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Tag: Afghanistan

Emirato islamico afghano, il fantasma dell’infiltrazione

agoravox.it   Enrico Campofreda  17 dicembre 2024

La morte di kaka* Khalil, ministro dei Rifugiati presso l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, è un colpo che il nipote Sirajuddin, a sua volta ministro dell’Interno fa fatica a digerire. Primo: per una ragione di casato. Haqqani è un nome che incute rispetto e terrore sia nelle focose province di provenienza (Khyber Pakhtunkhwa) e stanzialità (Waziristan), sia nella stessa Kabul conquistata sul campo dai suoi manipoli di fiducia prima d’insediarsi nei dicasteri. Secondo: per le modalità dell’eliminazione. L’attentato suicida era una specialità di famiglia ricercata e predicata da Jalaluddin, fratello della vittima e padre dell’attuale ministro dell’Interno. Dopo essere stato mujaheddin nella guerra antisovietica, sostenuto e premiato anche da Ronald Regan, ed essersi fatto le ossa nei sanguinosissimi anni di lotta fra Signori della Guerra, Haqqani senior già flirtava coi qaedisti ed era vicino a Osama bin Laden. Durante il primo Emirato talebano (1996-2001) aprì il suo gruppo, che prende il nome dalla storica madrasa del deobandismo Darool Uloom Haqqania, a una collaborazione coi taliban. Ma nella maggiore Shura, quella di Quetta, non erano ben visti, tanto che nella fase d’insurrezione contro l’Enduring Freedom  statunitense e la successiva Isaf Mission della Nato (2001-2014) gli Haqqani compivano azioni in proprio, tramite  attentati, suicidi o con auto-bomba. Ecco, dunque, il nervo scoperto dell’erede più illustre del jihadismo del clan, quel Sirajuddin che dal 2015 ha ricucito i rapporti con Quetta e col capo turbante dell’epoca Mohammad Mansur. Durato poco alla guida talebana, perché freddato da un drone americano mentre si spostava lungo l’asse del confine dell’Afgh-Pakistan, dove la protezione dell’Intelligence di Islamabad serviva più per armamenti e finanziamenti che per copertura bellica. Sirajuddin, invece, aveva protezioni migliori e con lui tutti i parenti prossimi, capaci d’autoprodurre vigilanza di terra, affidando quella dal cielo ad Allah. Comunque finora gli era andata benone, visto che dal 2017, quando nelle province afghane impazzava il confronto-scontro con l’Isil-Khorasan che insidiava i taliban per il controllo del territorio, di morti ammazzati ce n’erano un tot al giorno. In genere smembrati da esplosivo.

 La concorrenza dello Stato Islamico, che dal Daesh siro-iracheno trasferiva certa operatività più a Levante, si basava sul reclutamento dei  combattenti talib, pagati con la stessa moneta: petrodollari sauditi ed emiratini. L’arruolamento sembrò tramontare nei mesi della discesa verso Kabul nella primavera 2021. La vittoria talebana produceva migliori opportunità per chi si trovava in quelle file e più che per la quiete pandemica, la conflittualità fondamentalista interna all’Afghanistan appariva spenta nel primo anno di governo sotto la guida del mullah Akhunzada. Lo scorrere del tempo mostra il contrario. Soprattutto perché un certo reclutamento ideologico e dogmatico prosegue, spostando il proprio asse in territori già noti come il poroso confine afghano-pakistano, ma pesca nuove risorse nel separatismo beluco e nel fanatismo uzbeko. Attentati vari compiuti nell’ultimo biennio fra Turchia, Russia, Iran vedono in azione miliziani di quella provenienza geografica accorpati nei manipoli dell’Isis-K. Con l’uccisione di Khalil Rahman Haqqani, il nucleo storico del clan subisce un’inattesa scudisciata all’immagine e al peso tribale interno al regime talebano. Di cui il ministro Sirajuddin non riesce a garantire più un controllo securitario, come fosse un qualsiasi lacché del traballante esecutivo  Ghani. La deflagrazione avvenuta a pochi passi dall’obiettivo, senza che i guardiani avessero posto un filtro, potrebbe provenire da un elemento infiltrato nel sistema di sicurezza talebano, scorno ancora maggiore. Ma c’è pure l’ipotesi d’una faida di fazione. Lo zio Khalil, nonostante i trascorsi di rigidità dottrinaria, s’era impuntato contro le restrizioni governative all’istruzione femminile. Che nelle ultime settimane hanno tracimato anche sul fronte lavorativo, negando quelle poche mansioni concesse finora alle donne come l’assistenza sanitaria. Fosse appunto una faida, ancor più l’Isis-K potrebbe infilarsi nella faglia talebana, ampliata da contrasti di potere oltreché da dogmi.

* zio, usato anche come attributo di rispetto per uomini adulti

 

Sahra Mani. Il sacrificio delle donne afghane nel silenzio del mondo

altraeconomia.it 12 dicembre 2024

 

Con il film “Bread & Roses”, prodotto da Jennifer Lawrence e la Nobel per la Pace Malala Yousafzai, la regista racconta la resistenza delle attiviste dopo la presa di Kabul dei Talebani nell’agosto 2021. Tre anni e mezzo dopo la situazione è disastrosa. Le immagini, girate in prima persona dalle protagoniste, raccontano il coraggio e la sofferenza di vivere sotto il regime. “Un apartheid di genere”, denuncia Mani. Un caotico mercato di Kabul, lo strombazzare delle auto che schivano le bancarelle, una donna con un vestito colorato che cammina tra le strade della capitale dell’Afghanistan recitando una poesia. “Mia madre crede che i sogni rivelino il futuro: per vanificare un incubo bisogna raccontarlo alla pioggia. Dopo la festa di fidanzamento ho sognato la Moschea blu, la gente che pregava e faceva vita normale. All’improvviso cadde un fulmine: i panettieri portavano il pane nelle bare e cominciavano a piovere sassi. Quando mi svegliai condivisi il mio sogno con la pioggia”.

Improvvisamente i colori si spengono e arriva il buio lasciando spazio alla marcia dei Talebani, la loro riconquista di metà agosto 2021. La struggente scena che apre il film “Bread & Roses” (disponibile da fine novembre su AppleTv), racchiude l’incubo che da quel giorno vivono nel Paese migliaia di donne e del prezzo che sono disposte a pagare per far sentire la loro voce.

Quella voce che la regista di origini afghane Sahra Mani ha deciso di far conoscere al mondo, per denunciare l’orrore del regime. Non trattiene le lacrime spiegando i molteplici significati del titolo. “Il pane perché le famiglie sono costrette a vendere i loro figli per acquistarlo -spiega- la rosa perché per me rappresenta la dignità. Quella perduta da queste persone nell’assoluto silenzio del mondo”. Che quelle potentissime immagini riprese in prima persona dalle protagoniste del film che rischiano quotidianamente la loro vita vogliono rompere.

Mani, le sue sono lacrime di rabbia?
SM Crollo al pensiero che queste storie siano dimenticate e ignorate dal mondo. Conosco tante donne che sono morte, altre che sono sparite e di cui non si sa più nulla, altre che hanno venduto loro figlio per sopravvivere. Sono storie vere.

Nel 2019 usciva nelle sale “A thousands girls like me” con cui raccontava l’inefficacia del sistema giudiziario afghano nel tutelare le donne. Si sarebbe mai immaginata che le cose potessero peggiorare così tanto nel giro di quattro anni?
SM No, non avrei mai pensato che i Talebani sarebbero tornati. Credevo che un giorno, forse, si sarebbe raggiunto un accordo e avremmo dovuto rinunciare a parte dei nostri diritti. Oggi siamo in guerra. Bombardano le città, le scuole femminili, vengono uccise le donne incinta, i neonati, chi semplicemente partecipa alle celebrazioni di un matrimonio. Quello che succede è di una gravità inaudita.

Com’è nato questo film?
SM
Con la caduta di Kabul ho deciso che dovevo fare qualcosa sapendo che le donne sarebbero state coloro che avrebbero pagato il prezzo più alto. E così è stato. Hanno perso il lavoro ma allo stesso tempo per molte famiglie erano l’unica forma di sostentamento. La povertà e la necessità di scendere in piazza per rivendicare il diritto di esistere sono diventate sfide quotidiane. In quel periodo ho cominciato a lavorare con alcune Ong per sostenere le loro battaglie e ho iniziato ad entrare in contatto con un numero sempre più alto di donne che, attraverso i video, mi raccontavano la difficoltà del loro essere attiviste in un sistema di oppressione. Mano a mano, ricevendone sempre di più, ho capito che hanno cominciato a fidarsi di me come film-maker e allo stesso tempo mi chiedevano implicitamente di fare qualcosa. L’interesse di Jennifer Lawrence è stata la svolta. Anche se proporre “Bread & Roses” non è stato facile.

Perché?
SM Da ormai otto anni stavo lavorando su un altro film e avevo presentato il progetto al Festival di Venezia per una coproduzione. Raccontava l’unica scuola di musica esistente in Afghanistan a Kabul: avevo tanto materiale ed era quasi tutto pronto. Proporre “Bread & Roses” era una scelta estremamente difficile: non ero sicura di reggere emotivamente e soprattutto significava non poter tornare più nel mio Paese a pubblicazione avvenuta. Mi sono resa conto che, però, era l’unica scelta possibile. Perché poteva essere il modo più concreto per aiutare le lotte delle attiviste e farle conoscere al mondo.

La qualità delle riprese e delle immagini è altissima, nonostante siano scene di vita quotidiana spesso riprese di nascosto.
SM Riuscirci è stato molto complicato. Dopo aver costruito una squadra sul campo con dei cameramen professionisti, un uomo e una donna, e poi piano piano abbiamo insegnato alle protagoniste a filmare la loro vita. Io mi sono trasferita per un anno e mezzo al confine con l’Afghanistan e da lì ho coordinato l’équipe che era sparsa un po’ in tutto il mondo, dal Pakistan alla Svezia, dalla Francia fino agli Stati Uniti. Ma l’elemento logistico era tutto sommato il più semplice se paragonato alla fatica emotiva. Avevo a che fare tutti i giorni con storie di perdita, resilienza, speranza, sofferenza ma soprattutto esistenze in bilico. A volte le attiviste sparivano per giorni, mesi, settimane e noi perdevamo traccia di loro.

Zahra Mohammadi fin da subito organizza la resistenza, Sharifa, ex dipendente del governo, è costretta a nascondersi in casa mentre Taranom è costretta a fuggire in Pakistan. Che cosa accomuna le tre protagoniste?
SM
Tutte sono giovani e talentuose, con idee moderne. Rappresentano coloro che potevano costruire il futuro del Paese ma vengono costrette a stare nelle loro case, che da tre anni e mezzo sono diventate prigioni. All’inizio i Talebani hanno tolto l’accesso all’educazione, poi il lavoro, poi l’impossibilità di uscire senza accompagnatore. Ma anche pregare, piuttosto che cantare da dietro una porta per richiamare l’attenzione di chi è fuori. Il regime vuole fare il deserto per poter radicalizzare il più alto numero possibile di giovani e una madre acculturata è l’ostacolo più grande che si possa avere. E non è un caso che oltre a colpire gli ospedali in cui le donne partoriscono limitano anche l’accesso alle facoltà di ostetricia e infermieristica che è cruciale per il tema della maternità. Da tre anni e mezzo abbiamo avuto solidarietà dal mondo ma ora serve di più. A partire dal codificare il “gender apartheid” come crimine contro l’umanità: quello sta succedendo in Afghanistan.

Invece i Talebani sono stati invitati a Doha a sedersi al tavolo con i membri delle Nazioni Unite. Che cosa ne pensa?
SM
Non concepisco neanche come sia possibile che un terrorista possa prendere un volo e sedersi al tavolo delle trattative. Chi sta decidendo di lasciare a un gruppo terroristico un pezzo del mondo? Qual è la motivazione politica che sta dietro a tutti questi giochi sporchi? E le donne, le donne dell’Afghanistan stanno pagando un prezzo altissimo. Al giorno d’oggi, sono presenti in casa ma senza alcuna attività sociale, politica ed economica, senza alcun diritto umano di base. Sono passati tre anni e mezzo e penso che sia sufficiente.

Grazie alla storia di Taranom, per sei mesi confinata in Pakistan in un centro per rifugiati che somiglia di più a una prigione, si conosce anche il tragico limbo di chi è in attesa di un visto.
SM
Tante delle persone che hanno collaborato con me sono ferme in Iran e in Pakistan. Aspettano una chiamata che non arriva mai. Molti Paesi hanno fermato le evacuazioni nonostante in tantissimi continuino a rischiare la vita, soprattutto chi vive ancora in Afghanistan ed è particolarmente esposto, come attivisti, artisti e registi che sono considerati dei criminali dal regime. Il mondo è giustamente impegnato su tante altre orribili “questioni” ma questo non rende la situazione in Afghanistan meno grave. Eppure dovrebbe interessare a tutti.

Perché?
SM
Lasciare il Paese in mano ai terroristi significa decidere sul futuro di tutti. Oggi il mio Paese paga il prezzo più alto, non possiamo escludere che domani sia il mondo intero a farlo per non aver fatto nulla.

Le reazioni alla morte di Khalil Haqqani: una vittima nel “gioco dei troni” tra l’Emiro e il Califfo

Mentre i Talebani impongono ai media la definizione di “martire” ad Haqqani ucciso in un attentato suicida, molti gioiscono per la fine di questo ufficiale talebano terrorista che ha provocato migliaia di morti innocenti

Amin Kawa, 8AM Media, 14 dicembre 2024

Khalil Ur-Rahman Haqqani, ministro talebano per i rifugiati e il rimpatrio e membro di spicco della Rete Haqqani, è stato ucciso in un attacco suicida nell’edificio del ministero a Kabul. Era l’unico ministro talebano armato e partecipava a tutte le riunioni ufficiali e non ufficiali con una pistola alla mano. Alcuni alti funzionari del precedente governo hanno definito la sua morte come “martirio”, ma un gran numero di cittadini ha criticato questa definizione accogliendo con favore la morte di Haqqani, accusato di aver guidato i battaglioni suicidi della Rete per oltre 20 anni, e affermando che ha portato un po’ di conforto alle famiglie delle vittime. Tuttavia il Ministero dell’Informazione e della Cultura talebano ha chiesto ai media nazionali di usare il termine “martirio” invece di “morte” nei loro resoconti, spingendo media a modificare le notizie pubblicate.

Alcuni cittadini hanno collegato l’uccisione di Haqqani alle divisioni interne ai Talebani, ritenendola parte della lotta per il potere tra Hibatullah Akhundzada e Sirajuddin Haqqani.

Negli ultimi due decenni la Rete Haqqani è stata responsabile di numerosi attacchi suicidi a Kabul e in altre province che hanno causato centinaia di vittime, tra cui donne e bambini. Da quando ha conquistato l’Afghanistan, la rete ha spesso glorificato i suoi battaglioni suicidi e ha fornito terreni e risorse governative alle loro famiglie. Mercoledì 11 dicembre 2024 lo zio di Sirajuddin Haqqani, membro anziano noto come il “Califfo degli attentatori suicidi”, è stato ucciso in un attacco suicida nella sede del ministero, mentre stava partecipando a una sessione formale, armato come sempre nelle riunioni ufficiali per la sua diffidenza verso le guardie del corpo.

Alcune ore dopo l’attacco, i Talebani hanno diffuso sui social media un’immagine del kamikaze, affermando che durante la sessione l’attentatore aveva fatto esplodere la sua carica esplosiva.

in un attacco “brutale” dell’ISIS…

Reazioni alla morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

L’uccisione di questo alto funzionario talebano ha scatenato le reazioni di diversi attivisti politici e di alti funzionari dei precedenti governi afghani. Alcuni hanno accolto con favore la sua morte, attribuendo alla Rete Haqqani la responsabilità dei numerosi attacchi suicidi che hanno causato migliaia di vittime in Afghanistan, ritenendo la morte di Haqqani una giusta punizione.

L’ex presidente afghano Hamid Karzai, invece, ne ha condannato l’uccisione definendolo un “martire” membro di un’importante famiglia jihadista afghana e sottolineando il suo ruolo nella lotta contro l’ex Unione Sovietica.

Allo stesso modo, anche esponenti politici come l’ex presidente dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale Abdullah Abdullah, il leader jihadista Hamed Gilani, l’ex ministro delle Finanze Omar Zakhilwal, l’ex membro del Parlamento Jafar Mahdavi e molti altri hanno descritto la morte di Haqqani come “martirio” e condannato l’incidente.

D’altra parte, Zahir Aghbar, ambasciatore dell’Afghanistan in Tagikistan, ha cancellato un messaggio che aveva pubblicato per condannare l’uccisione di Khalil Ur-Rahman Haqqani. Nel suo messaggio originale, Aghbar aveva definito l’attacco un “atto terroristico”. Dopo aver cancellato il post, ha scritto: “I Talebani stanno raccogliendo ciò che hanno seminato”.

Nel frattempo, Ishaq Dar, ministro degli Esteri del Pakistan, ha espresso il suo shock per l’uccisione del ministro per i Rifugiati e il rimpatrio dei Talebani. Ha dichiarato che il Pakistan condanna inequivocabilmente il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

Contemporaneamente, alcuni utenti dei social media hanno attribuito la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani a divergenze interne ai Talebani, suggerendo che la Rete Haqqani non fosse d’accordo con le direttive emanate da Hibatullah Akhundzada, la Guida suprema dei Talebani, prevedendo che altre figure talebane potrebbero essere uccise in dispute interne, viste le lotte di potere in atto all’interno dei Talebani, in particolare per il controllo della Rete Haqqani, che dispone di ingenti risorse finanziarie e di stretti legami con gruppi terroristici internazionali.

Ali Sajad Mawlaee, un giornalista, ha scritto: “Il gioco dei troni: Emiro 1, Califfo 0”.

Mohammad Haleem Fidai, ex governatore della provincia di Logar, ha scritto su X (ex Twitter): “Sembra che questa azione sia stata istruita direttamente dal Mullah Hibatullah o, almeno, che sia stata eseguita con la sua consultazione e il suo accordo”. Con questo atto, Hibatullah cerca di inviare un chiaro messaggio: non solo ha il potere di neutralizzare, ma anche di eliminare fisicamente la Rete Haqqani a livello politico”.

Accoglienza ed espressione di soddisfazione per la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

Alcuni sui social media hanno ricordato le vittime degli attacchi suicidi compiuti dalla Rete Haqqani e hanno espresso soddisfazione per la sua morte. Condividendo le immagini delle vittime degli attacchi suicidi di cui la Rete Haqqani ha rivendicato la responsabilità, hanno dichiarato di provare sollievo per la morte di questo ufficiale talebano.

Shahid Farhosh, ex giornalista, ha condiviso un biglietto di Zubair Hatami, cameraman televisivo rimasto vittima di un attacco suicida, e ha scritto di lui: “Dopo nove anni, oggi sono molto felice. Sapete perché? Perché proprio in questo giorno, il giorno in cui hanno versato il nostro sangue e ti hanno portato via da noi, ho ricevuto la notizia della morte di uno dei tuoi assassini più sanguinari”… Kalimullah Hamsukhan, un attivista politico, ha scritto: “Inshallah, il dolore raggiungerà le vostre case, una per una e voi ne siete stati la causa. Migliaia di cittadini innocenti della nostra patria sono stati vittime della vostra brama di paradiso, di vergini e di giovani ragazzi. Capite come ci si sente ora? L’attentatore era un kamikaze e lo chiamate martire eroico?”.

Hasamuddin Anwari, un altro utente di Facebook, ha scritto: “Zio Khalil è andato in paradiso; che tali partenze portino benedizioni. Ha tolto la vita a migliaia di persone e ne ha rese milioni di altre senzatetto. Ha rovinato la vita di quattro donne (la sua quarta moglie era una ragazza di 21 anni). Ha insegnato la vergognosa cultura degli attentati suicidi ai poveri e ignoranti bambini dell’Est. Ora è caduto nella trappola di questa maledetta cultura e se n’è andato per sempre”.

Ma chi era Khalil Ur-Rahman Haqqani?

Nato nel 1966 nella provincia di Paktia, nell’Afghanistan orientale, Khalil Ur-Rahman Haqqani è stato un importante membro della Rete Haqqani. Era lo zio di Sirajuddin Haqqani, ministro degli Interni dei Talebani nonché membro di spicco della Rete Haqqani. Dopo la caduta del primo regime talebano, Haqqani fu arrestato in un’operazione congiunta condotta da Stati Uniti e Pakistan. Fu rilasciato dopo quattro anni in cambio della liberazione di 350 soldati pakistani nella regione del Waziristan meridionale, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Dopo la conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, è stato nominato ministro per i rifugiati e il rimpatrio dei Talebani, carica che ha ricoperto fino alla sua morte.

Gli Stati Uniti avevano fissato una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque lo avesse catturato durante la loro presenza in Afghanistan, inserendo la Rete Haqqani nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere. Secondo quanto riportato dal sito federale “Ricompense per la giustizia”, Khalil Ur-Rahman Haqqani forniva “supporto logistico ai membri dei Talebani nella provincia di Logar, in Afghanistan, dal 2010”. Nel febbraio 2011, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti lo ha designato come “terrorista globale specialmente designato” e gli ha imposto sanzioni, dichiarando “reato” qualsiasi rapporto finanziario con lui.

In precedenza, Mohammad Dawood Muzammil, governatore talebano di Balkh e comandante del gruppo, è stato ucciso in un attacco suicida a Balkh, per il quale l’ISIS ha rivendicato la responsabilità. Al momento della stesura di questo rapporto, nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità dell’attacco a Khalil Ur-Rahman Haqqani.

Numerosi e partecipati gli incontri della militante di RAWA in Italia

Si è concluso pochi giorni fa il lungo giro in Italia (con una puntata in Svizzera) di conferenze di Shakiba, militante di RAWA

CISDA, 2 dicembre 2024

Una visita che aspettavamo con impazienza quella di Shakiba, anche se per queste compagne ottenere un visto Shengen è sempre più complicato: l’ambasciata italiana più vicina è a Islamabad, in Pakistan; il visto pakistano ha un costo elevato e il viaggio per raggiungere il Pakistan, per una donna, è molto rischioso.

Ma per il CISDA, che lavora a fianco di queste compagne dal 1999, potere incontrare (e anche abbracciare) una testimone diretta della situazione e della resistenza in Afghanistan, dove i talebani stanno cancellando ogni diritto umano per le donne, è imprescindibile. E per queste compagne coraggiose e determinate avere la possibilità di “toccare con mano” la solidarietà che viene loro testimoniata nei numerosi incontri organizzati in varie città è fonte di vita e di speranza.

Due passi avanti e 30 indietro

“Ogni volta che facciamo due passi avanti nella conquista dei nostri diritti veniamo sbattute indietro di 30 passi” ci dice Shakiba al nostro primo incontro. “In Afghanistan resistere comporta il rischio di essere arrestate, torturate e anche uccise; ma non vogliamo abbandonare la nostra gente al suo destino, è nostro dovere restare per continuare a dare una speranza.”

La situazione è sempre più tragica e insostenibile per la popolazione afghana, in particolare per le donne:

  • le donne non possono lavorare, uscire di casa da sole, studiare oltre la sesta classe, mostrare il loro volto in pubblico o far sentire la loro voce; subiscono una delle forme più estreme di apartheid di genere. Molte delle donne che sono scese in piazza per protestare sono state arrestate, incarcerate, torturate e minacciate;
  • il disastro economico è intollerabile: non c’è lavoro e oltre il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. È normale che, date le condizioni di povertà, i maschi siano incentivati ad arruolarsi in qualche milizia per avere uno stipendio e riuscire così a sfamare la famiglia;
  • per avere un futuro moltissimi giovani cercano di scappare dal paese e percorrono le pericolosissime vie migratorie: Iran, Turchia e poi mar Mediterraneo, in mano a scafisti e trafficanti di esseri umani senza scrupoli;
  • nel paese sono state aperte 17.000 madrase, scuole coraniche, che in buona parte hanno sostituito le scuole statali e in cui i giovani studenti vengono indottrinati al fondamentalismo.

Nel frattempo, i talebani hanno ricevuto, solo dagli USA, 40 milioni di dollari ogni settimana e stanno svendendo tutte le ricchezze del paese (minerali rari, pietre preziose ecc.) per mantenere il loro potere.

Gli USA e i loro alleati occidentali in tutti questi anni hanno contribuito alla crescita, grazie a milioni di dollari e di armi, di gruppi di fondamentalisti di ogni tipo. Il risultato è che oggi in Afghanistan, oltre ai talebani, sono presenti ISIS, signori della guerra di diverse etnie, al Qaeda… che opprimono la popolazione afghana (le donne in particolare) da circa 40 anni.

Gli intensi incontri di Shakiba

Dimenticate dai media, dimenticate dai governi, dimenticate dalle organizzazioni internazionali, le donne afghane hanno sempre meno possibilità di far sentire la propria voce, per questo la serie di incontri organizzati da CISDA per la militante di RAWA è doppiamente importante.

Un giro di incontri molto ricco e partecipato: a Bologna RAWA ha ricevuto il Premio internazionale Daniele Po, promosso dalle associazioni Le case degli angeli di Daniele e Strade. Oltre alla cerimonia di premiazione, svoltasi nella Cappella Farnese di Palazzo D’Accursio di Bologna, Shakiba ha presenziato a circa 15 incontri pubblici che hanno coinvolto organizzazioni della società civile, ragazzi delle scuole con i loro insegnanti, attivisti e attiviste. Tra questi, molto significativo è stato l’incontro online con le commissioni pari opportunità della città metropolitana di Bologna, di Cento e di Pieve di Cento.

Belluno è stata accolta dall’associazione Insieme si può, che da anni, insieme a CISDA, sostiene attivamente i progetti di RAWA e organizza eventi e iniziative nel Nord-Est.

Piacenza le Donne in Nero, da sempre sostenitrici della resistenza delle donne afghane, hanno organizzato un partecipatissimo dibattito pubblico con cena di solidarietà.

Roma Shakiba ha partecipato, al festival Sabir, all’incontro internazionale Voci di lotta e di resistenza dell’Iran e dell’Afghanistan organizzato da ARCI, e ha incontrato le donne del comitato italiano di Jineoloji (un collettivo di donne che si organizza e lavora con il movimento delle donne curde), le donne dell’ANPI provinciale e un gruppo di parlamentari che l’hanno ricevuta alla Camera dei Deputati. Sempre a Roma Donne di Classe e Sinistra anticapitalista hanno organizzato un evento molto partecipato con cena di sottoscrizione.

Piadena è stato organizzato un dibattito pubblico nell’ambito del Festival dei diritti umani di Emmaus e un incontro con 80 ragazzi di 4 classi di terza media.

Va sottolineato che in tutti gli incontri con gli studenti e le studentesse delle scuole e delle università Shakiba ha dimostrato una straordinaria empatia e capacità di dialogo, suscitando grande curiosità e partecipazione.

La Casa delle donne di Torino ha organizzato un dibattito con raccolta fondi di solidarietà.

Lugano Shakiba ha incontrato la professoressa Jolanta Drzewiecka e il professor Villeneuve Jean-Patrick, dell’Institute of Communication and Public Policy (Università della Svizzera italiana), con i quali ha parlato parlare della situazione afghana e delle attività di RAWA a cui è seguito un partecipatissimo incontro con gli studenti dell’università e un’intervista con dei giornalisti del “Corriere del Ticino”.

Infine ha incontrato online la Rete di Coalizione euro-afghana per la Democrazia e la Laicità, per raccontare la difficile situazione delle donne resistenti in Afghanistan e discutere delle possibili azioni di supporto politico che il CISDA e le altre associazioni italiane possono dare loro.

Afghanistan deferito alla Corte Penale Internazionale

La Corte penale internazionale (CPI) ha ricevuto un deferimento formale da sei Stati parte (Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico) che sollecitano l’avvio di indagini sui crimini contro donne e ragazze in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, ha annunciato giovedì il procuratore della CPI Karim AA Khan KC

Siyar Sirat,  AMU Tv, 29 novembre 2024

Nel loro deferimento, le nazioni hanno espresso profonda preoccupazione per il deterioramento delle condizioni dei diritti umani in Afghanistan, in particolare per quanto riguarda donne e ragazze, e hanno chiesto che questi presunti crimini fossero esaminati nell’ambito dell’indagine in corso della CPI sulla situazione nel paese.

“Ciò riflette l’impegno più ampio del mio ufficio nel perseguire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di genere, incluso il crimine contro l’umanità della persecuzione per motivi di genere”, ha affermato Khan in una dichiarazione.

L’indagine della CPI sull’Afghanistan è stata autorizzata per la prima volta a marzo 2020, dopo anni di esame preliminare sui presunti crimini commessi nella regione dal 1° maggio 2003. L’indagine si è ampliata per includere accuse di discriminazione sistematica e persecuzione di donne e ragazze, crimini legati al conflitto armato e reati commessi sul territorio di altri stati membri della CPI.

L’indagine ha subito dei ritardi a seguito delle sfide del precedente governo afghano, ma è stata ripresa nell’ottobre 2022. Khan ha sottolineato che da allora l’ufficio del procuratore ha compiuto “progressi molto considerevoli” nelle indagini sui crimini di genere e ha espresso fiducia che risultati tangibili saranno annunciati presto.

Sebbene i dettagli specifici dell’indagine rimangano riservati, Khan ha elogiato il deferimento come un’importante dimostrazione di determinazione internazionale nell’affrontare le atrocità in Afghanistan. Ha inoltre sottolineato la necessità di cooperazione e risorse da parte degli stati membri della CPI per garantire la responsabilità.

“Plaudo al coraggio e alla determinazione di tutti coloro che ci hanno sostenuto e continuano a collaborare con noi nella conduzione di questa indagine”, ha affermato Khan.

L’attenzione della CPI sulla persecuzione di genere è in linea con la sua più ampia missione di affrontare i crimini ai sensi dello Statuto di Roma, che consente agli Stati membri di deferire casi in cui sembrano essere stati commessi crimini di competenza della CPI, si legge nella dichiarazione.

La dichiarazione è stata rilasciata in vista della riunione dell’Assemblea degli Stati parte della CPI della prossima settimana, durante la quale gli Stati membri dovrebbero discutere delle indagini in corso e delle risorse necessarie per gli sforzi di accertamento delle responsabilità.

La desolante realtà degli afghani che tornano in patria: la condizione delle donne non li interessa

Arrivano dall’estero per la prima volta dal ritorno dei talebani al potere. Il Washington Post ha raccolto testimonianze: sono colpiti dalla sicurezza o dai nuovi centri commerciali, c’è disinteresse per i diritti negati. Luca Lo Presti (Pangea) a Huffpost: “Fuori da Kabul non si incontra mai una donna per strada, ma ai maschi non importa. I talebani vogliono accreditarsi all’estero, mostrando il volto di un governo libertario, che consente di vivere meglio di prima”

Silvia Renda, HUFFPOST, 29 novembre 2024

Per le strade di Kabul non si trova una carta per terra. I muri anti-esplosione sono stati smantellati, rivelando la presenza di alberi di melograno, ora maturi. Le bancarelle dei mercati offrono una ricca scelta di prodotti ortofrutticoli. Nuovi centri commerciali ospitano negozi di moda dal gusto occidentale. È un volto diverso, inatteso ed entusiasmante della città, per chi l’aveva conosciuta prima del ritorno dei talebani. Sono afghani di nascita con passaporto oggi straniero, che in numero crescente stanno ritornando in visita nel paese e raccontano sorpresi il cambiamento della città. Quello che non notano, o che ad alcuni non interessa notare, è che le strade sono tenute così pulite sfruttando il lavoro dei carcerati o contando sulla paura di un popolo timoroso di punizioni severe. Che se percepiscono maggiore sicurezza, è sicuramente anche perché il pericolo prima era in gran parte costituito dagli attacchi dei talebani stessi, oggi al potere. Che le bancarelle saranno anche piene di prodotti, ma povere di acquirenti, perché non possono permettersi quel cibo. Che nei centri commerciali vedere una donna passeggiare è veramente raro.

Il Washington Post ha raccolto le testimonianze di afghani con passaporti e visti stranieri rientrati nel paese per fare visita ai parenti, per la prima volta da quando nell’agosto 2021 i talebani sono tornati al potere. Nei loro racconti non c’è preoccupazione per le terribili restrizioni imposte alle donne, alle quali nel paese non è più concesso alcun diritto. Si meravigliano piuttosto del senso di sicurezza percepito per le strade, della possibilità di fare acquisti al nuovo duty-free dell’aeroporto o nei centri commerciali oggi ricchi di prodotti. Anche se la maggior parte dei residenti fatica a guadagnarsi da vivere, chiunque se lo possa permettere può scegliere tra una serie di ristoranti alla moda, molti così vuoti che ogni ospite ha un cameriere personale. Sono visitatori che spesso trascorrono così tanto tempo a casa dei parenti da non notare, o disinteressati a notare, la quasi totale assenza delle donne per le strade. Alcuni parenti in visita, scrive il Washington Post, vengono ingannati da quella che sembra un’applicazione poco severa delle regole, ignorando la strategia dei talebani: far rispettare le norme solo a intermittenza e confidare nella paura per ottenerne il rispetto.

“A Kabul si respira un’aria di sicurezza maggiore rispetto all’agosto 2021 semplicemente perché la guerra che era combattuta dai talebani non c’è più”, commenta ad HuffPost Luca Lo Presti, presidente di Pangea, associazione che si occupa dei diritti delle donne afghane, “L’economia della città sta ripartendo e questo ha fatto nascere centri commerciali con beni di lusso, strade più ordinate. C’è una percezione di ordine, pace e sicurezza sicuramente superiore rispetto a quella che si percepiva durante la presenza dei militari occidentali”. Allo stesso tempo, spiega Lo Presti, si è creata una forbice sociale ampissima: in questa economia, chi aveva i soldi si ritrova a essere ricchissimo, e chi non ne aveva si ritrova poverissimo: “La microeconomia non esiste più, non esistono le fasce medie della società. Gli impiegati statali hanno stipendi bassissimi che permettono a malapena di sopravvivere”.
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La giustizia della CPI deve rispondere alle richieste di tutte le vittime

 La Corte penale internazionale (CPI) deve dare priorità e accelerare l’erogazione della giustizia alle vittime dei crimini commessi dai talebani, nonché da altri attori in Afghanistan, prima della presa del potere nel 2021, ha affermato oggi Amnesty International, durante la conferenza annuale dell’Assemblea degli Stati parti della CPI, che quest’anno si tiene a New York dal 4 al 14 dicembre. 

Amnesty International, amnesty.org, 6 dicembre 2023

L’organizzazione chiede ulteriori progressi significativi nell’indagine della CPI in Afghanistan, attesa da tempo, che deve essere resa pubblica e trasparente per consentire la partecipazione significativa delle parti interessate locali, tra cui vittime e sopravvissuti. In particolare, la CPI deve far luce sui suoi progressi e, ove possibile, sui parametri generali dei casi sotto inchiesta.

“Una cultura di impunità per i crimini di diritto internazionale commessi in Afghanistan è stata prevalente per quasi mezzo secolo di conflitto. Mentre la decisione della CPI di riprendere le indagini lo scorso anno ha fornito una vera speranza a migliaia di vittime di crimini di diritto internazionale di ottenere l’accesso atteso da tempo alla giustizia, alla verità e alle riparazioni, l’ufficio del procuratore della CPI deve essere coerente nel dare seguito al suo impegno fornendo progressi nelle sue indagini”, ha affermato Smriti Singh, direttore regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

“Il paese rimane in crisi e la CPI è un’istituzione fondamentale nella ricerca della giustizia per tutte le vittime in Afghanistan. Per molte vittime la CPI rappresenta l’unica via concreta esistente per la giustizia e la fine dell’impunità.”

All’Assemblea degli Stati Parte, Amnesty International chiede inoltre agli Stati membri dello Statuto di Roma di garantire che la CPI disponga delle risorse necessarie per svolgere indagini efficaci sui crimini di diritto internazionale, tra cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità come la persecuzione di genere. Tra questi rientrano quelli commessi contro donne e ragazze , sciiti-hazara o altre minoranze religiose , e quelli commessi nel contesto delle guerre in Afghanistan prima e dopo la presa del potere da parte dei talebani nel 2021. In modo cruciale, date le notevoli sfide nelle indagini in Afghanistan, gli Stati membri devono impegnarsi a rafforzare la loro cooperazione con le indagini della CPI sull’Afghanistan.

Inoltre, la CPI deve essere dotata di risorse finanziarie e tecniche adeguate per consentire alle vittime afghane di esercitare in modo significativo ed efficace i propri diritti presso la Corte.

Mentre la CPI è fondamentale per garantire la responsabilità in Afghanistan, sforzi complementari come la raccolta e la conservazione delle prove per futuri processi di responsabilità e procedimenti penali a livello nazionale in Afghanistan sono essenziali. Gli Stati che sono parte dello Statuto di Roma in particolare dovrebbero supportare tali sforzi complementari, anche esercitando la giurisdizione universale e supportando l’istituzione di un meccanismo di responsabilità internazionale indipendente, come presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.

In precedenza, la decisione del Procuratore nel 2021 di deprioritizzare le indagini sui crimini presumibilmente commessi dall’esercito degli Stati Uniti e dalla CIA, nonché dalle ex Forze di sicurezza nazionali afghane (ANSF), aveva incontrato forti critiche. Questa decisione del Procuratore rischia di contribuire alla percezione di un sistema selettivo di giustizia internazionale, in cui gli interessi degli stati potenti hanno la priorità sugli interessi della giustizia per le vittime di crimini ai sensi del diritto internazionale.

“Amnesty International continua a chiedere di riconsiderare la decisione del Procuratore del 2021 di de-prioritizzare le indagini sui presunti crimini di guerra da parte degli Stati Uniti e delle ex forze nazionali afghane. Rimane una macchia sul volto della giustizia internazionale. Nessuna giustificazione per la “de-prioritizzazione” è accettabile. Nessuna vittima merita meno giustizia di altre”, ha affermato Smriti Singh.

“La popolazione afghana merita la fine dell’impunità e un percorso verso la giustizia, la verità e la riparazione”.

Contesto

L’Afghanistan è stato sottoposto a un esame preliminare pubblico da parte della CPI dal 2007 al 2017.

Nel 2023, Amnesty International ha documentato le restrizioni discriminatorie dei talebani sui diritti delle donne e delle ragazze sin dalla presa del potere nel 2021 che, sommate all’uso sistematico di violenza e abusi da parte dei talebani, possono costituire il crimine contro l’umanità della persecuzione di genere. Inoltre, ha documentato i crimini di guerra dei talebani e altre violazioni del diritto internazionale umanitario nel contesto del conflitto armato con il National Resistance Front nella provincia del Panjshir, incluso il crimine di guerra della punizione collettiva contro i residenti del Panjshir. Nel corso di molti anni, l’organizzazione ha anche documentato diversi casi di crimini di diritto internazionale commessi dalle  Forze nazionali afghane, dall’esercito degli Stati Uniti   e   dai talebani.

Proteste delle donne contro il divieto di istruzione medica

Giovedì un gruppo di donne e ragazze ha organizzato una protesta davanti all’ufficio del governatore talebano nella provincia occidentale di Herat, denunciando il recente divieto di partecipazione delle donne all’istruzione medica

Amu TV, M. Rahman Awrang Stanikzai, 5 dicembre 2024

Scandendo slogan come “l’istruzione è giustizia e apprendimento”, i dimostranti hanno descritto la direttiva come oppressiva e un duro colpo ai loro diritti fondamentali.

La decisione dei talebani di impedire alle donne di studiare presso istituti medici, compresi i corsi di ostetricia, ha suscitato ampie condanne da parte di organizzazioni internazionali, gruppi per i diritti umani ed ex funzionari afghani.

La Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha rilasciato una dichiarazione in cui ha avvertito che il divieto avrebbe avuto un “impatto negativo” sul sistema sanitario del paese e sullo sviluppo più ampio. Stephane Dujarric, portavoce delle Nazioni Unite, ha espresso grave preoccupazione, osservando che la direttiva si aggiunge alla litania di restrizioni imposte a donne e ragazze dal ritorno al potere dei talebani.

“Se implementata, la direttiva segnalata imporrebbe ulteriori restrizioni ai diritti delle donne e delle ragazze all’istruzione e all’accesso all’assistenza sanitaria”, ha affermato il signor Dujarric in una conferenza stampa mercoledì.

Il Comitato svedese per l’Afghanistan ha definito il divieto una “devastante battuta d’arresto” per l’accesso delle donne all’assistenza sanitaria essenziale, evidenziandone il potenziale di esacerbare il già terribile tasso di mortalità materna dell’Afghanistan. Secondo le stime delle Nazioni Unite, il tasso di mortalità materna del paese è tra i più alti al mondo, con oltre 600 decessi ogni 100.000 nati vivi, quasi tre volte la media globale.

Il ministro degli esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha condannato la politica, descrivendola come una mossa che “cancella letteralmente il futuro dell’Afghanistan”. In una dichiarazione, ha paragonato le condizioni delle donne afghane sotto i talebani alla vita in una “prigione”, criticando il regime per aver negato l’assistenza sanitaria e l’istruzione di base. “La sospensione dell’educazione sanitaria delle donne da parte dei talebani non solo nega i diritti fondamentali, ma condanna innumerevoli vite”, ha affermato.

Anche ex funzionari afghani hanno espresso indignazione. Rahmatullah Nabil, ex direttore dell’intelligence nazionale, si è unito ad altri, tra cui le star del cricket Rashid Khan e Mohammad Nabi, nel condannare il decreto. Masoom Stanekzai, che ha guidato i negoziati di pace del precedente governo con i talebani, ha definito la direttiva un sintomo di governo autocratico, avvertendo che tali decisioni potrebbero portare alla rovina dell’Afghanistan.

“Il destino della nazione ora dipende dalle decisioni arbitrarie di un individuo e di un piccolo gruppo”, ha detto il signor Stanekzai. “Ogni azione sconsiderata porta il paese più vicino alla distruzione”.

Gli attivisti per i diritti umani hanno descritto il divieto come una chiara violazione delle libertà fondamentali. Raheel Talash, un’attivista, ha lamentato la perdita di opportunità per le giovani donne che aspiravano a carriere in medicina.

“Anche le ragazze la cui unica speranza era l’istruzione medica ora si sono viste portare via questa speranza”, ha affermato.

Da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021, i talebani hanno imposto ampie restrizioni alle donne, tra cui divieti di istruzione superiore, di gran parte delle forme di impiego e di partecipazione pubblica. Gli attivisti affermano che l’ultima mossa è il culmine di una campagna per sopprimere completamente i diritti delle donne e delle ragazze afghane.

L’ultimo divieto imposto dai talebani alle donne minaccia vite umane

Il Comitato svedese per l’Afghanistan (SCA) ha lanciato l’allarme: il divieto imposto dai talebani alle donne di proseguire gli studi in medicina minaccia la salute e la sopravvivenza di innumerevoli donne e bambini

Kabul Now, 5 dicembre 2024

Nella sua ultima restrizione sui diritti delle donne, i talebani hanno impedito alle studentesse di frequentare istituti medici in Afghanistan. Il divieto è stato annunciato da un funzionario del Ministero della Salute Pubblica del regime durante un incontro con i responsabili degli istituti medici a Kabul, lunedì 2 dicembre.

In una dichiarazione rilasciata mercoledì 4 dicembre, il Comitato svedese ha affermato che la decisione è profondamente preoccupante, date le norme culturali afghane che limitano il trattamento delle donne da parte dei medici uomini.

“Se non si formano più donne professioniste della salute, la già critica carenza di dottoresse, infermiere e ostetriche peggiorerà, minacciando la salute e la sopravvivenza di innumerevoli donne e bambini”, ha affermato la SCA, aggiungendo che il divieto porterà a morti prevenibili e a un’inversione di tendenza rispetto ai successi ottenuti a fatica nella salute pubblica.

L’organizzazione ha esortato i talebani a revocare immediatamente il divieto e a investire in un’istruzione di qualità per le professioniste sanitarie. Ha inoltre invitato la comunità internazionale a trovare modi per supportare le donne afghane e il loro ruolo cruciale nell’assistenza sanitaria.

L’ultima restrizione dei talebani sui diritti delle donne ha scatenato reazioni e condanne diffuse, anche da parte dell’ONU, dell’UE, di gruppi per i diritti, personaggi politici e attivisti sia all’interno che all’esterno del paese. Tutti hanno chiesto la revoca del divieto.

Durante una conferenza stampa di mercoledì, il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric ha espresso preoccupazione per la decisione, aggiungendo che se implementata, avrebbe un “impatto negativo” sul sistema sanitario afghano e un effetto negativo sulla vita degli afghani. Ha esortato i talebani a riconsiderare il divieto.

In un post su X di oggi, Richard Bennett, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan, ha definito la decisione “inspiegabile e ingiustificabile”, notando che viola ulteriormente i diritti delle donne e avrà un impatto devastante sull’intera popolazione. Ha affermato che il divieto deve essere revocato.

Allo stesso modo, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha avvertito che se la nuova direttiva venisse implementata, avrebbe un “impatto negativo” sul sistema sanitario afghano e sullo sviluppo generale del paese. UNAMA ha affermato che, sebbene non abbia ancora ricevuto la conferma formale del divieto, continuerà a verificare il rapporto attraverso i canali ufficiali.

Carceri afghane: stupri e omicidi per le donne arrestate per accattonaggio

Nuove leggi draconiane consentono l’incarcerazione di massa di donne e bambini costretti a mendicare a causa del divieto di lavoro

Yalda Amini, Rawa News, 29 novembre 2024

Le donne afghane indigenti arrestate per aver mendicato in base alle nuove e draconiane leggi dei talebani hanno parlato di stupri e percosse “brutali” subite durante la detenzione.

Negli ultimi mesi, molte donne hanno dichiarato di essere state prese di mira dai funzionari talebani e detenute ai sensi delle leggi anti-accattonaggio approvate quest’anno. Mentre erano in prigione, affermano di essere state sottoposte ad abusi sessuali, torture e lavori forzati e di aver visto bambini picchiati e abusati.

Tutte le donne hanno dichiarato di non avere altra scelta se non quella di mendicare per strada per avere soldi e cibo per i propri figli, non riuscendo a trovare un lavoro retribuito.

Da quando i talebani hanno preso il potere nell’agosto 2021, alle donne è stato impedito di svolgere la maggior parte dei lavori retribuiti, con conseguente aumento dei livelli di indigenza in tutto il Paese, soprattutto nelle famiglie guidate da donne.

A maggio, i talebani hanno approvato nuove leggi che proibiscono alle “persone sane” di mendicare per strada se hanno con sé abbastanza soldi per pagarsi il cibo per un giorno.

È stata istituita una commissione per registrare i mendicanti e classificarli come “professionisti”, “indigenti” o “organizzati”, il che comporta la raccolta dei loro dati biometrici e delle impronte digitali. Secondo i funzionari talebani, quasi 60.000 mendicanti sono già stati “catturati” nella sola Kabul.

Secondo quanto riferito, le donne che chiedono l’elemosina sono state prese di mira dalla nuova legge a Kabul, dove i talebani sostengono di aver arrestato circa 60.000 persone.

 

Zahra*, una madre di tre figli di 32 anni, ha raccontato di essere stata costretta a trasferirsi a Kabul e a mendicare per strada per avere del cibo quando suo marito, che faceva parte dell’esercito nazionale del precedente governo, è scomparso dopo che i talebani hanno preso il potere nell’agosto 2021.

“Sono andata dal consigliere di quartiere e gli ho detto che ero vedova e che chiedevo aiuto per sfamare i miei tre figli”, ha detto. “Mi ha detto che non c’era nessuno che mi aiutasse e mi ha detto di sedermi vicino alla panetteria [e] che forse qualcuno mi avrebbe dato qualcosa”.

Zahra ha affermato di non essere a conoscenza delle leggi anti-accattonaggio dei talebani fino al suo arresto.

“Un’auto dei talebani si è fermata vicino al panificio. Hanno preso mio figlio con la forza e mi hanno detto di salire sul veicolo”, ha detto. Zahra ha affermato di aver trascorso tre giorni e tre notti in una prigione talebana e che inizialmente le avevano fatto cucinare, pulire e fare il bucato per gli uomini che lavoravano lì.

Le è stato poi detto che le avrebbero preso le impronte digitali e che i suoi dati biometrici sarebbero stati registrati. Quando ha opposto resistenza, è stata picchiata fino a lasciarla priva di sensi. Ha detto di essere stata poi violentata.

“[Da quando sono stata rilasciata] ho pensato di porre fine alla mia vita diverse volte, ma i miei figli mi trattengono”, ha detto. “Mi chiedevo chi li avrebbe nutriti se non fossi stata qui.

“A chi posso lamentarmi? A nessuno importerà, e ho paura che mi arresterebbero di nuovo se parlassi. Per la mia vita e la sicurezza dei miei figli, non posso dire nulla.”

Un’altra donna, Parwana*, ha detto di essere stata arrestata mentre mendicava a Kabul in ottobre con la figlia di quattro anni dopo che il marito li aveva abbandonati. Ha detto di essere stata portata nella prigione di Badam Bagh e trattenuta per 15 giorni.

“Hanno portato dentro tutti, persino i bambini che pulivano le scarpe per strada”, ha detto. “Ci dicevano, noi donne, perché non ci sposiamo, ci picchiavano e ci facevano pulire e lavare i piatti”.

Parwana ha anche affermato che lei e altre due donne sono state violentate durante la detenzione e che l’aggressione l’ha lasciata traumatizzata e depressa.

Nessuno osa parlare

Oltre alle molteplici segnalazioni di stupri e torture di donne arrestate in base alle leggi contro l’accattonaggio, ex detenuti hanno anche riferito al notiziario afghano Zan Times di aver assistito ad abusi su bambini piccoli in prigione; una donna ha affermato che due bambini sono stati picchiati a morte mentre era in detenzione.

“Nessuno osava parlare”, ha detto. “Se avessimo parlato, ci avrebbero picchiato e ci avrebbero chiamato spudorati. Guardare quei bambini morire davanti ai miei occhi è qualcosa che non dimenticherò mai”.

La morte dei detenuti arrestati in base alle leggi contro l’accattonaggio è presa in considerazione nella formulazione della nuova legge dei talebani, in cui l’articolo 25 afferma: “Se un mendicante muore mentre è in custodia e non ha parenti o se la famiglia si rifiuta di ritirare il corpo, i funzionari comunali si occuperanno della sepoltura”.

Secondo le nuove leggi, coloro che sono considerati “indigenti” hanno legalmente diritto a un’assistenza finanziaria dopo il rilascio, ma nessuna delle donne ha dichiarato di aver ricevuto alcun aiuto.

Parwana ha affermato che dopo il suo rilascio aveva avuto troppa paura di chiedere di nuovo l’elemosina per avere del cibo e che invece si affidava ai suoi vicini per ricevere l’elemosina.

“In questi giorni, vado porta a porta nel mio quartiere, raccogliendo pane raffermo e secco. Non ho altra scelta”, ha detto. “I talebani sono brutali e oppressivi, ma dove posso andare a lamentarmi di loro? Siamo soli”.

Le autorità talebane non hanno risposto alle numerose richieste di replica.