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L’Afghanistan a 4 anni dal ritorno dei Talebani

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Città Nuova, 19 agosto 2025, di Roberto Catalano

Nei mesi scorsi la Russia ha ristabilito rapporti diplomatici con Kabul. Sono 17 gli Stati della regione che riconoscono a tutt’oggi la giunta para-militare dell’emiro Akhundzada. Intanto, l’8 luglio la Corte penale internazionale, a causa della discriminazione contro le donne, ha emesso mandato di arresto per Akhundzada e per il capo della Corte Suprema talebana Haqqani

Difficile dimenticare le scene di disperazione all’aeroporto di Kabul con folle di uomini, donne e bambini alla ricerca di un volo per lasciare l’Afghanistan, bambini lanciati al di là delle barriere a qualche fortunato riuscito a superare gli sbarramenti (o a soldati Usa) che avrebbero potuto portarli lontano dal loro Paese. E, ancora, gente che si attaccava agli aerei in decollo in un folle tentativo di uscire dai confini, e che finivano inesorabilmente per lanciarsi nel vuoto. Vista raccapricciante che per giorni ha tenuto il mondo con gli occhi incollati ai notiziari, pur nell’impotenza di fare qualcosa, una volta che Biden aveva deciso per il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan. Sono passati 4 anni – solo 4 anni – da quell’agosto del 2021. E su quell’angolo di mondo è ripiombato il silenzio più assoluto. È progressivamente, ancorchè quasi immediatamente, uscito dalla scena mondiale. Non se ne parla più. Non si sa cosa veramente stia succedendo, ma si è coscienti che il Paese è tornato indietro di decenni, e rispetto al resto del mondo, forse anche di secoli.

In questi giorni, tuttavia, vari organi di stampa e fonti di informazione hanno tentato un bilancio di questo quadriennio all’insegna di un sistema – quello talebano – che, probabilmente, non conosce uguali in quanto a dogmatismo e implementazione della sharia islamica con l’obbligo di osservanza alla lettera. In Italia, l’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) ha pubblicato un interessante dossier a più voci che tenta di offrire uno sguardo da diverse prospettive all’Afghanistan del 2025. Quello che appare un fatto indiscutibile è il controllo totale che Hibatullah Akhundzada, il leader supremo dell’emirato islamico afghano, ha sempre più all’interno del Paese. Contemporaneamente, nei mesi scorsi, questo Paese abbandonato da tutti ha incassato il riconoscimento della Russia che ha ristabilito rapporti diplomatici con Kabul. A questo si è aggiunta la normalizzazione dei rapporti diplomatici anche con altri Paesi della regione. Sono 17 gli Stati che riconoscono a tutt’oggi la giunta para-militare dell’autodefinitosi emiro Hibatullah Akhundzada. L’occidente, al contrario, si allontana sempre più da questa parte di mondo e, alla decisione di Biden del 2021 di ritirare le truppe americane, si è aggiunta quest’anno quella della nuova amministrazione Trump di interrompere gli aiuti umanitari.

Intanto, all’interno, Akhundzada è riuscito nell’impresa di eliminare la corrente talebana cosiddetta pragmatica che, sebbene divisa sotto molti punti di vista, era unita dal desiderio di continuare ad avere rapporti aperti con i Paesi occidentali e pareva fra l’altro sincera nel promettere che le politiche di segregazione – soprattutto nel campo dell’educazione femminile e del ruolo della donna in generale – sarebbero rientrate dopo qualche tempo, con la progressiva attenuazione delle misure più severe. Niente di tutto questo si è realizzato. A 4 anni di distanza si può ragionevolmente affermare che non paiono esserci soluzioni di apertura in vista.

Ed è, forse, questa situazione più di altro ad aver spinto i Paesi occidentali a prendere le distanze da Kabul. Il riposizionamento a Doha, capitale del Qatar, delle sedi diplomatiche accreditate per l’Afghanistan è solo apparentemente un segnale di apertura. Di fatto, si tende a ridimensionare la presenza del personale e, al contempo, l’interesse per il Paese si nebulizza sempre più. Di fatto, la comunità euro-atlantica appare sempre più frustrata dagli scarsi risultati ottenuti nel confrontarsi con un regime a più facce, ma apparentemente inamovibile nelle politiche di persecuzione di genere. Proprio la discriminazione contro le donne ha offerto la materia per la recente decisione – è di martedì 8 luglio – dei giudici della Corte penale internazionale, di emettere mandato di arresto internazionale per il leader afghano Akhundzada e per Abdul Hakim Haqqani, che guida la Corte Suprema talebana. I giudici della Corte Penale Internazionale ritengono che ci siano motivi sufficienti per ritenere che i due leader del Paese asiatico «abbiano commesso – ordinando, inducendo o sollecitando – il crimine contro l’umanità di persecuzione». Si tratta di persecuzione, soprattutto e prima di tutto, «per motivi di genere, contro ragazze, donne e altre persone non conformi alla politica dei Talebani in materia di genere e identità». Si tratta di «atti di violenza diretta, ma anche di forme di danno sistemico e istituzionalizzato, compresa l’imposizione di norme sociali discriminatorie».

Intanto, riferisce l’agenzia AsiaNews, continua il deterioramento della situazione umanitaria per gli afghani che si trovano in Pakistan, dove nel corso degli anni hanno sconfinato a centinaia di migliaia. La settimana scorsa il Pakistan ha fissato al primo settembre la scadenza per la partenza di 1,4 milioni di afghani, alcuni dei quali in possesso di regolari permessi di soggiorno. Non si tratta di una novità. Il programma di rimpatri forzati era stato inizialmente approvato a ottobre 2023, ma era poi stato ufficialmente sospeso a metà 2024 a causa delle pressioni internazionali. Di recente però il Pakistan si è unito ai Paesi che hanno riallacciato i rapporti diplomatici con l’Afghanistan, inviando a giugno un proprio ambasciatore a Kabul. Secondo funzionari pakistani, le relazioni con l’Afghanistan rimangono positive e i cittadini afghani sono i benvenuti se fanno richiesta di visti e risiedono nel Paese legalmente, “ma non come rifugiati”. Un funzionario pakistano ha aggiunto, in forma anonima, che il Pakistan ha ospitato rifugiati afghani per oltre 40 anni e che adesso è il momento che se ne vadano.

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