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Tag: Afghanistan

L’esodo invisibile degli afghani cacciati dall’Iran, 500mila da giugno

Il manifesto, 17 luglio 2025, di Giuliano Battiston

Iran-Afghanistan Il pretesto: sono «collusi con il nemico sionista». Ogni giorno dal posto di confine più trafficato passano da 35mila a 50mila persone

Teheran mostra i muscoli e rispedisce in patria centinaia di migliaia di afghani, innescando una bomba demografica e sociale che l’Emirato islamico, il governo dei Talebani, non è in grado di gestire, e che qualunque governo avrebbe difficoltà a governare.

DA DIVERSE settimane l’Iran ha intensificato un processo avviato da mesi: dopo la guerra lampo con Israele, in qualche modo approfittando di una crisi che è economica oltre che politica e militare, ha accelerato le deportazioni dei migranti afghani, considerati una minaccia alla stabilità economica e alla sicurezza interna. Almeno cinquecentomila quelli rispediti oltre confine da inizio giugno, soprattutto attraverso le province afghane di Herat e di Nimruz, 1 milione e trecentomila dall’inizio dell’anno, con la minaccia di rimpatriarne altrettanti. Gli afghani sono accusati di «collusione con il nemico sionista», di fornire informazioni a Israele, di violare le leggi sull’immigrazione, di gravare sulle casse dello Stato o di commettere crimini.

Accuse ingiuste, ma sufficienti a scatenare un flusso migratorio senza precedenti, anche in chiave storica: l’Iran è infatti, insieme al Pakistan, il Paese che negli ultimi 4 decenni più ha accolto la diaspora afghana, diventando una destinazione prioritaria soprattutto per quegli afghani che cercavano e cercano maggiore sicurezza economica e, dopo il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, in alcuni casi anche sicurezza fisica, incolumità personale. Ogni giorno, nel posto di confine più trafficato, Islam Qala, che divide la città iraniana di Mashad da quella afghana di Herat, si registrano dai trentamila ai cinquantamila attraversamenti. Numeri impressionanti, che hanno spinto Roza Otunbayeva, a capo di Unama, la missione delle Nazioni unite a Kabul, a visitare Islam Qala due giorni fa.

OTUNBAYEVA ha richiamato alle proprie responsabilità la comunità internazionale: «L’enorme volume di ritorni, molti di questi bruschi e involontari, dovrebbe far scattare un campanello d’allarme in tutta la comunità globale. È una prova della nostra umanità collettiva. L’Afghanistan, già alle prese con la siccità e una crisi umanitaria cronica, non può assorbire questo shock da solo», ha detto Otunbayeva nel corso della visita, accompagnata dalle autorità di fatto. Ha poi lanciato un appello ai donatori: «Non voltatevi dall’altra parte. I rimpatriati non devono essere abbandonati».

Il suo appello finirà pressoché nel vuoto, come quello, di poche ore prima, di Tom Fletcher, il sottosegretario per gli Affari umanitari dell’Onu. Dopo una recente visita nel Paese, il suo ufficio ha rivolto un nuovo appello finanziario per soddisfare i bisogni primari della popolazione afghana e per un Paese dove, ha ricordato Fletcher, «in pochi mesi sono stati chiusi 400 presidi sanitari» per mancanza di fondi. Ma i soldi faticano ad arrivare. Spesso con il pretesto che al governo ci sono i Talebani, la cui macchina della diplomazia si è attivata per provare a convincere Teheran a rallentare i rimpatri. L’Iran, da parte sua, non fa altro che replicare quanto fa da poco meno di due anni Islamabad.

IL GOVERNO pachistano dalla fine del 2023 ha già rimpatriato 1 milione di persone, considerate senza documenti validi (parte dei quali nata in Pakistan), nell’ambito di un ambizioso piano di rimpatri forzati la cui seconda fase è iniziata l’1 aprile. Un piano usato anche come leva negoziale con il governo di Kabul, che è già alle prese con una profondissima crisi umanitaria: sono 23 milioni gli afghani che, secondo le agenzie dell’Onu, hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere.

Senzatetto a casa: i rimpatriati si scontrano con gli affitti alle stelle e la negligenza dei talebani

KabulNow, 18 luglio 2025, di Maisam Iltaf

Quando l’anno scorso Ghulam Farooq ha affittato una modesta casa nella provincia occidentale di Herat, in Afghanistan, credeva di aver trovato stabilità per la sua famiglia. Oggi, quel senso di sicurezza è svanito. Il suo padrone di casa, emigrato in Iran, è tornato e ha intimato a Farooq di andarsene immediatamente.

“Da un mese il mio padrone di casa è tornato e mi ha detto di cercare un’altra casa”, ha raccontato Farooq a KabulNow. “Ho dovuto chiudere la mia attività per cercare un alloggio, ma non c’è niente di disponibile. E se c’è una casa disponibile, l’affitto è tre volte più alto di prima”.

La situazione di Farooq riflette le difficoltà di migliaia di rimpatriati e inquilini locali, mentre le deportazioni da Iran e Pakistan aumentano, spingendo il già fragile mercato immobiliare afghano sull’orlo del baratro. Herat, centro urbano e nodo di transito chiave, è diventato il punto zero di questa crisi.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) segnala che oltre 1,2 milioni di migranti sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025 – oltre 574.000 solo dall’Iran questo mese, molti dei quali sono entrati attraverso il valico di frontiera di Herat, a Islam Qala. La maggior parte di loro sono donne e bambini.

La portata di questo rimpatrio è senza precedenti, rendendolo uno dei più grandi spostamenti di popolazione di quest’anno. I centri di assistenza a breve termine e le infrastrutture locali, già indeboliti da anni di conflitto e mancanza di finanziamenti, sono sovraffollati.

Gli affitti salgono alle stelle, la disponibilità diminuisce

Gli agenti immobiliari locali affermano che la domanda è salita alle stelle. Qader (pseudonimo), che gestisce un’agenzia immobiliare, spiega che le richieste giornaliere da parte di famiglie disperate superano di gran lunga gli annunci disponibili.

“Ricevo più di 100 clienti al giorno, ma non ho immobili da offrire”, dice Qader. “Una casa che prima costava 3.000-4.000 afghani ora costa 7.000. Case che costavano 10.000 afghani ora costano 15.000-20.000.”

Altri rapporti confermano un aumento del 40-50% degli affitti nelle principali città a seguito di restituzioni di massa.

L’OIM afferma che oltre 1,2 milioni di migranti afghani sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025. Foto d’archivio
Questo ha lasciato le famiglie locali a basso e medio reddito a dover pagare un prezzo troppo alto, poiché molti rimpatriati arrivano esausti e a mani vuote. Hamidullah, deportato dall’Iran, ha descritto il calvario:

Sono tornato 20 giorni fa. Le mie cose sono al sole a casa di mio fratello. Una casa che prima costava 4.000 afghani ora ne costa 6.000-7.000. A nessuno importa della nostra lotta. Lo stress e l’incertezza sono insopportabili.

Il crollo del mercato immobiliare è solo la punta dell’iceberg. L’economia afghana, paralizzata dall’isolamento internazionale e dal ritiro degli aiuti dopo la presa del potere da parte dei talebani, ha tassi di disoccupazione superiori al 30%, secondo la Banca Mondiale. Senza lavoro, i rimpatriati non solo non hanno un tetto, ma anche una speranza.

Gli effetti a catena sono disastrosi. Le famiglie che hanno venduto i propri beni o contratto prestiti per emigrare ora si trovano ad affrontare debiti crescenti. Gli arrivi basati sulla comunità, come Ghulam e Hamidullah, dipendono da servizi di assistenza sovraffollati, ma i finanziamenti rimangono limitati. La Croce Rossa avverte che entro la fine del 2025 potrebbero arrivare fino a un altro milione di rimpatriati dall’Iran.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto un coordinamento con i Talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. I paesi donatori rimangono riluttanti a finanziare programmi che potrebbero legittimare l’autorità dei Talebani, mentre le rigide politiche del regime, come le restrizioni all’occupazione femminile, erodono ulteriormente la fiducia.

Di conseguenza, gli sforzi di reintegrazione si basano su aiuti umanitari a breve termine: pacchi alimentari, assistenza medica di base e rifugi temporanei nelle zone di confine. Queste misure tampone rappresentano solo la superficie di un problema che, avvertono gli esperti, potrebbe destabilizzare i centri urbani.

La risposta vuota dei talebani

Sotto la pressione dell’opinione pubblica, le autorità talebane affermano di monitorare il mercato degli affitti e di aver messo in guardia i proprietari contro “aumenti ingiustificati degli affitti”. Manifesti a Herat invitano i residenti a denunciare i proprietari che sfruttano gli immobili. Ma per gli inquilini, questi avvertimenti suonano vuoti.

“Nessuno osa lamentarsi”, ha detto un residente di Herat. “Se segnaliamo un proprietario, verremo sfrattati immediatamente o subiremo abusi. Non c’è alcuna tutela legale per gli inquilini”.

Il Ministero dello Sviluppo Urbano, sotto il regime talebano, ha annunciato piani per progetti di edilizia popolare nel 2022, ma non si sono registrati progressi visibili. I funzionari citano la mancanza di fondi, ma gli analisti sostengono che il problema risieda nella governance: l’isolamento dei talebani dalla finanza internazionale ha impedito al regime di finanziare iniziative di edilizia popolare o di pianificazione urbana su larga scala.

“I talebani non hanno né le risorse né le competenze tecniche per gestire una crisi di questa portata”, ha affermato un urbanista di Kabul. “Si sono concentrati quasi esclusivamente sulla sopravvivenza politica e sul controllo religioso, non sullo sviluppo delle infrastrutture”.

In città come Herat, gli uffici comunali operano con personale ridotto e budget ridotti al minimo. Non esistono programmi strutturati per il controllo degli affitti, né sussidi per i rimpatriati, né un quadro giuridico per prevenire gli sfratti forzati.

Implicazioni umanitarie

La crisi immobiliare di Herat rispecchia le tendenze nazionali. A Kabul, un’indagine di Salam Watandar ha mostrato che i costi degli affitti sono aumentati del 40% in tre anni a causa dell’ondata di rimpatri e del deterioramento delle condizioni economiche. In tutto l’Afghanistan, l’UNHCR e altre agenzie avvertono dell’imminente “crisi dimenticata”, con la diminuzione delle risorse.

Dal 2023, questo afflusso senza precedenti, aggravato dalle deportazioni da Iran e Pakistan, ha messo a dura prova la capacità di risposta umanitaria dell’Afghanistan. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), oltre 23,7 milioni di persone – più della metà della popolazione – necessitano di assistenza umanitaria nel 2025, con i rimpatri forzati che aggiungono ulteriore pressione a risorse già ridotte.

L’UNHCR conferma che ben 1,6 milioni di rimpatriati, compresi quelli provenienti dal Pakistan, hanno messo a dura prova le comunità. Le organizzazioni umanitarie sottolineano che decine di migliaia di famiglie sono ora senza casa, senza riparo, acqua o assistenza sanitaria, mentre la malnutrizione e le malattie mentali sono in aumento.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto il coordinamento con i talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. Foto: UNAMA
L’ONU ha chiesto un urgente sostegno internazionale.

“Senza un intervento immediato – iniziative per l’edilizia abitativa a prezzi accessibili, creazione di posti di lavoro e sostegno sociale – milioni di persone rischiano di essere spinte ancora più in basso nella povertà”, ha avvertito un funzionario dell’OIM sul campo.

Gli esperti affermano che la soluzione sostenibile risiede nello sviluppo edilizio su larga scala e nella regolamentazione del mercato degli affitti, misure che richiedono risorse, governance e cooperazione internazionale, tutti aspetti che rimangono irraggiungibili sotto il regime talebano. Nel frattempo, le deportazioni da Iran e Pakistan non accennano a rallentare.

Se le deportazioni continueranno, gli esperti avvertono che i centri urbani afghani potrebbero collassare sotto il peso del fenomeno, causando disordini sociali e sfollamenti. I rimpatriati indifesi potrebbero tentare di migrare nuovamente, alimentando flussi irregolari e instabilità.

Per Farooq, Hamidullah e innumerevoli famiglie, il futuro è pieno di rischi.

“Tutto ciò che vogliamo è un tetto sopra la testa”, sussurrò Hamidullah a bassa voce. “Siamo tornati in patria, ma siamo ancora senza casa.”

[Trad. automatica]

L’amministrazione Trump sta per incenerire 500 tonnellate di cibo di emergenza

The Atlantic, 14 luglio 2025, di Hana Kiros

Per mesi i dipendenti federali avevano lanciato l’allarme: i biscotti ad alto contenuto energetico sarebbero andati sprecati.

A cinque mesi dall’inizio dello smantellamento senza precedenti dei programmi di aiuti esteri, l’amministrazione Trump ha dato ordine di incenerire il cibo invece di inviarlo alle persone all’estero che ne hanno bisogno. Quasi 500 tonnellate di cibo di emergenza – sufficienti a sfamare circa 1,5 milioni di bambini per una settimana – scadranno domani, secondo attuali ed ex dipendenti governativi a conoscenza diretta delle razioni. Entro poche settimane, mi hanno detto due di queste fonti, il cibo, destinato ai bambini in Afghanistan e Pakistan, diventerà cenere. (Le fonti con cui ho parlato per questo articolo hanno chiesto l’anonimato per timore di ripercussioni professionali.)

Verso la fine dell’amministrazione Biden, l’USAID ha speso circa 800.000 dollari per i biscotti ad alto contenuto energetico, mi hanno detto un dipendente attuale e un ex dipendente dell’agenzia. I biscotti, che contengono il fabbisogno nutrizionale di un bambino sotto i 5 anni, sono una soluzione temporanea, spesso utilizzata in situazioni in cui le persone hanno perso la casa a causa di un disastro naturale o sono fuggite da una guerra prima che le organizzazioni umanitarie riuscissero ad allestire una cucina per accoglierle. Erano conservati in un magazzino di Dubai e dovevano essere destinati ai bambini quest’anno.

Da gennaio, quando l’amministrazione Trump ha emesso un ordine esecutivo che ha bloccato praticamente tutti gli aiuti esteri americani, i dipendenti federali hanno inviato ai nuovi leader politici di USAID ripetute richieste di spedizione dei biscotti finché erano utili, secondo i due dipendenti di USAID. USAID ha acquistato i biscotti con l’intenzione di farli distribuire dal Programma Alimentare Mondiale e, in circostanze precedenti, il personale di carriera avrebbe potuto consegnarli all’agenzia delle Nazioni Unite di propria iniziativa. Ma da quando il Dipartimento per l’Efficienza Governativa di Elon Musk ha sciolto USAID e il Dipartimento di Stato ha assorbito l’agenzia, nessun denaro o voce di aiuto può essere trasferita senza l’approvazione dei nuovi responsabili degli aiuti esteri americani, mi hanno detto diversi dipendenti attuali ed ex dipendenti di USAID. Da gennaio a metà aprile, la responsabilità è ricaduta su Pete Marocco, che ha lavorato in diverse agenzie durante la prima amministrazione Trump; poi è passata a Jeremy Lewin, un laureato in giurisprudenza sulla ventina, originariamente nominato dal DOGE e ora ricopre incarichi sia presso USAID che presso il Dipartimento di Stato. Due dipendenti dell’USAID mi hanno detto che i membri dello staff che hanno inviato le note per richiedere l’autorizzazione a trasferire il cibo non hanno mai ricevuto risposta e non sapevano se Marocco o Lewin le avessero mai ricevute. (Il Dipartimento di Stato non ha risposto alle mie domande sul perché il cibo non fosse mai stato distribuito.)

A maggio, il Segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato ai rappresentanti della Commissione Stanziamenti della Camera che avrebbe garantito che gli aiuti alimentari raggiungessero i destinatari previsti prima di deteriorarsi. Ma a quel punto, l’ordine di incenerire i biscotti (che ho poi esaminato) era già stato inviato. Rubio ha insistito affinché l’amministrazione si assumesse la responsabilità americana di continuare a salvare vite umane straniere, anche attraverso gli aiuti alimentari. Ma ad aprile, secondo NPR , il governo statunitense ha eliminato tutti gli aiuti umanitari all’Afghanistan e allo Yemen, dove, secondo il Dipartimento di Stato, fornire cibo rischia di avvantaggiare i terroristi. (Il Dipartimento di Stato non ha fornito alcuna giustificazione analoga per il ritiro degli aiuti al Pakistan). Anche se l’amministrazione non fosse stata disposta a inviare i biscotti ai Paesi originariamente previsti, altri luoghi – ad esempio il Sudan, dove la guerra sta alimentando la peggiore carestia mondiale degli ultimi decenni – avrebbero potuto trarne beneficio. Invece, i biscotti nel magazzino di Dubai continuano ad avvicinarsi alla data di scadenza, dopo la quale il loro contenuto di vitamine e grassi inizierà a deteriorarsi rapidamente. A questo punto, la politica degli Emirati Arabi Uniti impedisce persino che i biscotti vengano riutilizzati come mangime per animali.

Nelle prossime settimane, il cibo verrà distrutto con un costo di 130.000 dollari per i contribuenti americani (oltre agli 800.000 dollari utilizzati per acquistare i biscotti), secondo gli operatori umanitari federali con cui ho parlato, attuali ed ex. Un attuale membro dello staff di USAID mi ha detto di non aver mai visto così tanti biscotti distrutti nei suoi decenni di lavoro negli aiuti umanitari esteri americani. A volte il cibo non viene conservato correttamente nei magazzini, oppure un’alluvione o un gruppo terroristico complica le consegne; questo potrebbe comportare, al massimo, la perdita di qualche decina di tonnellate di alimenti fortificati in un anno. Ma molti degli operatori umanitari con cui ho parlato hanno ribadito di non aver mai visto prima il governo statunitense rinunciare semplicemente a cibo che avrebbe potuto essere utilizzato con successo.

I biscotti di emergenza destinati alla distruzione rappresentano solo una piccola frazione del tipico investimento annuale degli Stati Uniti in aiuti alimentari. Nell’anno fiscale 2023, USAID ha acquistato oltre 1 milione di tonnellate di cibo da produttori statunitensi. Ma il crollo degli aiuti esteri americani aumenta la posta in gioco di ogni perdita. In genere, i biscotti sono la prima cosa che gli operatori del Programma Alimentare Mondiale consegnano alle famiglie afghane costrette a lasciare il Pakistan e a tornare nel loro Paese d’origine, afflitto da anni da una grave malnutrizione infantile. Ora il WFP può sostenere solo un afghano su 10 che ha urgente bisogno di assistenza alimentare. Il WFP stima che, a livello globale, 58 milioni di persone siano a rischio di fame estrema o di carestia perché quest’anno non ha i fondi per sfamarle. Secondo i calcoli di uno degli attuali dipendenti di USAID con cui ho parlato, il cibo destinato alla distruzione avrebbe potuto soddisfare il fabbisogno nutrizionale di ogni bambino che affronta un’insicurezza alimentare acuta a Gaza per una settimana.

Nonostante le ripetute promesse dell’amministrazione di continuare gli aiuti alimentari e la testimonianza di Rubio, che non avrebbe permesso che il cibo esistente andasse sprecato, altri prodotti alimentari potrebbero presto esaurirsi. Centinaia di migliaia di scatole di paste alimentari di emergenza, già acquistate, stanno attualmente accumulando polvere nei magazzini americani. Secondo gli inventari USAID di gennaio, oltre 60.000 tonnellate di cibo – in gran parte coltivato in America e già acquistato dal governo statunitense – erano all’epoca depositate in magazzini in tutto il mondo. Tra queste, 16.000 tonnellate di piselli, olio e cereali, immagazzinate a Gibuti e destinate alla distribuzione in Sudan e in altri paesi del Corno d’Africa. Un’ex funzionaria di alto livello dell’Ufficio per l’Assistenza Umanitaria di USAID mi ha detto che, quando ha lasciato il suo incarico all’inizio di questo mese, sembrava che si fosse spostata solo una minima parte del cibo; uno degli attuali dipendenti USAID con cui ho parlato ha confermato la sua impressione, sebbene abbia osservato che, nelle ultime settimane, piccole spedizioni hanno iniziato a lasciare il magazzino di Gibuti.

Tali operazioni sono più difficili da gestire per USAID oggi rispetto allo scorso anno, perché molti degli operatori umanitari e degli esperti della catena di approvvigionamento che un tempo coordinavano la distribuzione di cibo americano alle persone affamate in tutto il mondo non hanno più il lavoro. Il mese scorso, gli amministratori delegati delle due aziende americane che producono un altro tipo di cibo di emergenza per bambini malnutriti hanno entrambi dichiarato al New York Times che il governo sembrava incerto su come spedire il cibo già acquistato. Né, mi hanno detto, hanno ricevuto nuovi ordini. (Un portavoce del Dipartimento di Stato mi ha detto che il dipartimento ha recentemente approvato ulteriori acquisti, ma entrambi gli amministratori delegati mi hanno detto di non aver ancora ricevuto gli ordini. Il Dipartimento di Stato non ha risposto ad ulteriori domande su questi acquisti). Ma anche se l’amministrazione Trump decidesse domani di acquistare altri aiuti alimentari – o semplicemente distribuire ciò che il governo possiede già finché il cibo è ancora utile – potrebbe non essere più in grado di garantire che qualcuno li riceva.

[Trad. automatica]

Il Regno Unito ha evacuato segretamente migliaia di persone dall’Afghanistan

Il Post, 15 luglio 2025

A partire dalla primavera del 2024 il Regno Unito ha avviato un programma finora segreto con cui ha accolto migliaia di persone afghane che volevano scappare dal paese dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti, nell’agosto del 2021, e il ritorno al potere dei talebani. L’esistenza del programma è stata resa nota solo oggi: tutte le informazioni in merito sono state per anni riservate per via dell’ordine di un tribunale.

L’inizio del programma è legato a un fatto successo a febbraio del 2022: un funzionario del ministero della Difesa britannico rese pubblici per errore dati e informazioni sensibili su quasi 19mila persone afghane che avevano collaborato in qualche modo con il governo britannico, e che dopo il ritorno dei talebani avevano fatto domanda per essere trasferite dall’Afghanistan al Regno Unito (l’esercito britannico arrivò in Afghanistan nel 2001 al fianco di quello statunitense, e se ne andò nel 2021).

Il governo britannico, allora guidato dai Conservatori, apprese dell’errore ad agosto del 2023, quando le informazioni di alcune persone afghane coinvolte nella fuga di dati iniziarono a comparire online. A quel punto il governo decise di avviare un programma di ricollocamento segreto, chiamato Afghan Relocation Route (ARR), per timore che qualcuna tra le persone citate potesse subire ripercussioni.

Il ministero della Difesa britannico ottenne da un tribunale un’ingiunzione di non pubblicazione: in sostanza venne vietato parlare del caso, e come detto sia l’errore del funzionario sia il programma di ricollocamento sono rimasti segreti fino a oggi, quando l’ordine è stato sollevato. Nel frattempo è stata condotta un’indagine commissionata dal ministero, secondo cui la pubblicazione di quei dati non ha messo particolarmente a rischio i cittadini afghani coinvolti.

Finora il programma segreto ha facilitato l’arrivo nel Regno Unito di 4.500 persone, tra collaboratori afghani e i loro familiari, ed è costato circa 400 milioni di sterline (460 milioni di euro). Altre 2.400 persone hanno già avviato le pratiche per trasferirsi e lo faranno a breve: in totale il costo dell’operazione è stimato in 850 milioni di sterline, quasi un miliardo di euro. L’attuale governo, dei Laburisti, ha detto di aver interrotto il programma, quindi non saranno più accettate nuove richieste.

Nessuno vuole più i rifugiati afghani, i Paesi che li ospitano vogliono rimpatriarli: rischio crisi umanitaria

Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2025, di Davide Cancarini

Pakistan, Iran e Tagikistan (ma ci sta pensando anche la Germania) impongono il rimpatrio di migliaia di afghani, mentre i Talebani faticano a gestire l’emergenza

Il governo dei Talebani in Afghanistan sta ottenendo importanti successi diplomatici e una crescente legittimazione regionale che ha portato addirittura la Russia a riconoscere ufficialmente il regime che guida Kabul, primo Paese al mondo a compiere questo passo controverso. Se da un lato quindi le cancellerie dell’area approfondiscono la propria relazione con il movimento fondamentalista, dall’altro alcune di esse stanno stringendo le maglie nei confronti dei rifugiati afghani.

A iniziare quasi due anni fa è stato il Pakistan, gigante asiatico che confina con l’Afghanistan e che ospita, o forse sarebbe meglio dire ospitava, circa 4 milioni di rifugiati provenienti dal Paese vicino. Molti di essi erano presenti sul territorio pachistano da ben prima dell’agosto 2021 e dal ritorno al potere dei Talebani. D’altronde, i motivi per fuggire non sono mancati nel corso dei decenni, tra l’invasione sovietica, vari round di regimi teocratici controllati dagli Studenti coranici e la ventennale operazione militare statunitense lanciata dopo l’11 settembre 2001. Islamabad a un certo punto ha deciso di dire stop, accusando i cittadini afgani presenti sul proprio territorio – regolarmente o meno – di compiere attentati e in generale di destabilizzare il già fragile equilibrio interno. Trovare numeri precisi non è un’impresa semplice, ma dall’inizio del 2025 sarebbero più di 800mila le persone rimandate in Afghanistan dal Pakistan.

Nel corso del tempo anche l’Iran, altro Paese che confina con il territorio afgano, si è accodato e Teheran aveva dato come scadenza il 6 luglio per il rimpatrio dei più di 4 milioni di individui di origine afghana presenti nel Paese. Tra inizio giugno e inizio luglio ecco quindi un altro esodo: l’Onu ha quantificato in circa 450mila persone il flusso di migranti rispediti in Afghanistan, una situazione che il regime dei Talebani fa sempre più fatica a gestire.

Molto meno rilevante in termini numerici, ma comunque significativo della tendenza in atto, è il caso del Tagikistan. Il governo di Dushanbe ha appena annunciato di aver stabilito un orizzonte temporale di quindici giorni per consentire agli afghani presenti sul territorio della piccola repubblica centro asiatica, geograficamente contigua all’Afghanistan, di andarsene. In questo caso, data anche la grande chiusura e il controllo capillare sul Paese da parte del regime che guida il Tagikistan, si parla di circa 9mila persone.

⁠ Addirittura, anche la Germania, attraverso il suo ministro degli Interni, ha annunciato la possibilità di stabilire un canale di dialogo diretto con il regime di Kabul per trovare il modo di deportare dalle città tedesche almeno i cittadini afghani condannati per varie fattispecie criminali.

Gli ufficiali talebani stanno chiedendo a gran voce che il ritorno dei rifugiati avvenga in maniera progressiva, sia perché questi grandi flussi mettono ulteriore pressione sulla già disastrata situazione sociale interna, oltre a causare una crisi umanitaria di proporzioni immani, sia per i possibili contraccolpi economici. Molti afghani, infatti, hanno abbandonato il Paese di origine anche alla ricerca di migliori condizioni economiche e con le rimesse inviate in patria hanno a lungo garantito una forma di sostentamento per le proprie famiglie. Dal ritorno al potere dei Talebani, anche per le sanzioni internazionali, le rimesse sono costantemente calate e questa situazione potrebbe portare al loro definitivo crollo. Di contro, per il movimento fondamentalista stabilire delle modalità certe di rimpatrio ed ergersi a interlocutore legittimo può rappresentare una vittoria sul fronte politico e del riconoscimento internazionale così tanto ricercato.

Da molte parti si stanno alzando voci contro le espulsioni di massa di persone che rischiano sia di perdere tutto quello che erano faticosamente riuscite a costruirsi nei Paesi d’accoglienza, sia di trovare una situazione interna disastrosa o addirittura essere perseguitati per la loro opposizione al regime teocratico afgano. Difficilmente però il flusso si interromperà. Per Paesi come il Pakistan e l’Iran è infatti molto semplice additare i rifugiati afgani come responsabili di molti dei problemi interni che li affliggono e, attraverso le espulsioni e in assenza di soluzioni strutturali, alleggerire almeno in parte la crisi sociale che attanaglia i rispettivi contesti. Le espulsioni possono anche essere usate come merce di scambio con i Talebani che potrebbero essere spinti a garantire concessioni di varia natura a Islamabad e Teheran a fronte dello stop ai rimpatri. Tutto questo sempre e solo sulla pelle dei cittadini afghani.

“Ci hanno buttati via come spazzatura”: l’Iran accelera la deportazione di 4 milioni di afghani prima della scadenza

The Guardian, 7 luglio 2025 di Hamasa Haqiqatyar e Rad Radan, da Zan Times

Migliaia di donne sole costrette a tornare affrontano una repressione estrema e l’indigenza a causa delle leggi dei talebani che proibiscono loro di lavorare o viaggiare senza un tutore maschio.

I rifugiati costretti a tornare a vivere sotto il regime sempre più repressivo dei talebani hanno parlato della loro disperazione mentre l’Iran accelera la deportazione di circa 4 milioni di afghani fuggiti nel paese.

Solo nell’ultimo mese, oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, sono tornate in Afghanistan dall’Iran, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni. I numeri sono aumentati prima della scadenza di domenica, fissata dal regime iraniano, per tutti gli afghani senza documenti che devono lasciare il Paese.

I talebani, tornati al potere nel 2021, sono stati accusati di aver imposto un sistema di apartheid di genere in Afghanistan. Le donne che tornano nel Paese devono convivere con leggi oppressive che impediscono loro di mostrare il proprio volto, parlare o apparire in pubblico, oltre a essere escluse dalla maggior parte dei lavori e dell’istruzione. Chiunque venga sorpreso a violare queste regole rischia la fustigazione in pubblico .

Una donna dietro il finestrino di una cabina parla con una donna che indossa un velo in prima fila fuori

Parlando con il Guardian e con l’agenzia di stampa afghana Zan Times , a un valico di frontiera nel sud dell’Afghanistan, Sahar*, 40 anni, viaggia con cinque figli e afferma di non avere idea di dove andrà a vivere ora. Vedova originaria di Baghlan, una città nel nord dell’Afghanistan, viveva in Iran da oltre un decennio. Gestiva una piccola sartoria e aveva recentemente versato una caparra per una casa. La scorsa settimana, racconta, è stata arrestata, prelevata con i figli da un campo profughi vicino alla città meridionale di Shiraz e deportata.

“Sono arrivati ​​nel cuore della notte. Li ho implorati di darmi due giorni per recuperare le mie cose. Ma non mi hanno ascoltato.” Sahar, deportata afghana “Non sono nemmeno riuscita a mettere in valigia i loro vestiti. Sono arrivati ​​nel cuore della notte. Li ho implorati di darmi solo due giorni per recuperare le mie cose. Ma non mi hanno ascoltato. Ci hanno buttati fuori come spazzatura.”

Fino a poco tempo fa, le donne venivano raramente rimpatriate forzatamente dall’Iran. Gli uomini, spesso lavoratori clandestini, avevano maggiori probabilità di essere arrestati ed espulsi. Ma i funzionari di frontiera afghani affermano che di recente si è verificato un cambiamento, con almeno 100 donne non accompagnate espulse attraverso un unico valico di frontiera nella provincia di Nimroz, nel sud del Paese, tra marzo e maggio di quest’anno.

Tornare in Afghanistan senza un tutore maschio mette le donne in diretto conflitto con la legge talebana, che proibisce loro di viaggiare da sole. Molte di quelle rimpatriate dall’Iran si ritrovano bloccate al confine, impossibilitate a proseguire il viaggio.

Con temperature che ora raggiungono i 52 °C, le autorità locali affermano che diverse persone sono morte durante gli attraversamenti forzati. I funzionari di frontiera affermano che almeno 13 corpi sono arrivati ​​nelle ultime due settimane, ma non è chiaro se siano morti per il caldo e la sete o se siano stati uccisi durante i raid aerei israeliani in Iran.

Chi arriva ai valichi di frontiera nell’Afghanistan meridionale dice di essere assetato, affamato ed esausto, dopo aver camminato per ore sotto il sole. La maggior parte non ha effetti personali, documenti o un piano su dove vivere.

“Da Shiraz a Zahedan [vicino al confine afghano], ci hanno portato via tutto. Sulla mia carta di credito c’erano 15 milioni di toman (110 sterline) . Una bottiglia d’acqua costava 50.000 toman, un panino freddo 100.000. E se non ce l’avevi, tuo figlio se moriva”, racconta Sahar.

I talebani affermano di offrire alloggio a breve termine e assistenza per il trasporto alle donne deportate senza un mahram (un uomo adulto che possa accompagnarle durante il viaggio). Ma molte rimpatriate affermano di non aver ricevuto alcun aiuto. Secondo la politica dei talebani, alla maggior parte delle donne single è vietato ricevere terreni, viaggiare da sole nella propria provincia d’origine o trovare un impiego.

Sahar dice che le sue opzioni in Afghanistan sono scarse. Ha una madre anziana a Baghlan, ma non ha casa, lavoro e marito, il che significa che, sotto il regime talebano, non può viaggiare da sola né lavorare legalmente. “Ho chiesto terra [ai talebani], qualsiasi cosa per ricominciare. Mi hanno detto: ‘Sei una donna, non hai mahram. Non hai i requisiti'”.

Molti finiscono per affidarsi alla famiglia allargata o a reti informali. Una donna, tornata di recente con un neonato, racconta di essersi vista negare cibo e alloggio. “Mi hanno detto: ‘Non sei idonea. Non hai un uomo con te’. Ma il mio bambino ha solo quattro giorni. Dove dovrei andare?”

L’agenzia delle Nazioni Unite, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e altri gruppi forniscono aiuti temporanei ai valichi di frontiera, ma non hanno il mandato o le risorse per un supporto a lungo termine.

Sugli autobus che trasportano le deportate dai centri di detenzione ai confini con l’Afghanistan, le donne raccontano anche di essere state oggetto di abusi verbali, richieste di tangenti per i servizi di base e di mancanza di aria condizionata a causa del caldo estremo. “Dicevano che era uno spreco per voi afghani. Mio figlio piangeva per il caldo, ma l’autista rideva e ci prendeva in giro”, racconta Zahra*.

* I nomi sono stati cambiati

Kreshma Fakhri ha contribuito a questo articolo.

[Trad. automatica]

 

Afghanistan, la crisi è sia dentro che fuori dei confini. E i Paesi vicini espellono i profughi

la Repubblica Mondo Solidale, 4 luglio 2025

Rientrare in Afghanistan vuol dire, soprattutto per le ragazze, affrontare l’ossessione liberticida dei talebani. L’84% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà

ROMA – Si avvicina il quarto anniversario del ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, quando, il 15 agosto 2021 issarono la loro bandiera sul palazzo presidenziale di Kabul, dopo l’uscita frettolosa dei contingenti Nato a guida statunitense, di cui era parte anche l’Italia. Da allora, la condizione di vita degli afghani non accenna migliorare né per i residenti, né per i profughi nei Paesi vicini. E’ su questi ultimi che in settimana si sono concentrati l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) e la Federazione di Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale (Ifrc), che hanno lanciato l’allarme sui ritorni forzati da Pakistan e Iran, principali paesi di destinazione per i rifugiati.

Dal Pakistan rientrati 1 milione di rifugiati. Dal Pakistan secondo l’Ifrc, dal 2023 sono rientrati un milione di afghani nel quadro della politica promossa da Islamabad per espellere tutti i profughi afghani residenti irregolarmente. Una dinamica che si è intensificata con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, a gennaio scorso.Quanto all’Iran, primo paese al mondo per popolazione rifugiata secondo dati Unhcr (3,4 milioni), a marzo ha varato una legge che stabilisce l’interruzione al rinnovo del permesso di soggiorno per gli afghani nel Paese. Ancora l’Ifrc avverte che 800mila afghani hanno attraversato il valico di frontiera di Islam Qala, nell’Afghanistan occidentale, di ritorno dall’Iran da gennaio 2025. Di questi, secondo l’Agenzia Onu, 640mila sono rientrati solo nel mese di giugno.

Le persone arrivano esauste. Gli organismi umanitari avvertono che le persone spesso arrivano esauste e senza cibo, acqua o riparo adeguati in un periodo dell’anno segnato dall’aumento delle temperature, aumentando anche la pressione su comunità già in affanno.Lanciano quindi un appello alla comunità internazionale a intervenire a sostegno delle popolazioni.In questo quadro, secondo gli esperti si fanno decisamente sentire gli effetti dei tagli agli aiuti umanitari stabiliti da diversi governi, a partire dagli Stati Uniti.

Da un giorno all’altro sospese mille ostetriche. “Da un giorno all’altro abbiamo dovuto tagliare mille ostetriche e questo significa che delle donne probabilmente moriranno o sono morte partorendo, che i neonati non sopravvivono e che c’è un aumento nella violenza di genere” ha riferito alla Dire Mariarosa Cutillo di Unfpa, il Fondo Onu per la popolazione. Arafat Jamal, rappresentante dell’Unhcr a Kabul, avverte: “Le famiglie afghane vengono sradicate ancora una volta, arrivano con pochi effetti personali, esauste, affamate, spaventate da ciò che le aspetta in un Paese in cui molti di loro non hanno mai messo piede.

La paura delle ragazze per la libertà di movimento. Le donne e le ragazze sono particolarmente preoccupate, perché temono le restrizioni alla libertà di movimento e ai diritti fondamentali come l’istruzione e l’occupazione”.Un quadro confermato dalla famiglia Shukohman, residente in Iran, il cui visto scade a metà agosto: un termine che non pone fine solo alla residenza ma riduce quasi a zero le possibilità di curare la piccola Ayeda, due anni, affetta da Colestasi intraepatica progressiva familiare (Pfic): è una malattia genetica che colpisce il fegato, causa prurito invalidante, ittero e, senza cure, può causare cirrosi epatica e quindi morte.”Mia figlia soffre moltissimo” racconta la mamma di Ayeda all’Agenzia Dire, “piange per il dolore e con gli occhi mi chiede aiuto, ma io non posso fare niente per lei”.

La raccolta di firme. Gli organismi ieri hanno anche lanciato una raccolta firme sulla piattaforma Change.org, evidenziando che in Italia “esistono centri di riferimento con competenze consolidate sulle malattie epatiche rare, in grado di offrire ad Ayeda una possibilità”. L’accoglienza nel nostro Paese “farà la differenza tra la vita e la morte”, concludono.La mamma di Ayeda aggiunge: “Non avremmo mai voluto lasciare l’Afghanistan, ma abbiamo dovuto. Mi mancano profondamente i miei genitori, i miei amici, le valli e le montagne del nostro villaggio. Ma ora rientrare è impossibile”.

L’84% della popolazione sotto la soglia di povertà. In Afghanistan la situazione è drammatica. L’Onu avverte che l’84% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Emergency in settimana ha diffuso il rapporto ‘Accesso alle cure d’urgenza, critiche e chirurgiche in Afghanistan’, dedicato proprio alle difficoltà che la popolazione incontra ad accedere alla sanità, sia per i servizi scarsi o difficili da raggiungere, sia per i costi in aumento.

Tre afghani su 5 non possono curarsi. Dalle interviste raccolte dai ricercatori è emerso che 3 afghani su 5 non possono pagare le cure e per ottenerle spesso si indebitano chiedendo denaro in prestito o vendendo i propri beni.Un afghano su quattro invece deve posticipare o annullare un intervento chirurgico perché non può pagarlo, mentre uno su cinque ha mancato un appuntamento di controllo. Emergency quindi avverte che questa situazione porta a peggioramenti della salute, spesso fatali: oltre il 33% degli intervistati ha riportato una disabilità o un decesso dovuti al mancato accesso alle cure.

La Russia è il primo Paese a riconoscere il governo talebano dell’Afghanistan

Aljazeera, 3 luglio 2025

Ad aprile, la Corte Suprema ha revocato la qualifica di “terrorista” del gruppo, mentre Mosca cerca la normalizzazione nel tentativo di acquisire influenza regionale.

La Russia ha accettato le credenziali di un nuovo ambasciatore dell’Afghanistan nell’ambito di un’iniziativa volta a costruire relazioni amichevoli con le autorità talebane del Paese, che hanno preso il potere quattro anni fa, quando le truppe statunitensi si sono ritirate dal Paese.

“Crediamo che l’atto di riconoscimento ufficiale del governo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan darà impulso allo sviluppo di una produttiva cooperazione bilaterale tra i nostri Paesi in vari settori”, ha affermato giovedì il Ministero degli Affari Esteri russo in una nota.

Con questa mossa la Russia diventa il primo Paese al mondo a riconoscere il governo talebano del Paese.

“Questa coraggiosa decisione sarà un esempio per gli altri”, ha affermato il ministro degli Esteri afghano Amir Khan Muttaqi in un video di un incontro di giovedì con Dmitry Zhirnov, ambasciatore russo a Kabul, pubblicato su X.

“Ora che il processo di riconoscimento è iniziato, la Russia è davanti a tutti.”

È probabile che la mossa venga seguita con attenzione da Washington, che ha congelato miliardi di dollari in asset della banca centrale afghana e imposto sanzioni ad alcuni alti dirigenti talebani, contribuendo a isolare in larga misura il settore bancario afghano dal sistema finanziario internazionale.

Il gruppo ha preso il potere in Afghanistan nell’agosto 2021, quando le forze statunitensi che sostenevano il governo del Paese, riconosciuto a livello internazionale, si sono ritirate.

Mosca, che ha definito il ritiro degli Stati Uniti un “fallimento”, da allora ha adottato misure per normalizzare i rapporti con le autorità talebane, considerandoli un potenziale partner economico e un alleato nella lotta al terrorismo.

Una delegazione talebana ha partecipato al principale forum economico russo a San Pietroburgo nel 2022 e nel 2024, e il principale diplomatico del gruppo ha incontrato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Mosca lo scorso ottobre.

Nel luglio 2024, il presidente russo Vladimir Putin ha definito i talebani “alleati nella lotta contro il terrorismo”, in particolare contro lo Stato islamico della provincia di Khorasan, ISKP (ISIS-K), un gruppo responsabile di attacchi mortali sia in Afghanistan che in Russia.

Ad aprile, la Corte Suprema russa ha revocato la qualifica di “terrorista” attribuita al gruppo.

Quel mese Lavrov dichiarò che “le nuove autorità a Kabul sono una realtà”, esortando Mosca ad adottare una “politica pragmatica, non ideologizzata” nei confronti dei talebani.

Competere per l’influenza
L’atteggiamento di Mosca nei confronti dei talebani è cambiato drasticamente negli ultimi due decenni.

Il gruppo fu formato nel 1994 durante la guerra civile afghana, in gran parte da ex combattenti mujaheddin sostenuti dagli Stati Uniti che avevano combattuto contro l’Unione Sovietica negli anni ’80.

La guerra sovietico-afghana si concluse con una cocente sconfitta per Mosca, che potrebbe aver accelerato il declino dell’URSS.

Nel 2003 la Russia ha inserito i talebani nella sua lista nera dei “terroristi” a causa del loro sostegno ai separatisti del Caucaso settentrionale.

Ma il ritorno al potere dei talebani nel 2021 ha costretto la Russia e altri paesi della regione a cambiare rotta, nella loro competizione per aumentare la propria influenza.

La Russia è stato il primo paese ad aprire un ufficio di rappresentanza commerciale a Kabul dopo la presa del potere da parte dei talebani e ha annunciato l’intenzione di utilizzare l’Afghanistan come hub di transito per il gas diretto al Sud-est asiatico.

Il governo afghano non è riconosciuto ufficialmente da nessun organismo mondiale e le Nazioni Unite si riferiscono all’amministrazione come “autorità talebana de facto”.

[Trad. automatica]

I Talebani vietano anche il bigliardino: è a rischio idolatria

CISDA, Redazione, 6 luglio 2025

I Talebani non danno tregua con le loro farneticanti e repressive disposizioni. Dalla rassegna stampa locale emergono sempre nuove proibizioni, a volte generali provenienti dal capo Akhundzada e dalla legge sulla Propagazione dei Vizi e delle Virtù, a volte solo locali. Tutte comunque rivolte al controllo dei comportamenti individuali nella vita privata. E non colpiscono più solo le donne…

 

In Afghanistan International troviamo questa notizia:

“A Daikundi i talebani vietano il bigliardino, citando i rischi di idolatria”

I talebani hanno vietato il calcio balilla nella provincia di Daikundi, secondo quanto riferito da fonti locali ad Afghanistan International. Il gruppo sostiene che le miniature dei giocatori del gioco assomigliano a idoli, cosa che, a loro dire, è proibita dall’Islam.
Mercoledì 28 maggio 2025 alcune fonti hanno riferito che i talebani hanno ordinato ai club di calcio balilla di rimuovere le teste delle miniature dei giocatori per consentire la continuazione del gioco. La mancata osservanza di queste disposizioni comporterà il divieto assoluto di giocare.
Negli ultimi quattro anni, il governo talebano ha progressivamente limitato o vietato vari giochi e attività ricreative in Afghanistan. Recentemente, l’autorità sportiva talebana aveva sospeso la Federazione Scacchistica Afghana, dichiarando gli scacchi “haram” (proibiti).

Il 19 giugno su AMU Tv:

“I talebani vietano gli smartphone nelle scuole di Kandahar”

Secondo fonti a conoscenza della direttiva, la Direzione dell’istruzione dei talebani nella provincia di Kandahar ha emesso un’ordinanza che vieta l’uso degli smartphone sia agli insegnanti che agli studenti in tutte le scuole della regione.
Il divieto si basa su un ordine diretto del leader talebano Hibatullah Akhundzada e rimarrà in vigore fino a nuovo avviso, secondo quanto riferito da alcune fonti. I trasgressori affronteranno conseguenze legali, secondo la dichiarazione, condivisa con dirigenti scolastici e personale docente all’inizio di questa settimana.
Un preside di una scuola superiore pubblica di Kandahar ha affermato che il divieto allontanerà ulteriormente gli insegnanti dagli strumenti didattici moderni. “In molti paesi gli istituti scolastici usano internet per connettersi e migliorare la qualità dell’insegnamento”, ha affermato. “Qui, persino gli strumenti tecnologici di base sono vietati”.

Il 16 giugno ancora su Afghanistan International:

“I talebani criminalizzano l’uso di account falsi sui social media”

Il Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio dei Talebani ha annunciato che l’uso di falsi account sui social media è ora considerato un reato, nell’ambito di una più ampia repressione delle attività online.
In una dichiarazione rilasciata questa settimana, il portavoce del ministero Saif-ul-Islam Khyber ha avvertito che chi viola la direttiva andrà incontro a gravi conseguenze legali. “Nessuno dovrebbe fare un uso improprio dei social media”, ha affermato, aggiungendo che le piattaforme online devono essere utilizzate esclusivamente per “condividere informazioni accurate, affari, istruzione e sensibilizzazione pubblica”.
L’annuncio segna l’ultima di una serie di restrizioni imposte dai talebani alle piattaforme digitali. Il ministero, in coordinamento con l’agenzia di intelligence talebana, ha già arrestato e, a quanto pare, torturato diversi utenti dei social media accusati di diffondere contenuti anti-talebani.

Ancora su AMU Tv il 27 giugno:

“I talebani vietano la fotografia agli studenti dell’Università di Kandahar”

Gli studenti dell’Università di Kandahar affermano che i talebani hanno proibito la fotografia e la videoripresa all’interno del campus, estendendo le restrizioni sempre più stringenti a tutte le istituzioni educative del Paese.
Diversi studenti hanno raccontato ad Amu TV che durante una recente cerimonia di premiazione i talebani hanno avvertito i partecipanti che era vietato scattare foto o video e proibito di farlo anche in futuro.
Gli studenti di giornalismo dell’università hanno riferito che avvertimenti simili erano già stati emessi in precedenza, specificamente rivolti al loro corso di studi, lamentando che l’ordine di non scattare foto o registrare video all’interno dell’università ostacola la loro formazione accademica e il loro sviluppo professionale.
Il divieto arriva mentre le autorità talebane estendono norme sociali sempre più restrittive in tutto il Paese. Fotografare esseri viventi, persone e animali compresi, è stato dichiarato illegale in quasi la metà delle province afghane e Kandahar è stata indicata come il punto di partenza di questa tendenza nazionale.

Su Daryo

“L’Afghanistan reprime gli utenti dei social media e dei videogiochi con arresti di massa”

L’11 maggio i Talebani hanno rilasciato una dichiarazione in cui hanno rafforzato la loro posizione sulla condotta digitale, avvertendo che l’utilizzo dei social media per “scopi non etici e illegali” avrebbe comportato conseguenze legali. Il regime ha ribadito i divieti su TikTok e sul videogioco PUBG, messi al bando nel 2023 perché “corrompono i giovani” promuovendo l’immoralità.
La repressione si è ulteriormente intensificata il 13 maggio, quando Shir Ali Mubariz, noto personaggio di TikTok della provincia di Baghlan, è stato arrestato da agenti dell’intelligence talebana. Noto per le sue divertenti dirette streaming, è stato accusato di “comportamento scorretto” sui social media. La sua detenzione evidenzia la più ampia campagna del regime per reprimere i contenuti digitali che si discostano dai suoi rigidi codici ideologici e religiosi.
Saif al-Islam Khyber, un portavoce dei talebani, ha affermato che i social media dovrebbero essere utilizzati solo per “istruzione, informazione affidabile e affari legittimi” e ha avvertito che “deviazioni ideologiche, insulti, discriminazioni o qualsiasi abuso contrario ai valori religiosi” sarebbero stati considerati reati.

In AMU Tv il 30 maggio:

“A Herat i Talebani impongono multe agli uomini che saltano le preghiere collettive”

Secondo quanto riportato dai residenti informati sulla disposizione, nella provincia occidentale di Herat i talebani hanno imposto una multa agli uomini che non hanno partecipato alle preghiere quotidiane nelle moschee locali.
Otto fonti locali hanno confermato ad Amu che il Ministero talebano per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio ha ordinato ai responsabili delle moschee di monitorare la presenza dei fedeli e di imporre una multa di 100 afghani – circa 1,15 dollari – a chiunque si assenti dalle preghiere quotidiane. La misura fa parte di una più ampia estensione delle misure di controllo religioso e sociale in tutta la città.
I residenti hanno affermato che le pattuglie talebane hanno intensificato il controllo negli spazi pubblici, nei mercati e nei terminal dei mezzi di trasporto, controllando sia gli uomini che le donne per verificare il rispetto del codice di abbigliamento e degli obblighi di preghiera.
Nel vivace mercato dell’usato di Herat, noto come Bazar-e Lailami, la polizia morale avrebbe effettuato ispezioni brandendo fruste, secondo quanto riferito dai residenti. In molti hanno affermato che alle donne vestite con cappotti o altri abiti non approvati era vietato entrare nei centri commerciali come Qasr-e Negine e Qasr-e Herat.
“Negli ultimi giorni, le restrizioni per le donne si sono intensificate”, ha detto una donna. “Anche se già indossavamo abiti lunghi e mascherine, ora ci viene detto che non possiamo uscire di casa senza un abito da preghiera. La polizia morale ha bloccato entrambi i lati della strada di Lailami, nonostante fosse affollata prima dell’Eid.”
Un altro residente ha raccontato di essere stato fermato dagli agenti talebani mentre faceva la spesa con la moglie. “Hanno fermato la nostra auto e mi hanno intimato di non far uscire di nuovo mia moglie indossando un cappotto invece di un abito da preghiera”, ha detto. “Controllavano taxi e risciò, non ovunque, ma in alcuni posti di blocco”.
L’applicazione della legge si è estesa anche agli uomini. In diversi quartieri, i talebani avrebbero distribuito quelle che la gente del posto chiama “liste di presenza alle moschee”, usate per prendere nota di chi partecipa alle preghiere della comunità. Un medico ha dichiarato di ricevere multe quotidiane nonostante i suoi orari di lavoro impegnativi. “Frequento la moschea appena posso”, ha detto. “Ma se perdo le preghiere serali o notturne per via del lavoro, vengo multato di 100 afghani ogni volta. I fedeli della moschea sanno che sono un frequentatore abituale, ma non importa. Non c’è nessuno a cui fare appello”.

Afghanistan International, il 13 giugno

“A Herat, i Talebani vietano la guida alle donne”

Secondo una lettera ufficiale ottenuta dai media locali, la Direzione per la diffusione della virtù e la prevenzione del vizio dei talebani nella provincia di Herat ha ordinato all’autorità locale del traffico di vietare alle donne di guidare.
La lettera, firmata dallo sceicco Azizurrahman Muhajir, capo della direzione, affermando che guidare è “una professione importante e di grande responsabilità” e che anche piccoli errori possono causare la perdita di vite umane, sostiene che “le donne hanno la mente distratta e sono incapaci di imparare a guidare”.

Il velo ci riguarda tutte

 

Non solo in Iran, o in Afghanistan… il velo ci riguarda tutte. Una riflessione di Giuliana Sgrena

Giuliana Sgrena,  Facebook, 4 luglio 2025

Nei paesi musulmani le donne lottano, rischiano la vita per liberarsi dal velo, in occidente la sinistra e persino alcune femministe difendono l’uso del velo. Perché? Per ignoranza o per relativismo culturale, per paura di essere confusi con la destra? La destra è contro il velo perché difende la cristianità dell’Italia e dell’Europa, io ho sempre sostenuto le donne che si ribellano al velo, anche in Italia, perché i diritti delle donne sono diritti universali.

A proposito delle leggi antivelo – legittime in un paese laico come la Francia, meno in uno stato non laico come l’Italia – non si entra nel merito della questione anche perché, da sempre, bandiera della Lega. A tale proposito, leggo sulla Repubblica di oggi (4 luglio 2025) una dichiarazione di Marco Grimaldi (deputato di Sinistra italiana-Avs) che sostiene: «Le ordinanze anti-velo…. mirano a limitare la libertà di scelta e di espressione delle donne che a parole vogliono difendere: vietare il velo significherebbe negare la loro identità e cultura».

Di quale identità e cultura parla Grimaldi? Proprio in nome della identità della donna musulmana Khomeini ha imposto il velo in Iran dopo il suo arrivo al potere. Nemmeno il Corano prevede l’uso del velo per le donne, l’unica identità rappresentata dal velo è quella ideologica di appartenenza a uno stato islamico. Una politica conservator-religiosa che rappresenta la destra nei paesi musulmani. E che in occidente impone alle donne l’uso del ciador, ma perché il dovere di manifestare pubblicamente l’appartenenza a un movimento attraverso il comportamento – compreso l’uso del velo – tocca solo alle donne? E quale cultura? Nei paesi musulmani le culture sono diverse e non sono certo omologabili con il velo, che non appartiene nemmeno alla tradizione, perché nella tradizione ogni paese aveva usi e costumi diversi.

Peraltro, anche in Italia le nostre bisnonne portavano il velo, ma noi no. In Afghanistan il re Amanatullah aveva abolito il velo nel 1926, forse possiamo sostenere che il burqa imposto dai taleban sono un segno di identità?

Difendendo l’uso del velo – e tutte le costrizioni che l’accompagnano – condanniamo le donne che osano ribellarsi alle imposizioni di genitori, mariti, fratelli. Le denunce aumentano ma non garantiamo nessuna protezione a queste donne che rischiano di fare la fine di Saman, Hina, Sana e altre di cui non conosciamo nemmeno il nome.

Pensavo che la rivolta delle donne iraniane avesse fatto comprendere anche in occidente – come in Iran a donne e uomini, giovani e vecchi di tutte le etnie – che il velo è il simbolo dell’oppressione della donna. E per mostrare la nostra solidarietà non basta tagliare una ciocca di capelli. E ora quelle donne che rischiano la vita e il carcere per le loro scelte sono ancor più isolate dopo l’attacco di Israele e Usa all’Iran. E che nessuno osi dire che con i bombardamenti si distrugge il potere teocratico degli ayatollah, al contrario il regime in difficoltà si è ricompattato dopo i bombardamenti.

 

Nei paesi musulmani le donne lottano, rischiano la vita per liberarsi dal velo, in occidente la sinistra e persino alcune femministe difendono l’uso del velo. Perché? Per ignoranza o per relativismo culturale, per paura di essere confusi con la destra? La destra è contro il velo perché difende la cristianità dell’Italia e dell’Europa, io ho sempre sostenuto le donne che si ribellano al velo, anche in Italia, perché i diritti delle donne sono diritti universali.
A proposito delle leggi antivelo – legittime in un paese laico come la Francia, meno in uno stato non laico come l’Italia – non si entra nel merito della questione anche perché, da sempre, bandiera della Lega. A tale proposito, leggo sulla Repubblica di oggi (4 luglio 2025) una dichiarazione di Marco Grimaldi (deputato di Sinistra italiana-Avs) che sostiene: «Le ordinanze anti-velo…. mirano a limitare la libertà di scelta e di espressione delle donne che a parole vogliono difendere: vietare il velo significherebbe negare la loro identità e cultura». Di quale identità e cultura parla Grimaldi? Proprio in nome della identità della donna musulmana Khomeini ha imposto il velo in Iran dopo il suo arrivo al potere. Nemmeno il Corano prevede l’uso del velo per le donne, l’unica identità rappresentata dal velo è quella ideologica di appartenenza a uno stato islamico. Una politica conservator-religiosa che rappresenta la destra nei paesi musulmani. E che in occidente impone alle donne l’uso del ciador, ma perché il dovere di manifestare pubblicamente l’appartenenza a un movimento attraverso il comportamento – compreso l’uso del velo – tocca solo alle donne? E quale cultura? Nei paesi musulmani le culture sono diverse e non sono certo omologabili con il velo, che non appartiene nemmeno alla tradizione, perché nella tradizione ogni paese aveva usi e costumi diversi. Peraltro, anche in Italia le nostre bisnonne portavano il velo, ma noi no. In Afghanistan il re Amanatullah aveva abolito il velo nel 1926, forse possiamo sostenere che il burqa imposto dai taleban sono un segno di identità?
Difendendo l’uso del velo – e tutte le costrizioni che l’accompagnano – condanniamo le donne che osano ribellarsi alle imposizioni di genitori, mariti, fratelli. Le denunce aumentano ma non garantiamo nessuna protezione a queste donne che rischiano di fare la fine di Saman, Hina, Sana e altre di cui non conosciamo nemmeno il nome.
Pensavo che la rivolta delle donne iraniane avesse fatto comprendere anche in occidente – come in Iran a donne e uomini, giovani e vecchi di tutte le etnie – che il velo è il simbolo dell’oppressione della donna. E per mostrare la nostra solidarietà non basta tagliare una ciocca di capelli. E ora quelle donne che rischiano la vita e il carcere per le loro scelte sono ancor più isolate dopo l’attacco di Israele e Usa all’Iran. E che nessuno osi dire che con i bombardamenti si distrugge il potere teocratico degli ayatollah, al contrario il regime in difficoltà si è ricompattato dopo i bombardamenti.