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Tag: Talebani

Afghanistan. La Corte Penale internazionale dà la caccia ai leader taleban

Avvenire, 8 luglio 2025, di Angela Napoletano

Confermato l’ordine di arresto delle due massime autorità: il capo supremo Haibatullah Akhundzada e il ministro Abdul hakim Haqqani. L’accusa è di persecuzione contro le donne.

La Corte penale internazionale ha confermato, ieri, l’ordine di arresto delle due massime autorità dei taleban in Afghanistan emesso a gennaio dal procuratore capo Karim Khan. L’accusa che pende sulla testa dell’emiro Haibatullah Akhundzada, il leader supremo del regime islamico, e del ministro della Giustizia Abdul hakim Haqqani, è di «persecuzione contro le donne e le ragazze» e contro le persone «percepite come loro alleate». Reato che lo Statuto di Roma, fondativo della Corte dell’Aja, equipara a «crimine contro l’umanità».

I giudici si sono espressi sulla base delle prove raccolte a documentare gli abusi subiti dalla popolazione femminile da quando i taleban, il 15 agosto 2021, sono tornati al potere a Kabul: omicidi, detenzione, tortura, stupro e sparizione forzata. Al vaglio dei magistrati della Cpi sono finiti anche gli editti emessi a privare le donne e le ragazze afghane dei diritti inalienabili come quello all’istruzione, alla privacy e alla vita familiare, e delle libertà fondamentali come quelle di movimento, espressione, pensiero, coscienza e religione. Servirà, ci si chiede, a contenere la discriminazione sistematica delle donne istituzionalizzata dal governo dell’Emirato islamico?

Per le associazioni a tutela dei diritti umani la mossa è importante per dare speranza alle afghane, fuori e dentro il Paese, a farle sentire meno sole. Anche se non è ancora esecutiva perché legata a un fase preliminare del percorso giudiziario. A questa seguirà un processo e, solo dopo, una sentenza. Il pronunciamento è arrivato quattro giorni dopo il primo riconoscimento ufficiale dei taleban all’estero: venerdì scorso, l’Afghanistan oscurantista è diventato interlocutore ufficiale della Russia di Vladimir Putin. Alla vigilia del quarto anniversario del ritorno al potere, l’emiro Akhundzada ha come “padrino” un Paese che siede in Consiglio di sicurezza Onu.

I Talebani vietano anche il bigliardino: è a rischio idolatria

CISDA, Redazione, 6 luglio 2025

I Talebani non danno tregua con le loro farneticanti e repressive disposizioni. Dalla rassegna stampa locale emergono sempre nuove proibizioni, a volte generali provenienti dal capo Akhundzada e dalla legge sulla Propagazione dei Vizi e delle Virtù, a volte solo locali. Tutte comunque rivolte al controllo dei comportamenti individuali nella vita privata. E non colpiscono più solo le donne…

 

In Afghanistan International troviamo questa notizia:

“A Daikundi i talebani vietano il bigliardino, citando i rischi di idolatria”

I talebani hanno vietato il calcio balilla nella provincia di Daikundi, secondo quanto riferito da fonti locali ad Afghanistan International. Il gruppo sostiene che le miniature dei giocatori del gioco assomigliano a idoli, cosa che, a loro dire, è proibita dall’Islam.
Mercoledì 28 maggio 2025 alcune fonti hanno riferito che i talebani hanno ordinato ai club di calcio balilla di rimuovere le teste delle miniature dei giocatori per consentire la continuazione del gioco. La mancata osservanza di queste disposizioni comporterà il divieto assoluto di giocare.
Negli ultimi quattro anni, il governo talebano ha progressivamente limitato o vietato vari giochi e attività ricreative in Afghanistan. Recentemente, l’autorità sportiva talebana aveva sospeso la Federazione Scacchistica Afghana, dichiarando gli scacchi “haram” (proibiti).

Il 19 giugno su AMU Tv:

“I talebani vietano gli smartphone nelle scuole di Kandahar”

Secondo fonti a conoscenza della direttiva, la Direzione dell’istruzione dei talebani nella provincia di Kandahar ha emesso un’ordinanza che vieta l’uso degli smartphone sia agli insegnanti che agli studenti in tutte le scuole della regione.
Il divieto si basa su un ordine diretto del leader talebano Hibatullah Akhundzada e rimarrà in vigore fino a nuovo avviso, secondo quanto riferito da alcune fonti. I trasgressori affronteranno conseguenze legali, secondo la dichiarazione, condivisa con dirigenti scolastici e personale docente all’inizio di questa settimana.
Un preside di una scuola superiore pubblica di Kandahar ha affermato che il divieto allontanerà ulteriormente gli insegnanti dagli strumenti didattici moderni. “In molti paesi gli istituti scolastici usano internet per connettersi e migliorare la qualità dell’insegnamento”, ha affermato. “Qui, persino gli strumenti tecnologici di base sono vietati”.

Il 16 giugno ancora su Afghanistan International:

“I talebani criminalizzano l’uso di account falsi sui social media”

Il Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio dei Talebani ha annunciato che l’uso di falsi account sui social media è ora considerato un reato, nell’ambito di una più ampia repressione delle attività online.
In una dichiarazione rilasciata questa settimana, il portavoce del ministero Saif-ul-Islam Khyber ha avvertito che chi viola la direttiva andrà incontro a gravi conseguenze legali. “Nessuno dovrebbe fare un uso improprio dei social media”, ha affermato, aggiungendo che le piattaforme online devono essere utilizzate esclusivamente per “condividere informazioni accurate, affari, istruzione e sensibilizzazione pubblica”.
L’annuncio segna l’ultima di una serie di restrizioni imposte dai talebani alle piattaforme digitali. Il ministero, in coordinamento con l’agenzia di intelligence talebana, ha già arrestato e, a quanto pare, torturato diversi utenti dei social media accusati di diffondere contenuti anti-talebani.

Ancora su AMU Tv il 27 giugno:

“I talebani vietano la fotografia agli studenti dell’Università di Kandahar”

Gli studenti dell’Università di Kandahar affermano che i talebani hanno proibito la fotografia e la videoripresa all’interno del campus, estendendo le restrizioni sempre più stringenti a tutte le istituzioni educative del Paese.
Diversi studenti hanno raccontato ad Amu TV che durante una recente cerimonia di premiazione i talebani hanno avvertito i partecipanti che era vietato scattare foto o video e proibito di farlo anche in futuro.
Gli studenti di giornalismo dell’università hanno riferito che avvertimenti simili erano già stati emessi in precedenza, specificamente rivolti al loro corso di studi, lamentando che l’ordine di non scattare foto o registrare video all’interno dell’università ostacola la loro formazione accademica e il loro sviluppo professionale.
Il divieto arriva mentre le autorità talebane estendono norme sociali sempre più restrittive in tutto il Paese. Fotografare esseri viventi, persone e animali compresi, è stato dichiarato illegale in quasi la metà delle province afghane e Kandahar è stata indicata come il punto di partenza di questa tendenza nazionale.

Su Daryo

“L’Afghanistan reprime gli utenti dei social media e dei videogiochi con arresti di massa”

L’11 maggio i Talebani hanno rilasciato una dichiarazione in cui hanno rafforzato la loro posizione sulla condotta digitale, avvertendo che l’utilizzo dei social media per “scopi non etici e illegali” avrebbe comportato conseguenze legali. Il regime ha ribadito i divieti su TikTok e sul videogioco PUBG, messi al bando nel 2023 perché “corrompono i giovani” promuovendo l’immoralità.
La repressione si è ulteriormente intensificata il 13 maggio, quando Shir Ali Mubariz, noto personaggio di TikTok della provincia di Baghlan, è stato arrestato da agenti dell’intelligence talebana. Noto per le sue divertenti dirette streaming, è stato accusato di “comportamento scorretto” sui social media. La sua detenzione evidenzia la più ampia campagna del regime per reprimere i contenuti digitali che si discostano dai suoi rigidi codici ideologici e religiosi.
Saif al-Islam Khyber, un portavoce dei talebani, ha affermato che i social media dovrebbero essere utilizzati solo per “istruzione, informazione affidabile e affari legittimi” e ha avvertito che “deviazioni ideologiche, insulti, discriminazioni o qualsiasi abuso contrario ai valori religiosi” sarebbero stati considerati reati.

In AMU Tv il 30 maggio:

“A Herat i Talebani impongono multe agli uomini che saltano le preghiere collettive”

Secondo quanto riportato dai residenti informati sulla disposizione, nella provincia occidentale di Herat i talebani hanno imposto una multa agli uomini che non hanno partecipato alle preghiere quotidiane nelle moschee locali.
Otto fonti locali hanno confermato ad Amu che il Ministero talebano per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio ha ordinato ai responsabili delle moschee di monitorare la presenza dei fedeli e di imporre una multa di 100 afghani – circa 1,15 dollari – a chiunque si assenti dalle preghiere quotidiane. La misura fa parte di una più ampia estensione delle misure di controllo religioso e sociale in tutta la città.
I residenti hanno affermato che le pattuglie talebane hanno intensificato il controllo negli spazi pubblici, nei mercati e nei terminal dei mezzi di trasporto, controllando sia gli uomini che le donne per verificare il rispetto del codice di abbigliamento e degli obblighi di preghiera.
Nel vivace mercato dell’usato di Herat, noto come Bazar-e Lailami, la polizia morale avrebbe effettuato ispezioni brandendo fruste, secondo quanto riferito dai residenti. In molti hanno affermato che alle donne vestite con cappotti o altri abiti non approvati era vietato entrare nei centri commerciali come Qasr-e Negine e Qasr-e Herat.
“Negli ultimi giorni, le restrizioni per le donne si sono intensificate”, ha detto una donna. “Anche se già indossavamo abiti lunghi e mascherine, ora ci viene detto che non possiamo uscire di casa senza un abito da preghiera. La polizia morale ha bloccato entrambi i lati della strada di Lailami, nonostante fosse affollata prima dell’Eid.”
Un altro residente ha raccontato di essere stato fermato dagli agenti talebani mentre faceva la spesa con la moglie. “Hanno fermato la nostra auto e mi hanno intimato di non far uscire di nuovo mia moglie indossando un cappotto invece di un abito da preghiera”, ha detto. “Controllavano taxi e risciò, non ovunque, ma in alcuni posti di blocco”.
L’applicazione della legge si è estesa anche agli uomini. In diversi quartieri, i talebani avrebbero distribuito quelle che la gente del posto chiama “liste di presenza alle moschee”, usate per prendere nota di chi partecipa alle preghiere della comunità. Un medico ha dichiarato di ricevere multe quotidiane nonostante i suoi orari di lavoro impegnativi. “Frequento la moschea appena posso”, ha detto. “Ma se perdo le preghiere serali o notturne per via del lavoro, vengo multato di 100 afghani ogni volta. I fedeli della moschea sanno che sono un frequentatore abituale, ma non importa. Non c’è nessuno a cui fare appello”.

Afghanistan International, il 13 giugno

“A Herat, i Talebani vietano la guida alle donne”

Secondo una lettera ufficiale ottenuta dai media locali, la Direzione per la diffusione della virtù e la prevenzione del vizio dei talebani nella provincia di Herat ha ordinato all’autorità locale del traffico di vietare alle donne di guidare.
La lettera, firmata dallo sceicco Azizurrahman Muhajir, capo della direzione, affermando che guidare è “una professione importante e di grande responsabilità” e che anche piccoli errori possono causare la perdita di vite umane, sostiene che “le donne hanno la mente distratta e sono incapaci di imparare a guidare”.

Padri trasformatisi in guardie talebane della propria famiglia

Nelle loro case, gli uomini sono diventati di fatto i garanti e gli esecutori consapevoli delle leggi talebane sulla morale contro la libertà delle donne

Zahra Joya, Annie Kelly, Rukhshana Media, 9 giugno 2025

Essere padre di due figlie nell’Afghanistan dei talebani è diventato un incubo quotidiano per Amir. Ora, dice, è più una guardia carceraria che un genitore amorevole, un esecutore riluttante e non retribuito di un sistema di apartheid di genere che disprezza ma che si sente in dovere di infliggere alle sue due figlie adolescenti per proteggerle dalla furia e dalle rappresaglie dei talebani.

Solo pochi anni fa, le figlie di Amir avevano una vita e un futuro, andavano a scuola, andavano a trovare gli amici e si spostavano nella comunità. Ora, dice, preferirebbe che le sue figlie non uscissero mai di casa. Lui, come molti altri padri in Afghanistan, ha sentito storie su cosa può succedere alle giovani donne che si trovano nel mirino della “polizia morale” dei talebani.

Nei rari casi in cui le loro suppliche e implorazioni per avere il permesso di uscire nel mondo diventano insostenibili per lui, si assicura che vadano accompagnate da un membro maschio della famiglia e che siano completamente coperte.

“Insisto che indossino l’hijab e dico loro che non possono ridere fuori casa o al mercato”, dice. “La ‘polizia morale’ è molto severa e se non rispettano le regole, potrebbero essere arrestate”.

Padri trasformati in guardiani

L’estate scorsa, a tre anni dalla loro presa del potere nell’agosto 2021, la portata dell’ambizione dei talebani di cancellare le donne dalla vita pubblica è stata resa manifesta dalla presentazione di un’ampia serie di leggi su “vizi e virtù”.

In base alle nuove regole, alle donne veniva chiesto di coprirsi completamente quando erano fuori casa, di non far sentire la propria voce mentre parlavano ad alta voce, di apparire in pubblico solo con un accompagnatore maschio e di non guardare mai un uomo che non fosse un loro parente diretto.

Quando queste regole furono annunciate, non era chiaro come un numero relativamente piccolo di “polizia morale” impiegata dai talebani avrebbe potuto farle rispettare e attuarle.

Tuttavia, nei mesi successivi, sono stati i padri, i fratelli e i mariti a trasformarsi, di fatto, in guardie non retribuite che hanno imposto alle donne e alle ragazze afghane il regime oppressivo dei talebani.

Non sono spinti solo dalla paura di ciò che potrebbe accadere alle donne se arrestate dalle forze dell’ordine talebane. Secondo le nuove leggi dei talebani, se una donna viene ritenuta colpevole di aver violato le regole morali, è il suo parente maschio, non lei, a essere punito e a dover pagare multe o persino il carcere.

Il “”Guardian”” e “”Rukhshana Media”” hanno parlato con più di una decina di uomini e giovani donne in tutto l’Afghanistan, di come le leggi morali dei talebani stessero cambiando il loro atteggiamento e il comportamento nei confronti delle donne nelle loro famiglie.

Tra adattamento e frustrazione

“Gli uomini sono diventati soldati non pagati dei talebani”, afferma Jawid Hakimi, della provincia di Bamiyan . “Siamo costretti, per il bene del nostro onore, della nostra reputazione e del nostro status sociale, a far rispettare gli ordini dei talebani alle donne delle nostre famiglie. Giorno dopo giorno, la società si sta adattando alle regole dei talebani e le loro restrizioni [sulle donne] stanno gradualmente rimodellando la società secondo la loro visione – e ci sentiamo in dovere di allineare le nostre famiglie alle loro aspettative. È un’atmosfera soffocante”.

Parwiz, un giovane proveniente da una provincia nel nord-est dell’Afghanistan, racconta che quando sua sorella è stata arrestata dalla “polizia morale” perché non indossava l’hijab, era terrorizzato per la sua sicurezza e determinato a fare in modo che ciò non accadesse mai più.

“Sono stato costretto ad andare alla stazione di polizia, dove sono stato insultato e mi è stato detto che dovevo fare tutto quello che i talebani dicevano”, racconta. “Quando sono tornato a casa, ho sfogato tutta la mia rabbia e frustrazione su mia madre e mia sorella“.

Altri uomini hanno raccontato di come il rischio della vergogna sociale se fossero stati puniti per un comportamento “immorale” si stesse trasformando in repressione e violenza nei confronti delle loro familiari.

Freshta, una giovane donna della provincia di Badakhshan, racconta di essere picchiata dal marito quando esce di casa, anche solo per andare a comprare del cibo al mercato. “Ero andata all’angolo della strada a comprare la verdura e indossavo un lungo hijab nero, ma non il burqa. Quando sono tornata, mi ha colpita in faccia e mi ha picchiata.

Ha detto: “Vuoi che infrangiamo le regole? E se uno dei miei colleghi di lavoro ti vedesse?”. Da mesi ormai non esco quasi mai di casa. Dice che se esco devo indossare il burqa.”

“Non possiamo rischiare il disonore”

Rahib, 22 anni, afferma che non può rischiare che la sua famiglia affronti il ​​”disonore” se sua sorella maggiore Maryam esce e la gente pensa che sia vestita in modo immodesto.

“Il nostro orgoglio non lo permette. Abbiamo vergogna, abbiamo onore. Non possiamo sopportare il pensiero che, Dio non voglia, si possa dire qualcosa su di lei in città o al mercato”, dice.

Le giovani donne hanno parlato del dolore delle loro famiglie trasformate in esecutori di un codice morale imposto loro da un’ideologia estremista che le aveva già private del diritto all’istruzione, al lavoro e all’autonomia.

“Il comportamento di mio padre è cambiato dopo l’arrivo dei talebani. Prima non gli importava molto dei nostri vestiti [delle sue figlie]”, racconta Masha, 25 anni. “Prima non ci diceva mai di non indossare qualcosa o di evitare certi luoghi, ma non appena sono arrivati ​​i talebani è cambiato. Ci ha detto: ‘Se mi considerate vostro padre e avete a cuore la dignità della vostra famiglia, indosserete l’hijab. Non truccatevi, nemmeno una ciocca di capelli deve essere visibile, non indossate scarpe con i tacchi alti e non uscite così spesso. Se avete bisogno di qualcosa, ditelo a me o ai vostri fratelli così possiamo procurarvelo al mercato'”, racconta.

“Ora, ogni volta che ho il ciclo, devo rinunciare a assorbenti e medicine. Resto semplicemente in casa.”

Richard Bennett, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, afferma che, pur avendo documentato “atti di resistenza” da parte di uomini afghani contro la repressione istituzionalizzata delle donne da parte dei talebani, “all’interno delle famiglie, i membri maschili stanno imponendo sempre più restrizioni alle loro parenti femmine, e sempre più donne riferiscono di aver bisogno del permesso per uscire di casa. Sono sempre più numerose anche le segnalazioni di membri femminili che garantiscono il rispetto delle regole”.

“La presenza di funzionari di fatto e presunti informatori nelle comunità, la minaccia di una sorveglianza costante e l’imprevedibilità dell’applicazione della legge contribuiscono ulteriormente al senso di insicurezza, aumentando lo stress psicologico e l’ansia, soprattutto tra le giovani donne”, afferma.

*Pubblicato in collaborazione con “The Guardian”.

La nuova direttiva sui media è un altro attacco alla libertà di stampa

Siyar Sirat, AMU Tv, 4 luglio 2025

Una nuova direttiva sui media emanata dai talebani ha provocato aspre critiche da parte delle organizzazioni per la libertà di stampa, che avvertono che il provvedimento segna una significativa escalation nella repressione dei talebani contro il giornalismo indipendente e le voci dissidenti.

La direttiva, annunciata dal Ministero dell’Informazione e della Cultura, vieta la programmazione politica senza previa approvazione, impone credenziali rilasciate dai Talebani per gli analisti e ritiene i giornalisti personalmente responsabili per qualsiasi contenuto che si discosti dalle politiche del gruppo. Le norme proibiscono inoltre opinioni contrarie alle narrazioni ufficiali e richiedono un “tono rispettoso” nei riferimenti alle autorità Talebane.

“Questa nuova direttiva è un chiaro segno di un governo autoritario”, ha dichiarato in un comunicato NAI in Exile, un ente di controllo dei media afghani ora con sede in Canada. “Chiude l’ultimo spazio rimasto per la critica e il dibattito pubblico nel Paese”.

La direttiva, intitolata “Politica sulla gestione dei programmi politici”, esige di fatto che tutti i commenti politici siano conformi al quadro ideologico dei talebani. In base alle sue disposizioni, conduttori e produttori potrebbero incorrere nella sospensione o revoca della licenza in caso di violazione.

Il Free Speech Centre, con sede in Canada, ha paragonato tali misure ai sistemi mediatici controllati dallo Stato in Corea del Nord, Cina e Iran.

Impone il conformismo ideologico

“Questo è uno degli attacchi più estesi alla libertà di stampa dal ritorno al potere dei talebani”, ha affermato il gruppo. “La direttiva impone il conformismo ideologico e trasforma il discorso politico in propaganda di Stato“.

I funzionari talebani hanno difeso le norme come un tentativo di promuovere “l’unità nazionale” e un “giornalismo sano”. Ma i sostenitori della stampa sostengono che le misure criminalizzano il dissenso e rafforzano un clima di paura e censura.

La direttiva limita inoltre la partecipazione al dibattito pubblico in settori come la religione o il diritto ad analisti qualificati e che sostengono esplicitamente le politiche talebane. Sono vietati i servizi giornalistici ritenuti dannosi per i “valori islamici” o per l'”unità nazionale”.

Da quando i talebani hanno preso il potere nell’agosto 2021, il panorama mediatico del Paese, un tempo fiorente, è stato gravemente compromesso. Più di 350 testate hanno chiuso i battenti e molti giornalisti, in particolare donne, si sono nascosti o sono fuggiti dal Paese. NAI in Exile stima che meno di 180 organizzazioni giornalistiche rimangano operative.

“Queste misure non riflettono la volontà del popolo afghano, ma la paura di un regime che non può tollerare controlli o responsabilità”, ha affermato il Free Speech Centre.

Entrambe le organizzazioni hanno chiesto alla comunità internazionale di sostenere i giornalisti afghani e di fare pressione sui talebani affinché cambino rotta.

“Se questa direttiva verrà mantenuta”, ha avvertito NAI in Exile, “l’Afghanistan diventerà presto un paese senza una sola voce indipendente”.

 

Scontri mortali tra talebani e popolazione locale nel distretto di Khash

La brutale campagna di eradicazione del papavero da oppio dei talebani lascia la popolazione locale senza mezzi di sopravvivenza; i rapporti affermano che fino a 15 civili sono stati uccisi nella repressione del Badakhshan

RawaNews, 2 luglio 2025

Nuove violenze sono scoppiate nel distretto di Khash, nella provincia di Badakhshan, dove gli scontri armati tra le forze talebane e la popolazione locale hanno causato almeno sette morti e oltre 40 feriti, secondo quanto riportato da fonti locali. Alcune fonti giornalistiche hanno riportato che fino a 15 persone sono state uccise dai talebani durante la repressione.

I disordini sono iniziati dopo che i combattenti talebani sono intervenuti durante una cerimonia funebre per le vittime di precedenti violenze nella zona. I residenti si sono opposti alla loro presenza, innescando violenti scontri. Secondo le autorità sanitarie di un ospedale locale, lunedì sono state uccise 7 persone, mentre martedì ne è morta un’altra. Almeno altre 12 sono rimaste ferite solo negli scontri di martedì.

In risposta alle crescenti tensioni, i talebani avrebbero interrotto le telecomunicazioni nel distretto e schierato forze speciali tramite elicottero per reprimere ulteriore resistenza. Il governatore del Badakhshan nominato dai talebani, Mohammad Ayub Khalid, ha confermato le vittime, attribuendole a “fuoco accidentale” da parte dei combattenti talebani.

La violenta repressione dei talebani

Secondo quanto riferito, gli scontri sono stati innescati da un’operazione talebana volta a distruggere i campi di papaveri locali, nell’ambito di un più ampio sforzo per eliminare la produzione di oppio. Ma per molti in queste zone, coltivare il papavero non è una scelta, ma un mezzo di sopravvivenza. Le persone sono estremamente povere e i talebani non offrono mezzi di sostentamento o sostegni alternativi; le famiglie non hanno altra scelta che coltivare oppio per sfamare i propri figli. L’uccisione di contadini durante l’operazione ha provocato una rabbia diffusa, con i residenti che hanno bloccato le strade per Fayzabad e Baharak e hanno preso d’assalto l’ufficio del governatore distrettuale di Khash, danneggiandone alcune parti.

Non è la prima volta che simili violenze scoppiano nel Badakhshan, una provincia nota per il suo ruolo significativo nella coltivazione e nel traffico di oppio in Afghanistan. Incidenti simili si sono verificati lo scorso anno nel distretto di Jurm in circostanze analoghe.

La situazione attuale a Khash rimane estremamente instabile, con crescenti timori tra i residenti riguardo a ulteriori violenze e all’isolamento causato dal blackout delle comunicazioni.

I talebani “costringono” gli insegnanti a sostenere un test sull’accordo di Doha!

Non c’è limite alla fantasia dei Talebani per indottrinare la popolazione…
Ahmad Azizi, AMU Tv, 31 maggio 2025

Secondo fonti locali, le autorità talebane della provincia di Logar hanno costretto gli insegnanti a partecipare a un esame incentrato sull’accordo di Doha firmato tra gli Stati Uniti e i talebani nel 2020.

Al test, svoltosi sabato 31 maggio nel capoluogo di provincia di Pul-e-Alam, hanno partecipato più di 1.000 insegnanti di 104 scuole, secondo quanto riferito da alcune fonti ad Amu.

Secondo i funzionari talebani del dipartimento dell’istruzione, lo scopo dell’esame era quello di “migliorare le conoscenze degli insegnanti, incoraggiare l’ulteriore istruzione e approfondire la comprensione dell’accordo di Doha”.

Tuttavia, diversi insegnanti hanno dichiarato di essere stati costretti a studiare materiali approvati dai talebani e a partecipare al test sotto pressione.

Un insegnante, che ha chiesto di mantenere l’anonimato per motivi di sicurezza, ha affermato che il materiale offerto per l’esame riflette principalmente il punto di vista dei talebani e omette qualsiasi riferimento agli elementi più oscuri dell’accordo tra Stati Uniti e talebani.

“Ci sono aspetti nascosti dell’Accordo di Doha tra i Talebani e gli Stati Uniti che non sono noti alla gente”, ha detto l’insegnante. “Questi libri si concentrano solo su contenuti che legittimano l’amministrazione talebana“.

Il materiale didattico distribuito prima dell’esame è stato descritto da più fonti come ideologicamente unilaterale e volto a promuovere le narrazioni dei talebani.

I termini e le conseguenze complete dell’accordo del 29 febbraio 2020, firmato a Doha dopo mesi di negoziati tra i talebani e gli Stati Uniti, non sono ancora stati chiariti pubblicamente in Afghanistan.

I critici delle politiche educative dei talebani hanno espresso preoccupazione per il fatto che iniziative come questo esame rappresentino un tentativo più ampio di indottrinare i dipendenti pubblici e di rimodellare il curriculum nazionale attorno all’ideologia talebana.

Afghanistan: lo sport che non c’è, ma solo per le donne

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione del diritto allo sport delle donne afghane

Carla Gagliardini, Bio Correndo, 1 luglio 2025

Se sentiamo la parola Afghanistan a cosa pensiamo immediatamente? Le risposte possono essere varie: è uno stato; è uno stato governato dai talebani; le donne vivono in una condizione di segregazione totale. Certamente ci saranno altre risposte ma queste saranno prevedibilmente quelle più frequenti.
Da qui possiamo partire per cercare di dare una descrizione sintetica dell’Afghanistan che ci aiuti a comprendere le difficoltà che le donne incontrano tutti i giorni, anche nell’esercitare il diritto a praticare lo sport. Il diritto allo sport è riconosciuto da diversi trattati internazionali ma è evidente che non ci voglia un documento, per quanto sia il frutto di una negoziazione ad alti livelli, per dare a un diritto umano il suo riconoscimento perché questo, proprio per la sua natura e qualità, è del tutto inscindibile dall’essere umano.

L’Afghanistan, i talebani e le donne

Iniziamo a collocare geograficamente l’Afghanistan che si trova nell’Asia meridionale e confina con il Tagikistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, l’Iran, il Pakistan e la Cina.

Poi proviamo a descrivere sinteticamente chi siano i talebani, cioè coloro che governano l’Afghanistan. Secondo l’enciclopedia Treccani online i talebani sono un “gruppo di fondamentalisti islamici formatisi nelle scuole coraniche afghane e pakistane (dal pashtō ṭālib «studente»), impegnato nella guerriglia antisovietica in Afghanistan; tra il 1995 e il 1996 sono emersi come vincitori della guerra civile afgana successiva al ritiro dell’URSS e, conquistato il potere, hanno imposto un regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica”[1].

Infine tentiamo di dire brevemente perché le donne vivono in una condizione di segregazione totale e lo facciamo con le parole di Minky Worden, direttrice del Global initiatives di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa che da decenni monitora la violazione dei diritti umani nel mondo. Lo scorso 3 febbraio la Worden ha scritto nella lettera indirizzata a Jay Shah, presidente dell’International cricket Committee (ICC), che “dalla riconquista del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una lunga e crescente lista di regole e politiche che proibiscono alle donne e alle ragazze di esercitare i loro diritti fondamentali, includendo la libertà di espressione e di movimento, il diritto ad accedere a molti impieghi e il diritto all’istruzione oltre il sesto grado (scuole elementari, ndr). Ciò ha praticamente un impatto su tutti i loro diritti, incluso quello alla vita, ai mezzi di sostentamento, ad avere un luogo sicuro dove vivere, alla cura della salute, al cibo e all’acqua”.

Sport: “non necessario” per le donne

Poche settimane dopo il ritorno dei talebani alla guida dell’Afghanistan, avvenuto a metà agosto del 2021, il vice-capo della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, si diceva dubbioso sul futuro dello sport femminile nel paese, ritenendo la pratica sportiva non necessaria per le donne; parlando in particolare del cricket diceva che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. E’ l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”[2].

Intere squadre femminili hanno lasciato l’Afghanistan dall’agosto del 2021 con la speranza di poter continuare non solo a fare sport nei paesi di accoglienza ma anche di rappresentare la loro terra sotto la bandiera della nazionale afghana in esilio. Un messaggio politico che ovviamente non ha come unico destinatario il governo afghano poiché si chiede alle federazioni internazionali di non voltare lo sguardo.

La nazionale femminile di cricket che ha lasciato l’Afghanistan grazie al supporto di tre donne, Mel Jones (precedente giocatrice della nazionale australiana di cricket), Emma Staples e Catherine Ordway in collaborazione con il governo australiano, ha ripetutamente invitato l’ICC a intervenire per consentire alla squadra in esilio di giocare. Solo recentemente però è arrivata una risposta, probabilmente solo parziale, alle aspettative che le giovani avevano. L’ICC ha dichiarato di aver stanziato dei fondi per consentire alle atlete di proseguire nella pratica sportiva ma nulla ha fatto rispetto alla sanzione che dovrebbe raggiungere l’Afghanistan cricket board (ACB). Secondo le regole internazionali del cricket ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale deve avere sia la squadra nazionale maschile sia quella femminile, per evidentemente tutelare e promuovere i diritti di tutti e di tutte a praticare questo sport. Dall’ingresso dei talebani al governo l’ACB non ha più la squadra femminile e questo dovrebbe essere sufficiente per cancellare dalle competizioni afghane quella maschile. Eppure …

Diritto negato di fatto anche dalla precedente Repubblica

Da un colloquio avuto con Sapeda, attivista afghana di cui per ragioni di sicurezza non è possibile rivelare il vero nome, è possibile disegnare il quadro afghano che riproduce la situazione dello sport femminile. Sostanzialmente si tratterebbe di una tela con uno sfondo dai colori cupi rappresentante l’oppressione di un governo che vuole dominare completamente la donna, oscurandola. Tuttavia da quelle tenebre si vedrebbero raggi di luce, quelli della resistenza di molte donne che, sfidando ogni sorta di pericolo e le conseguenze più spaventose, esercitano i loro diritti in modo clandestino, incluso quello di praticare lo sport.

Sapeda racconta che durante i vent’anni di occupazione dell’Afghanistan da parte della Coalizione guidata dagli Stati Uniti lo sport poteva essere praticato dalle donne nelle grandi città, nei villaggi la situazione era rimasta invece molto arretrata. Nei luoghi pubblici, come le palestre, l’accesso era suddiviso in fasce orarie per i due sessi, per impedire che uomini e donne potessero mescolarsi.

Alle donne e alle ragazze piaceva fare sport perché era un momento di socializzazione ma era anche un modo per riprendere la linea, soprattutto dopo tante gravidanze, e avere cura della propria salute.

Hambastagi, Partito afghano della solidarietà e unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan[3], aveva aperto una palestra a Kabul dove si tenevano corsi di karate, di autodifesa e di ginnastica.

Le più giovani avevano un vivo interesse verso lo sport perché per loro poteva rappresentare una possibilità professionale. Infatti durante il periodo dell’occupazione si erano formate le squadre nazionali femminili in alcune discipline sportive e le atlete che ne facevano parte hanno avuto la possibilità di partecipare ai Giochi olimpici e a altre competizioni internazionali. Tuttavia non è stato sempre facile perché il governo afghano ha tentato molte volte di ostacolare l’invio delle nazionali femminili a tornei e gare fuori dai confini nazionali, sollevando ragioni di sicurezza derivanti dalle minacce dei talebani.

Sapeda dice che il governo di quel ventennio non proibiva la pratica sportiva alle ragazze e alle donne solo perché molte attività venivano gestite dalle Ong e ciò fruttava molti introiti che facevano gola.

Il diritto allo sport delle donne, unitamente a molti altri, non sono dunque mai stati al centro dell’attenzione dei governi talebani passati e presenti ma nemmeno di quelli che si sono insediati durante l’occupazione, la quale con la sua propaganda ha cercato di convincere il mondo che la guerra in Afghanistan era giusta, anche perché avrebbe liberato la donna. Non solo l’intento propagandistico non è riuscito, avendo continuato a lasciare oltre l’80% delle donne nella stessa condizione pre-occupazione, ma ha svelato tutta la sua inconsistenza quando nel momento del ritiro delle forze di occupazione le donne con i loro corpi, i loro sogni e la loro voglia di libertà sono state gettate nelle mani di estremisti fanatici che concepiscono in senso padronale il rapporto tra i due sessi.

Sport: diritto indiscutibile anche per le donne

Il Cisda, un’associazione italiana che dal 1999 aiuta e sostiene le donne afghane che vivono nel loro paese, ha ancora in corso la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”[4] che punta a far riconoscere nei trattati internazionali l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e chiede altresì che si riconosca il fatto che questo viene commesso sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan. Inoltre chiede che vengano attivate immediatamente le azioni necessarie da parte della Comunità internazionale per non legittimare i fondamentalisti che continuano a violare i diritti umani delle donne e gli obblighi legali internazionali dell’Afghanistan.

La negazione del diritto allo sport alle donne afghane ci ricorda ancora una volta che lo sport non è solo competizione ma è anche e soprattutto uno spazio della vita dove si costruiscono relazioni umane, dove ci si prende cura del proprio benessere psicologico e fisico. E’ il luogo dal quale si possono lanciare messaggi potenti, come fa da anni La corsa di Miguel. Ma è soprattutto un diritto indiscutibile che appartiene a uomini e donne nella stessa misura.

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione se non vogliono far passare il messaggio che lo sport è sola competizione e, in quanto tale, viene trattato come un diritto esclusivo accessibile unicamente a chi ha dalla sua le risorse economiche, le strutture e il talento fino ad arrivare all’estremo di consentire che una legge possa vietare ad alcuni soggetti di praticarlo.

Note:

[1]Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/talebani/.

[2]https://www.bbc.com/news/world-asia-58571183.

[3]https://www.cisda.it/chi-sosteniamo/hambastagi/.

[4]https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere/.

In Afghanistan, un uomo di 45 anni sposa una bambina afghana di 6 anni

Sotto il regime dei talebani, i matrimoni infantili si diffondono e le ragazze perdono protezione e voce

Rawa News, 28 giugno 2025

Una foto che circola sui social media mostra un uomo di 45 anni con la bambina di 6 anni che ha appena sposato: un esempio straziante del peggioramento della crisi dei matrimoni infantili sotto il regime dei talebani.
Fonti locali di Helmand affermano che un uomo di 45 anni, che ha già altre due mogli, ha sposato una bambina di 6 anni.

Secondo le fonti, il padre della ragazza l’avrebbe data in sposa a quest’uomo anziano “in cambio di denaro”.

Secondo alcune fonti, la cerimonia di nozze tra l’uomo di 45 anni e la bambina ha avuto luogo venerdì 27 giugno 2025.

Tuttavia, prima che la bambina venisse consegnata al suo “marito” 45enne, sono intervenuti funzionari talebani locali, non per impedire il matrimonio, ovviamente, ma per dare prova della loro versione di “moderazione”. Fonti affermano di aver intimato all’uomo di aspettare che la bambina compisse la maturissima età di 9 anni prima di portarla a casa sua.

Il matrimonio precoce – in particolare quello forzato di bambine con uomini molto più grandi o di mezza età – rimane una delle forme di violenza di genere più diffuse e culturalmente radicate in tutto l’Afghanistan. Dal ritorno al potere dei Talebani, questa pratica ha registrato un’impennata drammatica, alimentata dalle politiche ultrapatriarcali del regime, dal crollo delle tutele legali e dalla crescente disperazione economica delle famiglie. La normalizzazione di queste unioni coercitive, sotto l’egida della tradizione, non solo priva le bambine della loro infanzia e dei diritti umani fondamentali, ma rafforza anche un più ampio sistema di oppressione di genere che prospera sotto il regime talebano.

 

Catturare la tranquilla resilienza delle donne afghane

La resilienza non è una scelta: per le donne, e per gli afghani in generale, è una necessità

Phoebe West, Rawa.org, 25 gennaio 2025

Nel corso di sei mesi, la fotografa Kiana Hayeri e la ricercatrice Melissa Cornet hanno realizzato un ritratto della vita delle donne afghane sotto il regime talebano. In un Paese che sta affrontando una delle più gravi crisi dei diritti delle donne nel mondo,  “No Woman’s Land” cattura le loro lotte, ma illumina anche i modi sottili ma potenti in cui resistono, dalle aule segrete ai momenti di tranquilla convivenza in casa. Qui Hayeri racconta a Phoebe West come la coppia ha affrontato il progetto nonostante l’accesso limitato imposto dal regime talebano, e perché la resistenza è una necessità per le donne afghane.

Nel corso di sei mesi, Hayeri e Cornet hanno trascorso dieci settimane in sette province, parlando con 100 donne e ragazze per capire cosa significhi essere una donna in Afghanistan oggi. “Volevamo coprire tutto”, mi dice Hayeri da Damasco. “Volevamo mostrare cosa significa essere una donna nelle aree rurali, in quelle urbane, per le donne istruite e per quelle non istruite, per mostrare cosa è cambiato per loro e per raccontare tutti gli aspetti della storia”. La storia dell’Afghanistan è lunga e complessa, caratterizzata da instabilità politica e da un controllo oppressivo sui diritti delle donne: “Ogni regime ha usato le donne come simbolo di modernità o di purezza morale”, afferma Hayeri.

“Volevo essere molto rispettosa”, afferma Hayeri. Ogni immagine è stata concepita come unica e creata in collaborazione con il soggetto, garantendone la sicurezza e la capacità di agire. “Anche se le donne non si sentivano a loro agio a mostrare il proprio volto”, spiega Hayeri, “hanno comunque la loro individualità nelle foto”.

“No Woman’s Land” non si sottrae all’oscurità che pervade l’esistenza delle donne in Afghanistan oggi, ma non è nemmeno tutta la storia. Anche la gioia e la speranza esistono, trascendendo il personale, per incarnare la resistenza e la sfida in una terra di oppressione. “Spero che continui a vivere come documentazione di ciò che sta accadendo in Afghanistan”, dice Hayeri, “e diventi qualcosa su cui la prossima generazione potrà costruire: le fondamenta su cui costruire resilienza e speranza. Potranno guardare indietro a questo e capire cosa è possibile”.

Il progetto è frutto della collaborazione tra Hayeri e la ricercatrice sui diritti delle donne Melissa Cornet. Lavorare insieme è stato chiaramente illuminante per entrambe, consentendo a ciascuna di esprimere la propria creatività e condividere la responsabilità nelle decisioni relative al lavoro. Al di là di Hayeri e Cornet, le radici della collaborazione si estendono ben oltre. Considerando quanto sia diventato limitato l’accesso in Afghanistan sotto il regime dei Talebani, lo spazio concesso loro è stato possibile grazie all’esistenza di reti già esistenti e alla reputazione all’interno della comunità: “Gran parte dell’accesso è avvenuto tramite passaparola”, spiega Hayeri, “così dicevamo alla nostra rete chi volevamo incontrare e loro garantivano per noi”.

Sia Hayeri che Cornet hanno vissuto a Kabul per anni e nutrono un profondo amore per l’Afghanistan, che traspare dal loro lavoro. Avevano una solida base di relazioni di fiducia su cui costruire, un linguaggio per comunicare senza bisogno di un interprete e il tempo per garantire che tutti i partecipanti desiderassero davvero essere lì: “In alcune delle scene che vedete, mi conoscono da tre o quattro anni”, dice, “quindi sanno che non farei nulla che mettesse a repentaglio la loro sicurezza, e abbiamo avuto il tempo per tornare più e più volte. Questo non accade più nel nostro campo di lavoro”.

Hayeri ha lavorato molto in Afghanistan, ma questo progetto è stato diverso da qualsiasi altro: “Grazie a questa borsa di studio, ho potuto fare tutto ciò che volevo in modo creativo ed è stato molto appagante”, spiega. Hayeri afferma di aver sempre scattato con la luce naturale: “L’Afghanistan ha questa tonalità calda”. Ma per “No Woman’s Land” ha deciso di usare luci al neon. “Gli afghani adorano le luci al neon”, dice sorridendo, “vai nelle gelaterie, nei ristoranti, in qualsiasi posto all’aperto: hanno luci al neon ovunque”.

Sentendo lo spazio concesso alle donne ridursi sempre di più, Hayeri e Cornet hanno deciso di “portare le luci al neon nelle loro case e nei loro spazi”. La decisione di portare la luminosità nei santuari di queste donne ci porta a pensare ai loro cieli che passano dal technicolor al pallore del cielo coperto, mentre i progressi di decenni si disfano nel giro di poche settimane quando, nella tarda estate del 2021, i Talebani tornano al potere.

Passato e futuro sono presenti in tutta l’opera. Diverse inquadrature di “No Woman’s Land” catturano diverse generazioni di donne: ogni fotogramma racchiude cicli di repressione e instabilità politica. È difficile comprendere l’ampiezza di ciò che per queste ragazze è appena passato e impossibile: per le più anziane è la storia che si ripete, un’eco di una vita passata, ma per le giovani, le loro figlie e nipoti, è un futuro nuovo, intero, cancellato in un istante.

“La resilienza non è una scelta”, afferma Hayeri. “Per le donne, e per gli afghani in generale, direi che è una necessità”. È un grande privilegio poter pensare alla resilienza come a una scelta. All’interno dell’oppressione che, ancora una volta, è diventata la realtà per le donne in Afghanistan, la resistenza e la ribellione esistono a livello molecolare: non si manifestano per le strade perché gli altri le guardino, ma accadono continuamente. Ballare a porte chiuse, fare arte e creare disegni all’henné diventano atti di sfida di fronte alla cancellazione della personalità.

Realizzare questo lavoro oggi non sarebbe possibile – ogni parvenza di accesso che esisteva allora è stata chiusa – ma la portata di ciò che è stato creato è illimitata. “È molto facile per le persone attribuire il titolo di apartheid di genere all’Afghanistan”, riflette Hayeri, “ma non si parla dell’apartheid che si sta verificando in Cisgiordania. La lotta per i diritti delle donne va oltre l’Afghanistan. C’è in Palestina, in America, in Kenya!”.

Dopo la nostra conversazione, Hayeri si unirà ai festeggiamenti a Damasco per il 14° anniversario della rivoluzione siriana, durante i quali elicotteri militari lasceranno cadere fiori e coriandoli, per ricordare che accanto alla fragilità dei diritti delle donne nel mondo c’è il potenziale del cambiamento e la possibilità di qualcosa di meglio.

 

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”: la lotta disperata di una vedova afghana per i suoi figli

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 16 giugno 2025

Hadia* aveva solo 21 anni quando suo marito fu ucciso in un attentato suicida nella capitale afghana Kabul, lasciandola da sola con tre figli piccoli da crescere.

Il bombardamento ha sconvolto la vita un tempo pacifica della famiglia. Ancora traumatizzata dalla perdita del marito in modo così violento, Hadia si è improvvisamente trovata a dover uscire e cercare lavoro in un Paese dove, anche prima del ritorno al potere dei talebani, la maggior parte delle donne rimaneva a casa con i figli.

Ma se la vita era dura prima del 2021, non era nulla in confronto a ciò che Hadia deve affrontare ora. Oltre a non riuscire a trovare lavoro a causa delle crescenti restrizioni imposte alle donne dai talebani afghani, è stata costretta a nascondersi sotto la minaccia che le venissero portati via i figli.

Dopo aver fatto tutto il possibile per tenerli al sicuro, Hadia ora deve affrontare una causa legale intentata dal padre del marito defunto per ottenere la custodia della figlia adolescente e dei due figli più piccoli. Sebbene affermi che l’uomo sia un tossicodipendente, essendo una donna single, la legge le sarebbe comunque contro.

“Un giorno, mio ​​figlio è tornato a casa pallido. Mi ha detto che suo nonno gli aveva bloccato la strada e aveva cercato di costringerlo ad andare con lui”, ha raccontato.

“Mi si strinse il cuore. Se i miei figli finissero con lui, li venderebbe sicuramente per pagarsi la droga.”

I suoi timori non sono infondati. L’Afghanistan ha uno dei tassi di tossicodipendenza più alti al mondo, povertà e disperazione sono diffuse e la disponibilità di stupefacenti è molto elevata.

Hadia sentiva di non avere altra scelta che fuggire e da allora ha cambiato casa tre volte. Ora vive in una zona tranquilla di Kabul, ma teme di non essere al sicuro nemmeno lì, dopo che suo suocero ha sporto denuncia alle autorità accusandola di aver rapito illegalmente i bambini.

“Il pensiero che dopo tutto quello che ho sopportato, tutto questo dolore e questa solitudine, possano finire nelle mani di un tossicodipendente mi fa impazzire”, ha detto.

La situazione di Hadia, per quanto estrema, offre uno spaccato della difficile situazione delle vedove e delle altre madri single nell’Afghanistan odierno, dove povertà, restrizioni legali e lo stigma sociale della vedovanza hanno creato una tempesta perfetta di sofferenza.

Lo scorso anno, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha segnalato che in Afghanistan le famiglie guidate da donne sono quelle che hanno subito le conseguenze più gravi del declino economico del Paese.

Per Hadia, trovare un riparo e un lavoro negli ultimi anni è stata una sfida enorme. Senza un uomo, ha faticato persino ad affittare un alloggio. Faceva i lavori che riusciva a trovare, lavorando nelle scuole e nelle fattorie per soli 4.000-5.000 afghani (60-70 dollari) al mese, o tessendo tappeti. Tornata a casa tardi, è stata criticata come “immorale” e le è stato chiesto con chi fosse stata.

“Se indossavo vestiti nuovi, mi sussurravano: ‘Chi glieli ha comprati? E ​​in cambio di cosa?'”

Costrette al matrimonio

Sebbene abbia ancora 30 anni, le rughe sul volto di Hadia parlano di anni di dolore e stanchezza e la pelle delle mani che accarezzano delicatamente il viso del suo giovane figlio è ruvida.

Il consiglio religioso presso il quale si è lamentato il suocero l’ha convocata per un’udienza, ma la sola idea la terrorizza.

Hadia si preoccupa soprattutto per la figlia tredicenne, temendo che il suocero la spinga a un matrimonio precoce. Essendo stata lei stessa vittima di un matrimonio forzato, sa cosa significherebbe.

Hadia non ricorda esattamente se aveva 13 o 14 anni quando suo padre la diede in sposa a un uomo di 32 anni, in un cosiddetto matrimonio di scambio, una pratica tradizionale in cui una ragazza di una famiglia viene scambiata con una ragazza di un’altra.

“Mio padre mi ha data via in cambio del matrimonio di mio fratello. All’epoca non capivo cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato”, ha detto.

Quel matrimonio durò solo un anno. Litigi tra il fratello di Hadia e sua moglie portarono alla loro separazione, a seguito della quale anche Hadia divorziò. Pochi mesi dopo, suo padre la risposò, questa volta con l’uomo che sarebbe diventato il padre dei suoi figli.

Il suo secondo matrimonio durò 14 anni. Nonostante le difficoltà, Hadia lo descrive come una vita relativamente tranquilla. Ma con la morte del marito in un attentato suicida, il ciclo di dolore e sofferenza ricominciò da capo.

Nonostante tutte le sofferenze che ha sopportato, Hadia non abbandona mai la speranza. Sogna un futuro diverso per i suoi figli, libero dal dolore che ha conosciuto.

Ora vive in un rifugio nascosto, la cui ubicazione non è stata rivelata da Rukhshana Media. Temendo di perdere i suoi figli, nascondersi è l’unica opzione che sente di avere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”, ha detto. “Persino la legge di questo Paese darebbe ragione a un uomo come lui, un tossicodipendente.”

Nota*: Nome cambiato per motivi di sicurezza.