del governo di fatto.
Le macerie della guerra
Il processo è, però, lento e i taleban – a differenza del vecchio detto afghano – non hanno più il tempo. Senza l’aiuto del mondo, da cui dipendeva per tre quarti il bilancio nazionale, l’economia è al collasso e 23 milioni di persone hanno necessità di assistenza umanitaria per sopravvivere. Tre afghani su cinque non possono pagare sono costretti a indebitarsi per avere accesso alle cure di base, come denuncia Emergency. «L’Afghanistan attuale è la cartina tornasole di cosa resta dopo decenni di conflitto», dice il direttore locale Dejan Panic. Dopo oltre mezzo secolo di scontro civile, i combattimenti sono finiti. La pace asfissiante dei taleban, però, è l’altra faccia della guerra.
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