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Tag: Talebani

Donne Insieme: nuova petizione del Cisda per le donne in Afghanistan

Casale News, 14 febbraio 2025

Sabato 15 febbraio, dalle 9.30 alle 18, presidio e letture per bambini in Piazza Mazzini

Il Collettivo Donne Insieme, che da qualche anno segue con assiduità le vicende dell’Afghanistan ed in particolare della condizione delle donne, si ripresenta con un presidio in piazza Mazzini sabato 15 febbraio dalle 9.30 alle 18 per promuovere la nuova petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere e per raccogliere fondi per il finanziamento dei progetti di sostegno già avviati negli anni scorsi.

In questi ultimi mesi il governo talebano ha aggiunto nuovi provvedimenti restrittivi delle possibilità di vita delle donne (le libertà e i diritti sono già del tutto negati, ora si può soltanto parlare di condizioni di sopravvivenza): è stato introdotto il divieto di aprire le finestre o addirittura l’ordine di murarle (sì, proprio così) per impedire alle donne di vedere cortili, cucine, pozzi dei vicini e altri luoghi frequentati da altre donne; è stato chiuso il corso di studi Ostetricia e medicina, per cui le donne non avranno più la possibilità di essere curate, non potendo in futuro rivolgersi a medici donna.

A fronte di questa situazione, un lungo elenco di paesi ha preso una decisa posizione di condanna del governo talebano, rivolgendosi alla Corte Internazionale di Giustizia e/o alla Corte Penale Internazionale: proprio quest’ultima ha richiesto un mandato di arresto internazionale per il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada e suoi collaboratori. Altri paesi invece, Europa inclusa, hanno accettato il confronto diplomatico diretto col governo fondamentalista, accogliendo le condizioni poste da quest’ultimo (escludere la presenza femminile dai negoziati ed escludere dai temi affrontati proprio la condizione delle donne)

La persecuzione sistematica delle donne da parte dei fondamentalisti talebani ha spinto il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne –afghane, con cui Donne Insieme collabora) a promuovere una petizione al Governo Italiano affinché sostenga alcune azioni e se ne faccia promotore presso le istituzioni internazionali:

– Riconosca l’apartheid di genere” come crimine contro l’umanità (si riferisce a violazioni sistematiche e istituzionalizzate contro le donne)

– Non venga dato riconoscimento di alcun tipo al regime fondamentalista talebano

– Venga dato invece sostegno e supporto alle voci democratiche antifondamentaliste che ancora resistono all’interno del Paese

Il presidio di Donne Insieme è finalizzato a raccogliere adesioni a questa petizione, ad informare sulla situazione delle donne e sulle azioni promosse a vari livelli.

Uno spazio sarà dedicato ai bambini, che potranno ascoltare la lettura di fiabe afghane dalle 10,30 alle 11,30.

La petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere si trova qui

Si può aderire come Associazione scrivendo a rete@cisda.it

Il SIGAR, l’organismo di controllo USA, lancia l’allarme sull’Afghanistan

Hammad Sarfraz,  The Express Tribune, 3 febbraio 2025

Gli aiuti esteri hanno fatto poco per frenare l’oppressione dei talebani o fermare la spirale discendente del paese

 

Dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti, miliardi di dollari in aiuti esteri sono stati riversati in Afghanistan, ma i talebani continuano a essere riluttanti a migliorare la governance, a combattere il terrorismo o a porre fine all’oppressione delle donne, ha avvertito un organismo di controllo statunitense.

Il paese dilaniato dalla guerra è invece sprofondato in una crisi ancora più profonda sotto il dominio dei talebani, secondo l’ultimo rapporto trimestrale dell’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR). La situazione, ha affermato l’ente di controllo, rimane disperata, con il gruppo militante che rafforza la sua presa sul potere ignorando le crescenti preoccupazioni per un’economia in difficoltà, diffuse violazioni dei diritti e la crescente minaccia del terrorismo.

Nel suo rapporto al Congresso, l’ispettore generale ha osservato che oltre 3,71 miliardi di dollari di aiuti statunitensi sono confluiti in Afghanistan dal 2021, con oltre il 64% dei fondi instradati attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) e l’Afghanistan Resilience Trust Fund gestito dalla Banca mondiale. Tuttavia, l’organismo di controllo ha avvertito che gli aiuti hanno fatto poco per mitigare le politiche repressive dei talebani o impedire il continuo declino del paese, sollevando nuove domande sull’efficacia del sostegno internazionale.

Le donne, che secondo l’ONU sono state cancellate dalla vita pubblica afghana sotto l’ultima iterazione del governo talebano, continuano ad affrontare gravi restrizioni, ha messo in guardia il rapporto SIGAR. L’istruzione secondaria per le ragazze rimane vietata e alle donne è proibito lavorare nella maggior parte dei settori, tra cui ONG e assistenza sanitaria. Il rapporto sottolinea anche la crescente difficoltà nella distribuzione degli aiuti umanitari, poiché le barriere imposte dai talebani impediscono che l’assistenza essenziale raggiunga coloro che ne hanno più bisogno.

Gli analisti notano che le politiche dei talebani presentano sorprendenti somiglianze con il loro primo governo degli anni ’90, nonostante anni di impegno internazionale e miliardi di aiuti volti a incoraggiare la moderazione. “I talebani afghani hanno gradualmente imposto restrizioni che ricordano il loro precedente regime”, ha affermato Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center, un think tank con sede a Washington. Ha aggiunto che né gli sforzi diplomatici né gli aiuti umanitari hanno temperato l’approccio intransigente del gruppo.

Preoccupazioni crescenti

Il rapporto dell’ispettore generale speciale documenta ulteriormente che nel 2022 gli Stati Uniti hanno trasferito 3,5 miliardi di dollari in asset congelati della banca centrale afghana a un fondo con sede in Svizzera, che ora vale quasi 4 miliardi di dollari. Tuttavia, i talebani, ancora non riconosciuti a livello internazionale e sotto sanzioni, non hanno accesso a questi fondi. L’ente di controllo statunitense per la ricostruzione afghana nota che il congelamento ha reso fragile il sistema bancario del paese e ne ha aggravato il collasso economico.

L’ultimo rapporto di supervisione porta alla luce anche un aumento del 40% negli attacchi ISIS-K nel 2024, mentre il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) e i suoi affiliati hanno effettuato più di 640 attacchi, un aumento del 25% rispetto all’anno precedente. Un assalto di dicembre da parte dei militanti del TTP ha ucciso 16 ufficiali della sicurezza nel Waziristan meridionale, spingendo Islamabad ai primi attacchi aerei transfrontalieri contro le forze talebane. Gli attacchi nella provincia di Paktika in Afghanistan hanno ucciso diversi comandanti del TTP e distrutto una struttura di addestramento.

Le valutazioni dell’intelligence suggeriscono che le aree controllate dai talebani fungono da centri operativi per gli estremisti, sollevando timori che l’Afghanistan stia di nuovo diventando un santuario per le organizzazioni terroristiche. Gli scontri di confine tra Pakistan e forze talebane sono aumentati e, in risposta, Islamabad ha deportato centinaia di migliaia di rifugiati afghani. Mentre aumentano le tensioni regionali, i rapporti indicano che i talebani continuano a fornire un passaggio sicuro per i combattenti del TTP, aggiungendosi alle crescenti preoccupazioni sul ruolo del paese nel panorama della sicurezza dell’Asia meridionale.

Ashok Swain, professore di pace e conflitto all’Università di Uppsala, ha sottolineato i legami di lunga data dei talebani con il terrorismo, osservando che queste connessioni rimangono parte integrante dell’identità del gruppo. “Storicamente, la loro identità è profondamente intrecciata con gli atti di terrorismo e la soppressione del dissenso attraverso la violenza”, ha spiegato.

Swain ha aggiunto che c’è scetticismo sulla volontà dei talebani di abbandonare queste tattiche, soprattutto alla luce delle loro recenti azioni. La fiducia, ha detto l’accademico svedese, è subordinata a cambiamenti osservabili nel comportamento per un periodo prolungato, combinati con misure concrete verso l’inclusività, la responsabilità e l’aderenza alle norme internazionali. Senza tali riforme, ha ammonito Swain, i talebani sembrano essere tornati a tattiche che supportano il terrorismo e aggravano i conflitti regionali.

Punto di svolta

La decisione del presidente Donald Trump di congelare gli aiuti esteri degli Stati Uniti per 90 giorni ha aggravato i problemi dell’Afghanistan, con le agenzie di soccorso che hanno avvertito che potrebbe spingere milioni di persone ancora più in profondità nella crisi. Mentre la sospensione è pensata per rivalutare la spesa, rischia di paralizzare gli sforzi di aiuto in Afghanistan, dove l’economia è già in caduta libera. L’ONU ha avvertito che un congelamento prolungato potrebbe innescare una carestia di massa e il crollo dei servizi di base. Secondo l’ultima valutazione del SIGAR, circa 16,8 milioni di afghani hanno bisogno di assistenza urgente. Tuttavia, le restrizioni imposte dai talebani continuano a bloccare la distribuzione degli aiuti, peggiorando la carenza di cibo e mettendo a dura prova l’assistenza sanitaria. Gli ospedali, ha avvertito il rapporto, stanno esaurendo le scorte, la malnutrizione infantile è in aumento e la diminuzione dell’accesso all’acqua pulita sta alimentando la diffusione delle malattie.

“Il congelamento degli aiuti statunitensi acuirà le divisioni all’interno dei talebani, peggiorerà la crisi umanitaria e accrescerà la minaccia di attacchi da parte di gruppi terroristici attivi”, ha ammonito Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center.

Nel complesso, il rapporto trimestrale del SIGAR dipinge un quadro desolante del futuro dell’Afghanistan sotto i talebani. Nel suo documento di 133 pagine, l’ente di controllo statunitense evidenzia la priorità del regime al controllo sulla governance, con scarsa attenzione alla ricostruzione del paese o al miglioramento delle condizioni di vita della sua gente. “I talebani non hanno mostrato alcuna capacità, o volontà, di governare in modo efficace”, afferma il rapporto, aggiungendo che la situazione rimane di repressione, fame e incertezza.

Herat: i dipendenti delle NU devono farsi crescere la barba

Afghanistan International, 18 dicembre 2024

Mentre l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) nel suo Report di novembre 2024 – di cui una sintesi nell’articolo – segnala i notevoli impedimenti e le restrizioni che i funzionari talebani pongono alle operazioni umanitarie dell’Onu, fonti interne a questo ente hanno comunicato ad AMU TV che il Dipartimento vizi e virtù di Herat ha ordinato ai dipendenti maschi delle Nazioni Unite di astenersi dal presentarsi al lavoro senza barba, pena la reclusione

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha segnalato che nel mese di novembre di quest’anno sono state registrate 164 interruzioni degli aiuti in Afghanistan, con un aumento del 56% rispetto al mese precedente.

L’OCHA ha aggiunto che il 99% di questi interventi è stato attuato da funzionari talebani.

Mercoledì (18 dicembre) l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’assistenza umanitaria (OCHA) ha pubblicato un nuovo rapporto sugli ostacoli all’accesso umanitario in Afghanistan a novembre.

Il rapporto afferma che le restrizioni di accesso hanno portato alla sospensione temporanea di 72 progetti umanitari e alla chiusura definitiva di due progetti, mentre anche un centro umanitario è stato temporaneamente chiuso durante questo periodo.

L’OCHA ha aggiunto che questi incidenti si sono verificati principalmente nelle regioni meridionali, centrali e occidentali. Le statistiche mostrano che questi casi sono aumentati del 56% rispetto al mese precedente e dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2023.

Secondo il rapporto, durante questo periodo sono stati registrati casi di interruzione di interventi pianificati, richieste di un elenco di dipendenti e di informazioni sensibili, interferenze nel processo di reclutamento, restrizioni alla copertura delle dipendenti e impedimento alle donne di accedere ai servizi.

Il rapporto mostra inoltre che la violenza contro il personale, le proprietà e le strutture umanitarie è aumentata del 37%, con sei membri dello staff arrestati, due casi di violenza fisica e quattro casi di minacce segnalati il ​​mese scorso.

L’ONU ha aggiunto che queste restrizioni sono state di ostacolo alla fornitura di aiuti umanitari.

Già in precedenza erano circolate segnalazioni di interferenze dei talebani negli affari degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. A questo proposito, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) aveva annunciato che i talebani avevano arrestato 113 dipendenti dell’organizzazione nella prima metà del 2023.

Cosa significa per l’Afghanistan la sospensione degli aiuti Usa?

Massud Saifullah, DW, 5 febbraio 2025

L’Afghanistan governato dai talebani non ha le risorse per fornire alla sua popolazione servizi pubblici di base. Gli esperti avvertono che un taglio permanente degli aiuti degli Stati Uniti potrebbe avere conseguenze devastanti per il popolo afghano

Le misure prese dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per sospendere gli aiuti allo sviluppo esteri degli Stati Uniti e ridurre al contempo le operazioni dell’USAID rischiano di avere un impatto significativo sull’Afghanistan, che dipende dall’aiuto esterno per i servizi essenziali.

Nonostante il ritiro delle truppe e di altri funzionari dall’Afghanistan nell’agosto 2021, gli Stati Uniti sono rimasti il ​​principale donatore del Paese.

Secondo un rapporto dell’ufficio dell’Ispettorato generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan, o SIGAR, Washington ha “stanziato o altrimenti reso disponibili più di 21 miliardi di dollari [20,2 miliardi di euro] in assistenza all’Afghanistan e ai rifugiati afghani” da quando i talebani hanno preso il controllo totale del paese.

Gli Stati Uniti sostengono che i fondi per gli aiuti sono destinati al popolo afghano, con misure di salvaguardia volte a impedire ai talebani di accedervi.

I talebani affrontano il “caos”

Tuttavia, i talebani hanno beneficiato indirettamente del flusso di dollari USA, che ha contribuito a stabilizzare la valuta afghana e ad attenuare il rischio di una rapida inflazione. La sospensione degli aiuti USA minaccia di sconvolgere questo fragile equilibrio.

“Il blocco degli aiuti esteri degli Stati Uniti, compresi i finanziamenti dell’USAID, ha causato il caos tra i talebani”, ha detto a DW Ghaus Janbaz, un ex diplomatico afghano.

Molti esperti sostengono che gli aiuti esteri all’Afghanistan, tra cui le centinaia di milioni di dollari forniti ogni anno dagli Stati Uniti, abbiano inavvertitamente aiutato i talebani a mantenere il controllo sul paese.

Con l’afflusso di fondi in calo, ritengono che i talebani potrebbero soccombere alle richieste internazionali o scontrarsi con una più forte opposizione all’interno del Paese.

“Negli ultimi tre anni, i talebani non sono riusciti a creare un’economia autosufficiente, il che li ha resi fortemente dipendenti da tali aiuti”, ha aggiunto Janbaz.

Il popolo afghano pagherà il prezzo, affermano gli attivisti

Da quando hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, i talebani hanno sistematicamente negato alle donne i diritti fondamentali , tra cui l’istruzione e il lavoro fuori casa.

Sotto il dominio dei talebani, alle donne afghane è proibito mostrare il proprio volto in pubblico. La questione dei diritti delle donne è rimasta un ostacolo importante per qualsiasi paese che stabilisca relazioni ufficiali con i talebani.

Di conseguenza, nessun paese al mondo ha riconosciuto formalmente i Talebani come governo legittimo dell’Afghanistan.

I talebani non sono riusciti a creare un governo inclusivo né a introdurre un processo che consenta ai cittadini afghani di partecipare alla vita pubblica.

Mentre si moltiplicano le richieste di aumentare la pressione sui talebani, alcuni mettono in guardia dal fatto che tagliare gli aiuti vitali non farà che aumentare le sofferenze del popolo afghano.

“Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, 26 milioni di persone in Afghanistan dipendono dagli aiuti esteri per sopravvivere”, ha affermato Wazhma Frogh, un’attivista per i diritti delle donne afghane che vive all’estero e collabora con le organizzazioni umanitarie ancora attive in Afghanistan.

“Se le organizzazioni umanitarie perdessero l’accesso ai fondi, non sarebbero in grado di fornire nemmeno l’assistenza più elementare”, ha detto a DW.

“I talebani non hanno alcun programma per il supporto o lo sviluppo del popolo afghano. L’unica assistenza proviene dall’ONU, dalle agenzie internazionali e dalle organizzazioni umanitarie afghane”, ha aggiunto, avvertendo che la decisione di Trump di tagliare gli aiuti peggiorerà significativamente le condizioni per i comuni afghani.

Nessun piano di Trump per l’Afghanistan?

La riduzione degli aiuti all’Afghanistan è il risultato dei drastici ordini esecutivi del presidente Trump, che non erano specificamente mirati all’Afghanistan ma agli aiuti allo sviluppo nel loro complesso.

Al momento l’Afghanistan sembra essere ai margini dell’agenda di politica estera di Trump, mentre l’attenzione si concentra sui conflitti in Medio Oriente e in Ucraina.

Il 4 febbraio, durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, un giornalista afghano ha chiesto a Trump quali fossero i suoi piani per l’Afghanistan.

Lui rispose che non riusciva a capire “il suo splendido accento”, lasciando poco chiaro se non fosse riuscito davvero a comprendere la domanda o se la stesse del tutto evitando.

“Non credo che l’amministrazione Trump abbia ancora un piano per l’Afghanistan”, ha affermato Frogh.

Tuttavia, Trump si è espresso a gran voce riguardo alle richieste che fa ai talebani, in particolare la restituzione dell’equipaggiamento militare lasciato dagli Stati Uniti e il controllo della base aerea di Bagram, che secondo lui è ora sotto l’influenza cinese, affermazione che i talebani hanno negato.

Secondo l’ex diplomatico Janbaz, queste dichiarazioni non riflettono una concreta strategia degli Stati Uniti nei confronti dell’Afghanistan, ma rientrano piuttosto nella retorica della campagna elettorale di Trump.

“Il tempo rivelerà come Trump gestirà la situazione in Afghanistan, ma ciò che è chiaro è che il suo approccio non rispecchierà quello della precedente amministrazione”, ha concluso.

A cura di: Wesley Rahn

Il Pakistan costringerà decine di migliaia di rifugiati afghani a lasciare la capitale

DiZia ur-Rehman, The New York Times, 7 febbraio 2025

L’ordine, che dà agli afghani tempo fino al 31 marzo per recarsi altrove in Pakistan, è arrivato subito dopo la sospensione delle ammissioni di rifugiati negli Stati Uniti da parte del presidente Trump

Decine di migliaia di rifugiati afghani che si sono radunati nella regione della capitale pakistana per cercare di essere reinsediati in altri paesi hanno ricevuto l’ordine di trasferirsi altrove in Pakistan entro il 31 marzo.

Per fare pressione sulle nazioni occidentali

I rifugiati sono arrivati ​​in gran numero nella capitale, Islamabad, e nella vicina Rawalpindi a causa delle ambasciate e delle agenzie per i rifugiati che vi hanno sede. Costringerli ad andare altrove nel paese ha lo scopo di fare pressione sulle nazioni occidentali, compresi gli Stati Uniti, affinché li accolgano rapidamente.

L’annuncio del governo pakistano, diffuso la scorsa settimana, affermava che i rifugiati afghani che non fossero riusciti a trovare un paese che li accogliesse sarebbero stati deportati nell’Afghanistan governato dai talebani, senza tuttavia specificare i tempi necessari dopo la scadenza del 31 marzo.

L’ordine ha aumentato la paura e l’incertezza affrontate dai rifugiati, in particolare i 15.000 che avevano fatto domanda di reinsediamento negli Stati Uniti. Giorni prima, il presidente Trump aveva messo in dubbio il destino di quegli afghani con un ordine esecutivo che sospendeva tutte le ammissioni di rifugiati negli Stati Uniti.

Molti di quegli afghani lavoravano con la missione guidata dagli Stati Uniti nel loro paese, o con ONG o altre organizzazioni finanziate dai paesi occidentali, prima che i talebani prendessero il potere nell’agosto 2021. Altri sono familiari di afghani che lo hanno fatto. I sostenitori di questi rifugiati hanno accusato il governo degli Stati Uniti di aver tradito gli alleati in tempo di guerra bloccando loro la strada verso il reinsediamento.

Rischiano la persecuzione talebana

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno affermato mercoledì che molti dei rifugiati minacciati di deportazione, in particolare membri di gruppi di minoranze etniche e religiose, donne e ragazze, giornalisti, attivisti per i diritti umani e artisti, potrebbero essere sottoposti a persecuzione da parte del governo talebano. In una dichiarazione congiunta, hanno esortato il Pakistan a “implementare qualsiasi misura di ricollocazione tenendo in debita considerazione gli standard dei diritti umani”.

Sara Ahmadi, 26 anni, ex studentessa di giornalismo all’Università di Kabul, ha detto che la sua famiglia temeva di essere deportata in Afghanistan, “proprio il posto per il quale abbiamo rischiato tutto” da quando l’amministrazione Trump ha bloccato le ammissioni dei rifugiati.

“Quella paura sta diventando realtà”, ha detto la signora Ahmadi in un’intervista telefonica. Sua madre aveva lavorato a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, per Children in Crisis, una ONG finanziata dagli Stati Uniti. La loro famiglia di sei membri è arrivata a Islamabad nel novembre 2021, sperando di stabilirsi in seguito negli Stati Uniti.

 

Radio Begum: il silenzio assordante dell’Occidente

Antonella Mariani, Avvenire, 6 febbraio 2025

“Avvenire” ben interpreta lo sgomento e l’interrogativo di tutti davanti alla chiusura di Radio Begum nel silenzio dell’Occidente: a chi importa?

«All’inizio ci hanno incoraggiate, dicevano che poiché non potevano garantire la frequenza alle ragazze era utile che la scuola arrivasse nelle loro case. E abbiamo iniziato. Non ci hanno fermato». Così raccontava Hamida Aman ad Avvenire nell’aprile 2024. Poco meno di un anno dopo è accaduto: le hanno fermate. La notizia è di martedì, ma come spesso accade quando si tratta dell’Afghanistan, nei media internazionali non ha avuto il rilievo che avrebbe richiesto la sua rilevanza. Il complotto del silenzio, che ha violentemente zittito Radio Begum, l’unica radio e televisione di donne per le donne nell’Emirato islamico, ha complici anche in Occidente.

Martedì, dunque, un drappello di ufficiali dell’intelligence, assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura, ha fatto irruzione nella sede di Kabul. Gli uomini hanno sequestrato computer, telefoni, hard disk, e arrestato due dipendenti maschi. Le giornaliste, le psicologhe, le teologhe, le educatrici e le dottoresse che dai microfoni dell’emittente nata l’8 marzo 2021 e finanziata anche dall’Unesco (a proposito, ecco a cosa servono i “carrozzoni” da cui Trump sta scendendo precipitosamente: a dare voce a chi non ce l’ha più) non erano presenti negli studi radiofonici e televisivi, perché nemmeno i media sono stati risparmiati dall’odio misogino del regime integralista afghano. Ma lavoravano da casa e resistevano, come tutte le ragazze e le donne in quella prigione a cielo aperto che è diventato l’Afghanistan dal 15 agosto 2021, quando i taleban si sono impadroniti del potere.

L’unico contatto con la realtà

Radio Begum, che da un anno era diventata anche una tv satellitare, trasmetteva, in parte da Parigi, le lezioni previste dai programmi scolastici ufficiali nelle due lingue più diffuse, il pashtun e il dari. In un Paese in cui l’analfabetismo femminile è all’80 per cento contro il 51 per cento di quello maschile, la radio era una opportunità unica per le ragazze di continuare a imparare e per le donne adulte di aprire la mente. Radio Begum, che per volontà della fondatrice Hamida Aman, giornalista afghana-svizzera residente in Francia, aveva preso il nome della nonna – “Principessa” –, non diffondeva solo istruzione, ma attraverso le 18 antenne installate in 20 delle 34 province afghane raggiungeva tre quarti del Paese, trasmetteva dibattiti sull’educazione dei bambini, sui rapporti di coppia, su cosa prevede l’islam rispetto all’età del matrimonio, sulla salute fisica e mentale, e approfittando dei minimi spazi che gli occhiuti controllori concedevano, forniva nozioni utili alle donne e alle ragazze che per lo più vivono isolate in casa, aprendo agli interventi delle ascoltatrici da casa.

Che infatti chiamavano numerose. Hamida Aman aveva raccontato ad Avvenire che una delle ascoltatrici più assidue era Fatima, 16enne di Bamyan, cieca dalla nascita e praticamente analfabeta. «Non aveva mai frequentato scuole speciali, né imparato l’alfabeto Braille. Ora non si perde una delle nostre lezioni, e ci ha detto che così ha la sensazione di andare a scuola. La radio è il suo unico contatto con la realtà».

Tutto finito?

Tutto finito? Se la parola più citata dell’anno è speranza, allora l’augurio è che sia solo una prova di forza, come già in passato era accaduto con alcuni programmi che erano stati sospesi o cancellati dopo il mancato imprimatur dei taleban. Ma questa volta ci sono gli arresti, ci sono le accuse di aver abusato della licenza diffondendo contenuti di reti televisive straniere: un’accusa pesantissima per chi sostiene che tutto ciò che viene dall’esterno è fonte di corruzione.

Restiamo con le nostre domande aperte: a chi davvero interessa che Radio Begum sia stata chiusa? Al silenzio imposto a una delle più importanti emittenti indipendenti in Afghanistan corrisponde l’assordante silenzio dell’Occidente. A parte le doverose dichiarazione di Reporter senza frontiere e dell’Associazione per la protezione dei giornalisti afghani, che lamentano il recente giro di vite alla libertà (sic) di stampa nel Paese (nel 2024 sono state chiuse 12 testate, con numerosi arresti arbitrari), a chi davvero interessa che una emittente di donne per le donne sia stata silenziata? Domanda senza risposta, come quella d’altronde che la giornalista afghana Nazira Karima ha posto l’altro ieri al presidente Donald Trump sull’esistenza di un piano per il futuro del suo popolo. Ed ecco la replica: «Lei ha una bella voce e un bell’accento. L’unico problema è che non capisco una parola di quello che dice. Ma le dirò questo: buona fortuna. Vivi in pace». C’è in gioco davvero più che una radio tv. C’è in gioco il destino di metà della popolazione di un intero Paese. C’è in gioco, in fondo, l’umanità di ciascuno di noi.

 

La vita di una bambina ceduta in risarcimento

Shamsia, Zan Times, 3 febbraio 2025

Questa è la storia di una bambina che è stato data via come risarcimento e che ora vende penne per le strade di Kabul per sopravvivere. È stata scritta da una giornalista con lo pseudonimo di Shamsia.

Il mio cuore batte forte ogni giorno quando esco di casa e mi dirigo a Pul-e-Surkh, vicino all’Università di Kabul. Temo che i talebani possano fermarsi accanto a me e trascinarmi di nuovo nel loro veicolo. Sono distrutta per essere stata imprigionata dai talebani e per aver dovuto spiegare perché lavoro come venditrice ambulante. La prima volta che mi hanno arrestata, sono riuscita a liberarmi piangendo e supplicando, ora mi nascondo dietro i muri e nei vicoli di Pul-e-Surkh, aspettando che passino i loro veicoli. Mi copro il viso con un velo nero prima di scendere in strada per vendere penne.

So che il mio aspetto rende le persone sospette, pensano che io sia una mendicante. Vendere penne è l’unico lavoro che posso fare al momento. Vorrei avere un lavoro migliore, ma devo portare il cibo a casa e comprare le medicine per mia suocera.

Ogni giorno alle sei del mattino cammino da Company (un quartiere di Kabul) a Pul-e-Surkh. Non posso permettermi il biglietto dell’autobus e vendo penne lungo la strada. Alle sei di sera torno a casa a piedi. Quando dico “casa”, potresti immaginare una casa con un tetto, finestre e porte, ma invece viviamo in una tenda. In inverno, non abbiamo abbastanza carburante per stare al caldo. Mio marito e io usiamo il nostro magro reddito per soddisfare i bisogni di base. Riusciamo a malapena a comprare olio, riso e farina per non morire di fame. Mia suocera prende i miei guadagni e a volte mi dà un po’ di soldi per comprare una sciarpa o dei vestiti. È malata, ma non possiamo permetterci un medico e nessuno la curerà gratis.

Una bambina in cambio

Avevo 12 anni quando mi hanno data in sposa, ora ne ho 14. All’inizio non avevo idea di cosa significasse il matrimonio. Non avrei mai immaginato che sarei stata separata dalla mia famiglia così giovane, ma la mia famiglia non aveva scelta. Mio zio ha avuto una relazione con la sorella di mio marito e i due sono scappati insieme. In cambio della loro figlia che era scappata con mio zio, la famiglia di mio marito ha preteso me.

La mia famiglia mi ha dato via come risarcimento. Mio zio e mia cognata vivono in un posto sconosciuto, ma io sono qui, a pagare il prezzo delle loro azioni. A casa non ho autorità: faccio tutto quello che gli altri mi dicono di fare.

Anche mio marito è vittima della decisione di sua sorella. Eravamo entrambi bambini e ora ci siamo sposati controvoglia. Anche mio marito è un venditore di penne. A volte andiamo insieme al mercato, altre volte lavora a Sar-e-Kotal. A volte, invece di vendere penne, vende acqua.

Compro penne a cinque afghani l’una e le vendo a 10. I miei guadagni giornalieri sono imprevedibili. A volte vendo un pacchetto completo di 12 penne, altre volte ne vendo molto meno. Nei giorni in cui vendo qualche penna in più, torno a casa più felice.

La paura dei talebani

Dopo che i talebani mi hanno arrestato per aver lavorato per strada, ero terrorizzata e non volevo più lavorare. Sono rimasta a casa per qualche giorno, ma mia suocera mi ha detto che dovevo lavorare, altrimenti saremmo rimasti con la fame. Ho dovuto tornare in strada. Ora, sono estremamente attenta, anche se la paura di essere arrestata e imprigionata è sempre con me. Non so se è maggiore la preoccupazione di mettere il cibo in tavola o di come scappare dalla prigione dei talebani.

Quando le forze talebane mi hanno arrestata vicino all’Università di Kabul mi hanno portata in un luogo sconosciuto. Anche mio marito e diversi altri bambini lavoratori sono stati trattenuti. Siamo rimasti sotto custodia per due giorni. Ci hanno dato pochissimo cibo e avevamo costantemente fame. Alcuni bambini sono stati picchiati.

“Non lavorate. Restate a casa. Vi aiuteremo”, ci hanno detto i talebani. Ma non ci hanno aiutato per niente. Invece, ci hanno fatto promettere che non avremmo mai più lavorato e hanno minacciato che ci avrebbero torturati e imprigionati se fossimo stati sorpresi per strada una seconda volta.

Durante l’interrogatorio, ho implorato e pianto, spiegando la mia disperazione per il fatto che avevo una persona malata a casa e nessuno che la nutrisse o si prendesse cura di lei. Dopo due giorni, mi hanno rilasciata ma hanno tenuto mio marito in prigione.

Sogno di diventare mamma un giorno. Non ho ancora pensato a quante figlie o figli vorrei avere, ma mia suocera vuole che diventi mamma presto. Mi manca sempre mia madre. Non mi è permesso andare a trovare a casa i miei genitori, che sono lontani, ma a volte lei viene a trovarmi di nascosto.

Ogni volta che vedo bambini che vanno a scuola, vorrei essere uno di loro. Più di ogni altra cosa, vorrei diventare un medico. Non sono mai andata a scuola, ma so che l’istruzione è una cosa molto buona.

Vorrei che nessun’altra ragazza dovesse subire la mia stessa sorte. Spero che nessun’altra venga data via come risarcimento come è successo a me.

I talebani chiudono la radio delle donne afghane

ANSA, 3 febbraio 2025

Un comunicato Ansa informa che i talebani hanno chiuso Radio Begun a Kabul irrompendo in forma plateale e arrestando due dipendenti

La scure dei talebani si abbatte ancora una volta sulle donne afghane, privandole di una voce importante.

Radio Begum, emittente che promuove l’istruzione e l’empowerment femminile raggiungendo con le sue trasmissioni quasi tutto l’Afghanistan, è stata costretta a chiudere. E’ stata un’operazione plateale, con un’irruzione nella sede di Kabul, che ha portato anche all’arresto di due dipendenti. L’accusa, tra le altre cose, è di aver collaborato con delle tv all’estero: una cosa ritenuta inammissibile in un Paese che da oltre tre anni è tornato ad essere governato con la più oscurantista interpretazione della sharia.

Sono stati i vertici di Radio Begum a denunciare il blitz dei talebani che ha portato all’oscuramento della programmazione. “Ufficiali della Direzione generale dell’intelligence assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura hanno fatto irruzione nel nostro complesso a Kabul”, ha riferito l’emittente, aggiungendo che le autorità hanno arrestato due dipendenti maschi “che non ricoprono alcuna posizione dirigenziale” e sequestrato computer, dischi rigidi e telefoni. Non è stato aggiunto nient’altro, per non compromettere la sicurezza dei membri del personale trattenuti, ma è stato lanciato un appello alle autorità a “prendersene cura e a rilasciarli il prima possibile”.

La versione dei talebani è che Bagum si è resa responsabile di “molteplici violazioni, inclusa la fornitura di materiali e programmi ad una stazione televisiva all’estero” e la trasmissione di contenuti di emittenti straniere. Un “uso improprio della licenza” che porterà ad una “sospensione” a tempo indefinito in attesa di ulteriori indagini.

Radio Begum era stata fondata l’8 marzo 2021, in occasione della giornata internazionale della donna, dall’imprenditrice e giornalista Hamida Aman. Con una programmazione 24 ore su 24, 7 giorni su 7, che includeva corsi educativi per studenti delle scuole medie e superiori, in particolare rivolti alle ragazze a cui era stato impedito l’accesso all’istruzione formale dal ritorno al potere dei talebani nell’agosto dello stesso anno. Queste lezioni venivano trasmesse in dari al mattino e in pashtu al pomeriggio, le due lingue ufficiali dell’Afghanistan. Nel 2024, tra l’altro, era stata lanciata Begum Tv, un canale satellitare con sede a Parigi finanziato in parte dal Malala Fund, l’organizzazione nata su impulso dell’attivista pachistana Nobel per la Pace.

Radio Begum ha sempre sostenuto di non essere mai stata coinvolta in alcuna attività politica e di essere semplicemente “impegnata a servire il popolo afghano e più specificamente le donne afghane”. E tuttavia, l’emancipazione femminile è di per sé una violazione della legge islamica, secondo i talebani, che hanno imposto ampie restrizioni alle donne, escludendole dalla vita pubblica del ricostituito Emirato. Un “apartheid di genere”, è la denuncia dell’Onu, aggravato dalla stretta più generale contro la libertà di stampa, che secondo i gruppi di difesa dei diritti umani ha fatto precipitare l’Afghanistan nel più completo isolamento internazionale.

La normalizzazione dell’oppressione sotto il regime talebano

8Am Media, 3 febbraio 2025

“Noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive”, mentre l’oppressione diventa normale nel silenzio degli uomini

In questo preciso momento, mentre inizio a scrivere queste righe, sono trascorsi 1.260 giorni da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Ma questi 1.260 giorni non sono più solo un numero: sono una catena, che diventa più pesante di momento in momento attorno al collo del nostro tempo e della nostra stessa esistenza.

Questi giorni raccontano la lenta distruzione di un’intera generazione di donne e ragazze, una generazione che non ha vissuto sotto l’ombra del terrore ma è semplicemente sopravvissuta. Giorni che, invece di assistere allo sbocciare dei sogni, hanno solo visto il loro crollo. Un tempo in cui le aspirazioni non sono state perseguite ma seppellite, una per una.

Questi giorni sono incisi come una fiamma spenta nei cuori di una generazione, una generazione le cui voci di speranza, con ogni frustata sui loro corpi e sulle loro anime, si sono appassite in sussurri senza vita. Per 1.260 giorni, il tempo non è passato per loro né si è fermato; ha solo scavato nuove ferite nel tessuto dei loro spiriti. Questi giorni testimoniano la graduale morte della speranza e la silenziosa sepoltura di grida e voci mai ascoltate.

Talebani è sinonimo di orrore

Abbiamo sempre saputo che i talebani erano un gruppo terroristico a tutti gli effetti, allevato nelle madrase del Pakistan, non per costruire, ma per distruggere. Uomini rozzi, con la barba folta e dall’aspetto spaventoso, fucili a tracolla, crudeltà sfacciata, che frustavano le donne in piazza Spinzar a Kabul con selvaggia brutalità. Nella nostra mente, l’immagine dei talebani è sempre stata sinonimo di orrore. Come si potrebbe non temere un gruppo che si lega le bombe al corpo con precisione esperta, solo per farsi esplodere e fare a pezzi centinaia di vite innocenti?

Ora, da tre anni, viviamo sotto lo stesso incubo che un tempo definiva le nostre peggiori paure. Se questo può anche essere chiamato “vivere”. Perché noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive. Chissà? Forse nel loro prossimo decreto, persino respirare sarà proibito “fino a nuovo avviso”.

 

Un regime costruito sulle rovine della dignità umana

Per tre anni, siamo state sistematicamente spogliate della nostra umanità. Scuola, università, lavoro, viaggi, voce, visione, finestre e persino la nostra stessa identità ci sono stati tolti. Siamo state imprigionate nelle nostre stesse case, le nostre voci messe a tacere. E quando abbiamo osato protestare, ci hanno frustato senza pietà, selvaggiamente, imperdonabilmente. Per tre anni, stupro, umiliazione e oppressione non sono stati semplici incidenti; sono stati politica, una strategia deliberata per distruggere lo spirito collettivo, estinguere la speranza e fortificare un regime costruito esclusivamente sulle rovine della dignità umana.

E tuttavia, attraverso tutto questo, sono le donne che hanno tenuto duro in questo campo di distruzione. Donne che si sono inginocchiate davanti ai corpi senza vita dei loro sogni, le loro lacrime e le loro urla hanno messo a nudo la loro impotenza di fronte a un mondo a cui semplicemente non importa.

Non hanno solo protestato. Hanno pagato il prezzo. Con la prigionia, con le frustate, con il loro sacrificio. Sono le donne che si svegliano ogni mattina con il suono dei loro sogni che crollano intorno a loro e ogni notte sono costrette a seppellire le loro aspirazioni nel silenzio soffocante di questa terra oscura.

Un vergognoso silenzio

Ma il dolore non deriva solo dai mostri misogini che si definiscono un governo. No, questo incubo è più grande di un regime. Con l’arrivo di queste bestie, risentimenti sepolti da tempo, ignoranza radicata e misoginia nascosta nel tessuto stesso della società sono emersi. È come se la loro presenza avesse dato una licenza, un permesso distorto a una società che aveva sempre considerato le donne inferiori, per metà viste, per metà ignorate. E ora, apertamente, infligge le sue ferite ai loro corpi e alle loro anime.

Eppure, loro resistono. Donne che sono state abbandonate dalle loro case, dalle loro comunità e persino dalla storia stessa. Sole. Ma orgogliose. Sfidanti di fronte a un’oppressione così grande che ha annegato il mondo in un vergognoso silenzio.

Solo pochi giorni fa, le grida disperate della figlia del nostro vicino risuonavano tra le pareti della loro casa mentre suo padre la picchiava. La chiamerò Farah. Farah era all’undicesimo anno quando arrivarono i talebani. Era una ragazza piena di ambizione, traboccante di sogni, sogni abbastanza grandi da creare un mondo completamente nuovo. Voleva diventare una scrittrice. Aveva imparato a memoria ogni libro di Elif Shafak e Mahmoud Dowlatabadi.

Ma i sogni di Farah furono bruciati, letteralmente. I suoi libri dati alle fiamme. Fu picchiata fino alla sottomissione e costretta a sposare un uomo vedovo, la cui unica qualifica era la sua ricchezza, un uomo che l’aveva trascinata da un mondo di sogni alla schiavitù di una vita imposta. E quando la gente protestò contro la decisione di suo padre, lui ebbe una sola risposta: “Le scuole sono chiuse. Di questi tempi, tenere una figlia nubile è difficile”.

 

L’oppressione è diventata ordinaria

La storia di Farah, per quanto amara e tragica, non sembra più nemmeno un evento degno di nota. Nella realtà soffocante che governa la vita delle donne qui, storie come la sua sono diventate insignificanti. Ogni giorno, centinaia di storie del genere, scritte e non scritte, si dipanano, racconti che, in un altro tempo, avrebbero acceso la rabbia, avrebbero fatto piangere. Ma ora sono diventati solo un’altra parte della routine quotidiana di questa terra.

Come disse una volta Hannah Arendt: “La più grande vittoria degli oppressori è quella di normalizzare l’oppressione”. E qui, nella terra di Farah, l’oppressione non ha più bisogno di giustificazioni. L’ingiustizia cammina per le strade, respira nelle case e si annida nelle menti. Quando l’oppressione diventa ordinaria, nessuno urla più. E così, la storia di Farah, come le storie di innumerevoli altri, è sepolta in quello stesso silenzio mortale. Un silenzio che non riflette altro che la morte dell’umanità stessa.

 

Dentro ogni uomo un talebano nascosto

Ogni volta che abbiamo provato a parlare del silenzio degli uomini di fronte alla crudeltà dei talebani verso le donne, le nostre voci sono state strozzate prima ancora di poter uscire dalle nostre gole. Ci hanno detto: “No, non avete il diritto di dire queste cose”. Hanno sostenuto: “Se gli uomini protestano, verranno uccisi”. Alcuni, persino con orgoglio, hanno detto: “Il semplice fatto che un uomo permetta alla sorella o alla moglie di uscire e alzare la voce è di per sé un atto di sostegno”.

Ma perché? Perché la responsabilità è stata così drasticamente ridotta? Perché l’aspettativa di una decenza umana di base è stata abbassata a un livello così spaventoso? Se domani i talebani dovessero imporre a tutta la società gli stessi decreti che hanno cancellato le donne dalla vita pubblica, questo silenzio e questa indifferenza continuerebbero? No. Questo silenzio non è solo paura. Questo silenzio ha radici più profonde. È radicato nell’accettazione, nella normalizzazione, in un talebano nascosto che ha sempre vissuto nei cuori della maggior parte degli uomini in questa società. Perché nessuno lo dice? Perché nessuno ammette che la maggior parte delle persone in questa società porta dentro di sé un talebano silenzioso e nascosto? Un talebano senza pistola, senza decreto, uno che, attraverso il silenzio e la complicità, spiana la strada stessa dell’oppressione.

I divieti talebani limitano le vaccinazioni antipolio

Habib Mohammadi, Amu TV, 3 febbraio 2025

Il divieto dei talebani sulle vaccinazioni porta a porta contro la poliomielite è collegato all’aumento dei casi

Secondo un nuovo rapporto dell’Afghanistan Analysts Network (AAN), la decisione dei talebani di vietare la vaccinazione porta a porta contro la poliomielite in Afghanistan ha contribuito all’aumento dei casi segnalati di malattia.

Il rapporto afferma che, dopo aver sospeso per due volte il programma nazionale di vaccinazione contro la poliomielite nel 2024, i talebani hanno ripreso la campagna per i bambini sotto i cinque anni a fine ottobre, ma hanno limitato le vaccinazioni alle moschee e ai centri dei villaggi, anziché consentire agli operatori sanitari di visitare le case.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha registrato nel 2024 in Afghanistan 25 casi di poliomielite, il numero più alto in quattro anni. Tuttavia, un portavoce del ministero della Salute dei Talebani l’ha negato, affermando: “Nessun caso di poliomielite è stato registrato nel Paese”.

Difficile raggiungere tutti i bambini

Il rapporto AAN, redatto da Jelena Bjelica e Nur Khan Himmat, include interviste ai genitori in alcune delle 16 province interessate alla vaccinazione antipolio in ottobre e novembre. Molti hanno affermato che il nuovo approccio vaccinale, limitato ai luoghi di ritrovo pubblici, ha reso più difficile garantire che tutti i bambini ricevano il vaccino.

Un padre ha raccontato di aver rischiato di perdersi del tutto la campagna vaccinale.

“Mio fratello era in visita e mi ha detto che i vaccinatori antipolio stavano vaccinando i bambini di fronte alla moschea. Gli ho chiesto di aiutarmi a portare i miei due figli. Se non ci fosse stato, non avrei saputo della campagna e i miei figli non sarebbero stati vaccinati”, ha detto.

L’Afghanistan e il Pakistan restano gli unici due paesi al mondo in cui la poliomielite è ancora endemica.

La vaccinazione contro la poliomielite è obbligatoria in Afghanistan dal 1978, quando il paese ha lanciato il suo programma di immunizzazione di massa. Da allora, i casi sono diminuiti da migliaia negli anni ’80 a centinaia negli anni ’90, con solo una manciata di casi registrati annualmente negli anni 2000.

Gli esperti sanitari avvertono che le interruzioni nelle campagne di vaccinazione, in particolare il passaggio dall’immunizzazione porta a porta alla vaccinazione domiciliare, potrebbero vanificare decenni di progressi nell’eradicazione della malattia.