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Tag: Afghanistan

AFGHANISTAN, 2021: IL PENTAGONO RIAPRE IL CASO DEL RITIRO

difesaonline.it  Vasco Monteforte 20 maggio 2025

A quasi quattro anni dal caotico ritiro delle truppe statunitensi da Kabul, il Dipartimento della Difesa U.S.A. avvia una nuova indagine interna per fare piena luce su una delle pagine più controverse della recente storia militare americana. Oggi il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha firmato un memorandum indirizzato a tutto il vertice del Pentagono annunciando ufficialmente la costituzione di uno Special Review Panel per riesaminare in profondità quanto accaduto durante l’evacuazione dell’Afghanistan sotto l’amministrazione Biden.

Il documento parte da un episodio simbolico e traumatico: l’attentato suicida del 26 agosto 2021 all’Abbey Gate dell’aeroporto di Kabul, che costò la vita a 13 militari americani e 170 civili afghani. Quella tragedia, sottolinea il memorandum, rappresenta “uno dei momenti più bui e mortali nella storia internazionale americana” recente.

Nonostante le precedenti inchieste svolte da Pentagono, Congresso e Dipartimento di Stato, Hegseth denuncia la necessità di un’indagine “completa” che vada oltre, ricostruendo le decisioni, le responsabilità e i silenzi.

Il linguaggio usato nel documento è netto: si parla di “evento catastrofico” e di dovere morale verso i cittadini americani e verso chi ha “sacrificato la propria giovinezza in Afghanistan”. In gioco, secondo il segretario, c’è la fiducia dell’opinione pubblica e l’onore delle Forze Armate. Da qui l’istituzione dello Special Review Panel, sotto la guida del senior advisor Sean Parnell (veterano decorato dell’U.S. Army, autore ed ex candidato politico, oggi portavoce del Pentagono), con l’incarico di riesaminare testimonianze, documenti e decisioni critiche, in una missione che punta a restituire trasparenza e giustizia.

Se il documento promette rigore e imparzialità, non manca però un chiaro sottotesto politico: Hegseth menziona esplicitamente il proprio impegno e quello dell’ex presidente Donald Trump per garantire piena trasparenza, tracciando così una linea di demarcazione rispetto alla precedente amministrazione democratica. L’iniziativa appare quindi anche come un atto politico volto a consolidare la narrazione di una “gestione fallimentare” del ritiro da parte di Joe Biden e dei suoi vertici militari e diplomatici.

Quanta parte della disorganizzazione fu frutto di valutazioni errate, ritardi operativi o sottovalutazioni dell’intelligence? Il materiale bellico abbandonato sul terreno – poi finito nelle mani dei talebani – fu il risultato di una resa logistica inevitabile o di scelte strategiche mal concepite? E ancora: esistevano piani alternativi realmente praticabili nei mesi precedenti alla presa di Kabul?

La revisione voluta dal nuovo vertice del Pentagono si muove su un crinale sottile: da un lato la legittima esigenza di verità e giustizia per i caduti e per l’istituzione militare; dall’altro il rischio che il riesame diventi una leva di propaganda in una stagione politica attraversata da tensioni e rese dei conti.

Una cosa è certa: l’Afghanistan continua a interrogare l’America. Non solo per il modo in cui è finita la sua guerra più lunga, ma per ciò che quella fine dice – ancora oggi – sul rapporto tra potere politico e comando militare, tra strategia e realtà, tra dovere e responsabilità.

Afghanistan: le restrizioni dei Talebani sui diritti delle donne si intensificano

United Nation.org 1 maggio 2025

OM/Léo Torréton An IOM mental health and psychosocial support counsellor leads a session with women in Paktika province, Afghanistan.

I talebani afghani hanno dato seguito a decreti volti a escludere le donne dalla vita pubblica del Paese e a limitarne la libertà di movimento, ha dichiarato la missione ONU nel Paese (UNAMA) nel suo ultimo rapporto sui diritti umani, pubblicato giovedì e relativo al primo trimestre del 2025.

La missione ha continuato a ricevere segnalazioni secondo cui alle donne afghane viene negata l’opportunità di entrare nel mondo del lavoro, non possono accedere ai servizi senza un parente maschio e le ragazze sono ancora private del diritto all’istruzione.

Da quando i talebani hanno preso il potere nel Paese, sottraendolo al governo democraticamente eletto nell’agosto 2021, donne e ragazze sono state sistematicamente escluse dalla pari partecipazione alla società, conferma il rapporto.

UNAMA, il cui mandato include il monitoraggio dei diritti umani, ha anche segnalato fustigazioni pubbliche, riduzione dello spazio civico e brutali attacchi contro ex funzionari governativi.

Saloni di bellezza chiusi

Secondo quanto riferito dalla UNAMA, i funzionari hanno chiuso saloni di bellezza gestiti da donne nelle loro case e stazioni radio femminili in varie province.

Nella provincia di Kandahar, gli ispettori, di fatto, hanno chiesto ai negozianti in un mercato di denunciare le donne non accompagnate da un tutore (mahram) e di negare loro l’ingresso nei loro negozi.

In un ospedale, le autorità hanno ordinato al personale di non fornire cure alle pazienti non accompagnate.

Conversioni forzate

Le autorità talibane hanno anche aumentato l’applicazione delle restrizioni repressive sui media, intensificato le punizioni corporali e la repressione della libertà religiosa e della rieducazione.

Tra il 17 gennaio e il 3 febbraio, nella provincia di Badakhshan nel nord-est dell’Afghanistan, almeno 50 uomini ismaili sono stati portati via dalle loro case di notte e costretti a convertirsi all’islam sunnita sotto la minaccia della violenza, spiega il rapporto.

Più di 180 persone, tra cui donne e ragazze, sono state flagellate per i reati di adulterio e omosessualità praticata durante il periodo di riferimento, in luoghi pubblici frequentati da funzionari talibani.

I talebani sostengono i diritti delle donne

Nonostante le prove documentate dalla relazione che le autorità di fatto continuano a violare le norme internazionali e la tutela dei diritti, i funzionari talibani non sono d’accordo.

“Garantire la dignità, l’onore e i diritti basati sulla Sharia delle donne rimane una priorità assoluta per l’Emirato islamico”, ha detto il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid in un post sui social media l’8 marzo, giornata internazionale della donna.

“Tutti i diritti fondamentali concessi alle donne afghane sono stati salvaguardati in stretta conformità con la legge islamica della Sharia, così come con le strutture culturali e tradizionali della società afgana,” ha aggiunto.

Azione legale internazionale

L’UNAMA ha chiesto azioni per ripristinare i diritti delle donne e delle ragazze a livello internazionale.

In gennaio, la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il leader talibano Haibatullah Akhundzada e il giudice capo Abdul Hakim Haqqani per persecuzione basata sul sesso, un crimine contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma.

La mostra fotografica segreta di Kabul mette in mostra il dolore e la resilienza delle donne afghane

 Haniya Frotan, Rukhshana Media, 3 maggio 2025

La fotografa afghana Homa Mohammadi* affronta continue intimidazioni nel corso del suo lavoro: una volta la sua macchina fotografica è stata distrutta da rappresentanti talebani armati che hanno cancellato tutte le sue immagini. Eppure, nulla l’ha distolta dalla sua missione: raccontare le dolorose storie delle donne afghane.

Le sue fotografie, recentemente esposte in una mostra innovativa a Kabul, ritraggono donne afghane comuni. Insieme, raccontano una storia di privazioni e sofferenza, ma anche di resilienza e speranza di fronte all’oppressione.

Homa, 22 anni, ritrae vividamente le condizioni sociali e culturali delle donne sotto il regime talebano. In una fotografia, due ragazze con i tradizionali burqa dipingono, con i pennelli in mano a simboleggiare una resistenza silenziosa. In un’altra, una ragazza con un burqa blu cammina per le strette vie di Kabul, tenendo in mano un libro, a dimostrazione di come l’amore per la cultura e la conoscenza sopravviva anche nelle condizioni peggiori.

 

Il titolo della mostra, “Borderless Flight”, è ispirato a una bambina di 11 anni che sognava di diventare pilota, finché i talebani non la costrinsero a lasciare la scuola. Homa si imbatté nel quaderno della bambina, pieno di disegni di uccelli e aeroplani, mentre lavorava come insegnante di inglese. Quando le fu chiesto perché avesse disegnato così tanti uccelli, la bambina rispose: “Sognavo di diventare pilota e volare nel cielo, ma non mi hanno lasciato andare a scuola”.

“Ogni storia che ho seguito, ogni foto che ho scattato, che si trattasse di restrizioni, della chiusura delle università, della perdita del diritto al lavoro o delle ragazze che ho incontrato mentre fotografavo, c’era sempre un senso di fuga nei loro occhi e nelle loro parole”, racconta Homa.

Ho scelto il nome ‘Borderless Flight’ per questa collezione perché queste ragazze, anche in gabbia, sognano ancora di volare.

Homa è nata in una zona remota e selvaggia dell’Afghanistan centrale e ha visto il suo accesso all’istruzione interrompersi bruscamente quando aveva solo 14 anni. Così, ha preso una macchina fotografica e si è avventurata per le strade di Kabul per documentare le storie delle donne della sua terra natale.

Le sue immagini sono state esposte per due giorni ad aprile, in un’aula di una scuola privata, discretamente nascosta in un vicolo.

“Quando ho visto le foto, sono rimasta sbalordita. In una situazione in cui persino un uomo non osa parlare della sua barba di fronte ai talebani, organizzare una mostra del genere richiede grande coraggio”, ha detto Isra, una visitatrice di 21 anni.

Homa non solo ha documentato la verità, ma ci ha anche dato la forza, il potere e la motivazione per combattere l’oscurità. Voglio essere come lei e lottare per i miei diritti.

Organizzare la mostra non è stato un compito facile. Homa ha impiegato più di un anno per raccogliere le fotografie e preparare l’evento. Ha finanziato l’intero progetto da sola, risparmiando i soldi guadagnati insegnando inglese. “Ho salvato ogni singolo afghano. Ho persino saltato il pranzo solo per realizzare questa mostra”, ride.

Le sfide sono andate oltre i costi. Homa racconta di come i rappresentanti talebani abbiano ripetutamente messo in discussione il suo diritto a portare con sé una macchina fotografica, in un’occasione accusandola di spionaggio. In un’altra occasione, uomini armati le hanno rotto la macchina fotografica mentre cercava di filmare in una strada di Kabul.

 

“Hanno cancellato tutte le foto e i video che avevo, poi hanno buttato a terra la mia macchina fotografica e l’hanno fracassata con il calcio del fucile. Lui ha riso e ha detto: ‘Ora, vieni a fare foto!'”, ricorda.

Niente di tutto ciò bastò a scoraggiare Homa. Risparmò per comprare un’altra macchina fotografica e continuò il suo lavoro. Ogni fotografia in questa mostra rappresenta una vittoria sulla paura e sull’oppressione.

Una delle fotografie più potenti mostra una donna in burqa, con il volto completamente nascosto, con solo la mano visibile, rivolta in avanti. Lo sfondo vago e silenzioso dell’immagine trasmette un senso di dolore e desiderio di libertà. “Questa foto parla di oppressione e della lotta per l’autoespressione. È come se questa donna volesse dire: ‘Sono ancora qui, anche se il mio volto non si vede’”, dice Homa.

La mostra è stata la prima del suo genere da quando i talebani sono tornati al potere in Afghanistan nell’agosto 2021, imponendo severe restrizioni alle donne, vietando loro l’istruzione e il lavoro e obbligandole a essere accompagnate da un uomo in pubblico. Molti visitatori l’hanno vista come un grido di resistenza tanto quanto un evento artistico.

“Non volevo solo scattare foto. Volevo dire al mondo che siamo ancora vivi. Abbiamo ancora dei sogni. Stiamo ancora lottando. Queste fotografie non sono solo immagini; sono le nostre voci”, dice Homa.

“Forse oggi non potrò andare a scuola, forse mi hanno rotto la macchina fotografica, ma non potranno spezzare i miei sogni.”

Nota*: Nome cambiato per motivi di sicurezza

I talebani licenziano centinaia di professoresse dalle università pubbliche

Khadija Haidary, Zan Times,14 maggio 2025
I talebani hanno licenziato centinaia di professoresse dalle università pubbliche in tutto l’Afghanistan, in un’azione che ha colpito anche una parte del personale maschile ma che ha preso di mira principalmente le donne.

La decisione ha sconvolto la comunità accademica e spento le residue speranze di ripristino del ruolo delle donne nel sistema di istruzione superiore afghano.

I licenziamenti sono stati comunicati in modo non ufficiale e senza preavviso scritto, secondo diversi accademici che hanno parlato con Zan Times sotto pseudonimo per timore di ritorsioni. Najia, professoressa con vent’anni di esperienza presso la Balkh University, nel nord dell’Afghanistan, ha dichiarato di aver appreso del suo licenziamento lunedì 12 maggio, dopo aver inviato una richiesta di informazioni di routine al capo del suo dipartimento in merito a un articolo accademico.

“Non ho ricevuto risposta, così ho chiamato”, ha detto. “Mi ha detto: ‘Ho brutte notizie. Sei tra quelli licenziati’. Non sono riuscita a trattenere le lacrime. Insegno da 23 anni, non ho mai preso maternità, non ho mai perso un trimestre”.

Il caso di Najia è uno delle centinaia che si verificano in tutto il paese. La maggior parte dei professori non è stata formalmente informata; al contrario, hanno visto il loro posto revocato tramite passaparola o dopo essere stati esclusi dall’accesso all’università.

Nella sola Università di Kabul, oltre 60 posizioni ricoperte da donne sono state eliminate, secondo ex docenti. Dipartimenti come letteratura, psicologia, veterinaria e lingue straniere hanno visto la maggior parte del personale femminile licenziato. “In molte facoltà, rimangono solo due o tre donne, e anche a loro è stato detto che i loro posti saranno riaperti per i candidati maschi”, ha affermato Shahnaz, professoressa all’Università di Kabul.

L’ondata di licenziamenti è l’ultimo colpo inferto alle donne accademiche, che hanno dovuto affrontare crescenti restrizioni da quando i talebani hanno vietato loro l’accesso ai campus universitari nel dicembre 2022. Nei mesi successivi, molte professoresse sono state costrette a rimanere a casa e a ricevere solo una frazione del loro precedente stipendio. Dal giugno 2024, i talebani hanno ridotto drasticamente gli stipendi delle dipendenti pubbliche che sono state rimosse dal servizio attivo, comprese le accademiche. Un tempo guadagnavano oltre 40.000 afghani al mese, ma ora molte professoresse ricevevano una cifra fissa di 5.000 afghani, indipendentemente dal grado o dall’esperienza.

Le proteste

Per protestare contro questa politica, nel settembre 2024 è stata presentata alla leadership talebana una petizione firmata da oltre 100 professoresse provenienti da 34 province. La lettera sottolineava i danni a lungo termine derivanti dallo smantellamento di decenni di investimenti nelle donne accademiche, avvertendo che “formare un docente universitario richiede 30 anni” e che i licenziamenti forzati e la riduzione degli stipendi stavano causando disagio sia finanziario che psicologico. Il Ministero dell’Istruzione Superiore non ha risposto e, secondo alcune fonti, il ministro si è rifiutato di firmare o di prendere atto della lettera.

Mentre inizialmente i talebani avevano affermato che l’istruzione femminile era stata sospesa solo temporaneamente in attesa della creazione di un “ambiente sicuro e islamico”, nei due anni successivi si è assistito all’erosione della quasi totalità della partecipazione femminile nell’istruzione superiore e nella pubblica amministrazione.

Zarghona, una docente trentaduenne della provincia di Kandahar, nel sud del paese, ha dichiarato di essere stata costretta a svolgere lavori poco qualificati dopo essere stata esclusa dal suo incarico universitario. “Ora registro i pazienti in un ospedale”, ha detto. “Non è quello per cui ho studiato, ma non ho scelta”.

Altri, come Fatima, 46 anni, studiosa con un master e numerose pubblicazioni accademiche, ora lavorano come sarte per sostenere le loro famiglie. “Ho passato dieci anni a insegnare scienze sociali e a seguire le tesi degli studenti”, ha detto. “Ora sto seduta dietro una macchina da cucire dalla mattina alla sera, giusto per dimenticare i giorni che passano.”

Secondo la BBC , il settore accademico afghano è stato gravemente minato dalle politiche dei talebani: circa un professore su quattro delle tre più grandi università del paese (Kabul, Herat e Balkh) ha lasciato il paese dopo il ritorno al potere del gruppo.

Chi rimane afferma di affrontare non solo la rovina professionale, ma anche una crescente ostilità da parte della società. “Persino gli ex colleghi maschi non ci salutano più allo stesso modo”, ha detto Soheila, ex docente del nord. “Alcuni distolgono lo sguardo. Altri dicono: ‘Questi giorni passeranno’, ma è difficile crederci ancora.”

I nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza. Khadija Haidary è una giornalista di Zan Times

L’istituzione cinematografica nazionale afghana è stata smantellata


Fidel Rahmati, Khaama Press, 13 maggio 2025

L’istituzione cinematografica nazionale afghana è stata smantellata, perdendo la sua identità storica e la sua funzione, segnando un cambiamento nella politica culturale

L’amministrazione ad interim ha ufficialmente declassato l’Afghan Film, l’unica istituzione statale di produzione e archiviazione cinematografica del Paese, rinominandola “Dipartimento di gestione audiovisiva”. Secondo Sahraa Karimi, ex direttrice dell’Afghan Film, la ristrutturazione ha comportato il licenziamento della maggior parte dei dipendenti e la cancellazione dell’identità storica dell’istituzione.

Karimi, che era a capo di Afghan Film prima della caduta di Kabul nell’agosto 2021, ha rivelato in un post sui social media che rimane solo una manciata di personale amministrativo. La loro responsabilità principale, ha affermato, è ora limitata a soddisfare le esigenze di propaganda e media del regime talebano.

Fondata nel 1968, l’Afghan Film ha svolto un ruolo cruciale nel documentare le trasformazioni sociali e politiche dell’Afghanistan nel corso dei decenni. Ha conservato un prezioso archivio di documentari, lungometraggi, filmati di cronaca e documenti visivi storici, costituendo la memoria cinematografica della nazione. Karimi ha descritto la cancellazione del nome e della struttura dell’istituzione come un duro colpo per la storia culturale e cinematografica dell’Afghanistan.

Negli ultimi anni, l’Afghan Film non solo ha coltivato il talento artistico, ma si è anche distinto come uno spazio raro per la libera espressione creativa in un Paese spesso lacerato da conflitti. Nonostante decenni di instabilità politica, l’istituzione è rimasta attiva durante la monarchia, il comunismo, la guerra civile e i periodi democratici. È stata riconosciuta a livello internazionale per il suo impegno nel recupero del patrimonio cinematografico perduto dell’Afghanistan.

Karimi ha avvertito che l’archivio visivo esistente, che documenta oltre un secolo di vita politica, culturale e sociale in Afghanistan, è ora a rischio di sequestro ideologico o di distruzione totale. Ha sottolineato che questo sviluppo segna un tentativo sistematico da parte dei talebani di imporre la cancellazione culturale, distorcere la memoria collettiva e monopolizzare il controllo narrativo.

La chiusura e il rebranding di Afghan Film sono in linea con i più ampi sforzi dei Talebani per reprimere l’espressione artistica e culturale. Da quando hanno ripreso il potere, il gruppo ha imposto severi divieti alla produzione cinematografica, alla fotografia e ai media visivi, in base alla loro interpretazione della legge islamica. Il Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio ha vietato le immagini di esseri viventi, rendendo film e cinema di fatto illegali.

Questa azione riflette anche una più ampia campagna dei talebani volta a eliminare le istituzioni che forniscono rappresentazioni pluralistiche o progressiste della società afghana, in particolare quelle che includono donne e voci delle minoranze. Gli esperti sostengono che tali politiche rischiano di isolare l’Afghanistan dal dibattito culturale globale e di danneggiare permanentemente il suo patrimonio artistico.

Lo smantellamento dell’Afghan Film non è solo un cambiamento amministrativo, ma fa parte di una sistematica epurazione culturale. Per preservare il patrimonio cinematografico del Paese, organizzazioni internazionali come l’UNESCO, il World Cinema Project e le iniziative guidate dalla diaspora devono intensificare gli sforzi per digitalizzare e proteggere gli archivi dell’Afghan Film. La comunità internazionale ha la responsabilità di salvaguardare la memoria culturale, soprattutto quando è minacciata da regimi autoritari.

In Afghanistan chiuse anche le lezioni comunitarie sostenute dalle Nazioni Unite

Ahmad Azizi, Amu Tv, 14 maggio 2025

Secondo le attiviste per i diritti delle donne, i talebani hanno chiuso i corsi di istruzione per ragazze nelle province di Logar e Paktika. Un’azione che, dicono, aggrava ulteriormente la crisi educativa del Paese e priva migliaia di ragazze del poco accesso che avevano alla scuola.

Il Movimento delle Lanterne delle Donne Afghane, guidato dall’attivista Hajar Azada, ha dichiarato in una nota che i Talebani hanno chiuso le scuole sostenute delle Nazioni Unite e dai suoi partner, tra cui l’UNICEF e il fondo Education Cannot Wait. I corsi, pensati per le ragazze oltre la sesta elementare in aree remote e svantaggiate, hanno svolto un ruolo fondamentale nel mantenere viva l’istruzione per le giovani donne nonostante i divieti scolastici più ampi.

“Queste chiusure non sono solo una palese violazione dei diritti umani, ma anche un crimine silenzioso contro il futuro dell’Afghanistan”, si legge nella dichiarazione. “I talebani temono la conoscenza e la consapevolezza delle donne”.

I corsi comunitari facevano parte di modelli educativi alternativi istituiti nelle aree rurali dove le scuole formali sono assenti o inaccessibili, soprattutto per le ragazze. I programmi permettevano alle studentesse di proseguire gli studi presso case locali o edifici comunitari con l’aiuto di istruttori qualificati e materiali di base.

Gli attivisti hanno condannato le chiusure e hanno esortato le Nazioni Unite e la comunità internazionale a intervenire. Hanno chiesto l’immediata riapertura delle aule chiuse e hanno proposto una serie di misure, tra cui una maggiore pressione politica sui talebani, garanzie di sicurezza per gli insegnanti e l’ampliamento di strategie educative alternative come l’apprendimento a distanza e le scuole clandestine.

Prima del ritorno al potere dei talebani nel 2021, le iniziative educative basate sulla comunità avevano iscritto oltre 49.000 ragazze in tutto il Paese. Ma da quando il gruppo ha imposto il divieto di scolarizzazione per le bambine oltre la sesta elementare, l’UNESCO stima che ad almeno 1,4 milioni di bambine sia stata negata direttamente l’istruzione, con un numero totale di ragazze fuori dalla scuola che ora si avvicina a 2,5 milioni.

Le chiusure a Logar e Paktika fanno parte di una più ampia repressione della partecipazione femminile alla vita pubblica. Gli attivisti affermano che i corsi comunitari rappresentavano una delle ultime vie di accesso all’istruzione per le ragazze e temono che anche questi spazi limitati stiano rapidamente scomparendo.

I talebani vietano gli scacchi: un segnale tremendo. Di cosa hanno paura?

Nicolò Carnimeo, Il fatto quotidiano, 13 maggio 2025

Quando un potere politico e religioso decide di spegnere anche questa piccola luce, vuol dire che ha paura non dei pezzi sulla scacchiera, ma del pensiero che li muove

In Afghanistan, gli scacchi sono stati vietati. Sì, avete letto bene: vietati. Il portavoce del dipartimento dello sport del governo talebano, Atal Mashwani, ha detto che ci sono “considerazioni religiose” che impediscono di giocare a scacchi. “Secondo la sharia,” ha spiegato, “gli scacchi sono un mezzo di gioco d’azzardo”. Dunque, illegali. Dunque, immorali. Dunque, sospesi fino a nuovo ordine.

Ora, io gioco a scacchi. Non bene, forse. Ma gioco. E non scommetto denaro, né credo di offendere alcun Dio mentre lo faccio. Solo, quando muovo il cavallo, quando penso a una difesa siciliana o sogno un arrocco, sento che la mia mente si muove. Si sveglia. Elabora. Soppesa. E in un paese come l’Afghanistan, dove il silenzio è spesso figlio della paura e la libertà è già stata calpestata sotto i piedi nudi dell’ortodossia, vietare un gioco come questo non è un fatto minore. È un segnale tremendo.

Perché gli scacchi sono più di un gioco. Sono una forma di pensiero. Una geometria dell’immaginazione. Una palestra della mente. E quando un potere politico e religioso decide di spegnere anche questa piccola luce, vuol dire che ha paura non dei pezzi sulla scacchiera, ma del pensiero che li muove.

C’è qualcosa di profondamente tragico in quell’immagine raccontata alle agenzie di stampa da Azizullah Gulzada, proprietario di un bar di Kabul dove si giocava a scacchi davanti a una tazza di tè. Dice: “I giovani non hanno molte attività oggi. Venivano qui ogni giorno, sfidavano gli amici. Non si è mai giocato d’azzardo”. E invece adesso no. La torre resta ferma. Il pedone è muto. Il re giace abbattuto su una scacchiera polverosa.

⁠ Ci sono battaglie che si combattono senza sparare un colpo. E ci sono divieti che colpiscono più in profondità delle armi. Non si tratta solo di religione, sia chiaro. In molti paesi islamici gli scacchi sono praticati liberamente, anche con entusiasmo. Non è scritto nel Corano che siano vietati. Alcuni studiosi medievali li difesero. Ma si sa, i talebani preferiscono interpretare la fede come una gabbia, non come una strada. E allora mi viene da chiedere: di cosa hanno paura? Del fatto che un bambino possa imparare a pensare dieci mosse avanti? Che una ragazzo possa comprendere che per arrivare alla regina bisogna rischiare, avanzare, osare?

L’anno scorso avevano già vietato le arti marziali miste. Troppo violente, dicevano. Ma evidentemente la verità è che tutto ciò che mette il corpo in movimento o l’intelligenza in discussione li terrorizza. Così hanno iniziato a cancellare ogni sport, ogni danza, ogni voce. Ora tocca alla mente. Ma la mente, si sa, è difficile da spegnere. Anche quando le luci si abbassano e le parole diventano sussurri, anche allora qualcuno, in un angolo, muove un pedone in silenzio. E ogni mossa, anche la più umile, può aprire la strada a una rivincita del pensiero.

Un giorno, spero, in una Kabul libera, un bambino e una bambina siederanno davanti a una scacchiera e, con un sorriso, diranno: “Scacco al re”.

Omicidi in uniforme: le forze speciali britanniche e i loro massacri in Afghanistan

Iain Overton, Byline Times, 15 maggio 2025

Una nuova indagine rivoluzionaria ha svelato la terrificante portata degli omicidi illegali commessi dalle Forze speciali britanniche durante l’occupazione dell’Afghanistan

C’è qualcosa di marcio nel cuore della mitologia militare britannica. Per anni, politici e generali hanno avvolto lo Special Air Service (SAS) e i suoi reggimenti affini nel manto di teflon dell’onore, del sacrificio e della segretezza. Ma i miti hanno la tendenza a sgretolarsi, e questo sta rapidamente accadendo. E ciò che emerge, come rivelato da un’inchiesta pluriennale della BBC Panorama e dal lavoro parallelo della mia organizzazione benefica Action on Armed Violence (AOAV), non è l’eroica professionalità dei guerrieri d’élite, è qualcosa di molto più oscuro.

È il corpo di un bambino, ammanettato e colpito alla testa.

E’ il conteggio delle uccisioni compiute da uomini che sembravano provare piacere nello spargimento di sangue.

Sono le armi piazzate, i resoconti falsificati, i filmati mai guardati, i server cancellati.

Si tratta, senza mezzi termini, di omicidio. E commesso in nostro nome.

Per chi di noi ha trascorso anni a documentare i costi civili della guerra al terrorismo, queste recenti accuse – contenute nell’eccezionale film di Panorama “Special Forces: I saw war crimes” – confermano ciò che molti sospettavano da tempo. Che le Forze Speciali britanniche abbiano quasi certamente condotto una campagna di esecuzioni extragiudiziali in Afghanistan impunemente. E che il sistema giudiziario militare creato per contenerle abbia fallito catastroficamente. Peggio ancora, potrebbe persino aver contribuito a coprirne le tracce.

Tutti sapevano

Non si tratta della cattiva condotta di poche “mele marce”, né di confusione sul campo di battaglia. Le testimonianze trasmesse da Panorama – tratte da interviste con oltre 30 ex soldati, ufficiali dell’intelligence e addetti ai lavori – rivelano illeciti sistematici. Operazioni in cui “tutti sapevano cosa stava succedendo”, attacchi in cui i detenuti venivano giustiziati, raid in cui venivano uccisi bambini e missioni in cui questi atti venivano registrati, non per accertare le responsabilità ma, a quanto pare, come trofei.

La rivelazione più scioccante potrebbe non essere l’omicidio in sé, ma quante persone lo sapevano. Lo sapevano e hanno taciuto. O peggio, lo sapevano e hanno permesso che accadesse.

Ufficiali comandanti. Consulenti legali. Ministri. Persino, a quanto pare, un ex Primo Ministro.

Erano stati avvertiti. Eppure non hanno fatto nulla.

Ciò che emerge è invece una coreografia di occultamento.

Manovre legali per bloccare le indagini, manipolazione del linguaggio ufficiale per restare all’interno delle “regole di ingaggio””, rifiuto di consegnare le prove e la sconvolgente rivelazione che alle Forze Speciali è stato concesso un veto segreto sulle richieste di asilo nel Regno Unito da parte di soldati afghani che avevano assistito in prima persona a queste uccisioni.

Questo veto, in particolare, rivela una depravazione morale in contrasto con l’immagine della Gran Bretagna come nazione di legge e ordine.

L’idea che alcuni dei “Triples” – forze speciali afghane che hanno combattuto e sanguinato al fianco delle truppe britanniche – siano stati lasciati indietro per essere torturati o uccisi dai talebani non perché rappresentassero un rischio per la sicurezza ma perché erano testimoni, dovrebbe essere una ferita nella psiche nazionale. Dovrebbe perseguitare ogni funzionario che ha firmato quei dinieghi. Dovrebbe perseguitare il Ministero della Difesa.

Queste non sono  accuse di semplice cattiva condotta, sono dettagliate accuse di crimini di guerra. Questa frase ha un peso e definisce  una soglia legale inequivocabile. L’uccisione di detenuti feriti, l’esecuzione di uomini disarmati, l’omicidio di bambini: queste non sono azioni di guerra, sono crimini.

Serrare i ranghi

Eppure, la risposta dello Stato britannico è stata quella di serrare i ranghi. L’Operazione Northmoor, l’indagine della Royal Military Police su 52 omicidi sospetti, è stata archiviata senza che le prove chiave filmate fossero esaminate. I testimoni oculari sono stati intimiditi o ignorati. Gli stessi avvocati del Ministero della Difesa hanno ingannato i tribunali. Personaggi di spicco, tra cui ex capi dell’Esercito e delle Forze Speciali britanniche, si sono rifiutati di rilasciare dichiarazioni.

Al contrario, il Ministero ha insistito sul fatto di “collaborare pienamente” con l’Inchiesta indipendente sull’Afghanistan. Questo può essere vero nella lettera. Ma nello spirito? Lo spirito di tale cooperazione assomiglia molto a un’ostruzionismo. E le uccisioni sono continuate ancora.

Dal 2006 a oltre il 2013, le Forze Speciali britanniche hanno trasformato la guerra in un gioco di numeri, dove le vite umane venivano ridotte a metriche e il “successo” di una missione si misurava in cadaveri. Solo nel 2010, uno squadrone SAS ha totalizzato una media di 2,7 uccisioni per raid.

C’è  un’altra violenza silenziosa nel modo in cui il Ministero della Difesa respinge le testimonianze afghane – come se le vite afghane fossero vite inferiori, il dolore afghano un dolore inferiore. Anche questo è parte del problema. Perché i crimini di guerra non esistono nel vuoto: prosperano in culture di impunità, razzismo e disprezzo per le regole che dovrebbero vincolarci.

E quindi, dovremmo unire le nostre voci alle richieste di giustizia – non solo per i morti, ma per i vivi che li ricordano, per le famiglie che ancora aspettano la verità, per gli afghani a cui è stato negato un rifugio sicuro,  per i soldati britannici che sono rimasti in silenzio per troppo tempo e che ora vorrebbero espiare.

Non ci si faccia illusioni: ciò che Panorama e AOAV hanno contribuito a svelare nel corso degli anni non è solo uno scandalo: è una resa dei conti. E se lo Stato britannico non riuscirà ad affrontarla, non solo disonorerà i morti, ma disonorerà se stesso.

Iain Overton è il direttore esecutivo dell’organizzazione benefica Action On Armed Violence
Byline Times è un giornale investigativo indipendente, finanziato dai lettori, al di fuori del sistema della stampa consolidata, che riporta “ciò che i giornali non dicono” – senza paura o favoritismi.

“Amina”, l’Afghanistan e l’infanzia femminile negata

Davide Magnisi, TaxiDrivers, 14 maggio 2025

Un’intervista alla regista Serena Tondo, che a Corti in Opera ha presentato il suo debutto alla regia, un recupero della memoria in un Afghanistan tornato in mano ai talebani

Amina, premiato alla settima edizione di Corti in Opera, è una sorprendente opera prima dal respiro internazionale, sia per la storia che racconta sia per un linguaggio cinematografico brillante ed eminentemente visivo. Il cortometraggio racconta un aspetto poco noto della condizione femminile in Afghanistan, quello delle bambine bacha posh: le famiglie senza figli maschi, per evitare discredito sociale, inducono le figlie a vestirsi e comportarsi da ragazzi. Il paradosso di questa femminilità rimossa è che le bacha posh godono di possibilità negate alle altre bambine: come andare a scuola, fare sport, uscire da sole. Arrivata la pubertà, le famiglie costringono le bacha posh a tornare al proprio genere di appartenenza, catapultandole nell’invisibilità domestica, con inevitabili contraccolpi psicologici.

Per raccontarci tutto quello che c’è dietro la storia di Amina, abbiamo intervistato la sua autrice, Serena Tondo

Come hai incontrato la storia di Amina?

Per caso: un giorno stavo navigando su internet e mi è uscita la pubblicità di un libro, Le ragazze segrete di Kabul, di Jenny Norberg, giornalista svedese Premio Pulitzer. Aveva fatto due anni d’inchieste sulla condizione delle donne in Afghanistan e ha scoperto questo fenomeno, di cui non aveva mai sentito parlare. È andata alla ricerca di famiglie che avevano bambine in questa situazione o donne che avevano subito questa trasformazione, raccogliendo molte storie. Lo stupore è che succede ovunque, sia nelle città che nei villaggi, riguarda sia famiglie di Kabul istruite che gente povera e ignorantissima. C’è un approccio diverso, ma permane la crudeltà di questa pratica. Nelle famiglie più colte c’è, magari, una maggiore responsabilità e consapevolezza, mentre nei villaggi non c’è alcuna attenzione a quelle che possono essere le ripercussioni psicologiche sulle bambine una volta che ritornano al proprio genere di appartenenza.

Immagino si sconti una doppia vergogna, in Afghanistan, di fronte a questo fenomeno.

Il problema è stato proprio riuscire a trovare persone disposte a parlarne. Per esempio, c’era una donna di Kabul con una bambina bacha posh perché si era candidata in Parlamento, ma, non avendo figli maschi, avrebbe avuto zero possibilità di essere votata. Poi diceva che voleva anche far vedere a sua figlia cosa significava avere diritti, essere libera e felice. Una situazione complessa.

Quel che accade in Afghanistan è ormai uscito dalla scena d’attenzione dei media, di fronte ad altre emergenze mondiali. Com’è la situazione oggi, in particolare per le donne?

La situazione è drammatica. Ho conosciuto donne afghane arrivate con i corridoi umanitari, mentre facevo il mio periodo di ricerca su questa storia. Hanno dovuto lasciare il Paese perché nella lista nera dopo il ritorno dei talebani: giornaliste, psicologhe, donne colte e libere. Tutte hanno perso il lavoro. Non possono fare più nulla. Sono tornate indietro di vent’anni, anche per colpa nostra. Perché le emergenze mondiali le gestiamo come vogliamo. Decidiamo noi quel che è emergenza o no. Adesso non si vede più nulla dell’Afghanistan. C’era un’apertura maggiore, ma vent’anni sono stati spazzati via in un momento. Alcuni sono riusciti a scappare, ma tanti sono rimasti intrappolati là.

Amina ha una grammatica cinematografica raffinatissima, fatta di contrasti tra buio e colori luminosi, spazi chiusi e aperti, un montaggio delle attrazioni d’alta scuola. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento, visivi e cinematografici, per quest’opera?

Il mio tipo di apprendimento è molto intuitivo. Non mi metto a studiare teorie. Girando, ho pensato a registi che apprezzo molto dal punto di vista visivo, Terrence Malick su tutti. Mi piaceva avere quel suo tipo di luminosità nelle scene di giorno. Poi, ovviamente, quando si gira in esterni, dipende dalla fortuna che ti capita con la luce naturale, non avendo la possibilità dei tempi di ripresa di Malick che, delle volte, arrivava sul set, non gli piaceva la luce e andava via. Invece, per i colori più scuri al chiuso, ho pensato a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, a quell’atmosfera, alla sua dimensione in spazi costretti. E poi, in generale, David Lynch. Queste sono le mie visioni. A cui aggiungo il gusto pittorico del cinema di Matteo Garrone in Italia. Per Amina ho scelto dei colori di fondo che, secondo me, potevano essere giusti, come il viola.

Quanto è stato complicato realizzare Amina? Penso anche alla grande cura nei costumi e la fotografia, oltre a un casting non in lingua italiana.

La protagonista del cortometraggio è la figlia di una psicologa fuggita dall’Afghanistan, che ho incontrato e mi ha fatto da consulente. Mi ha spiegato tantissime cose sul quel Paese. Per il film aspettavo la sua approvazione su tutto, anche come andasse posizionato un bicchiere. Io stavo impazzendo per trovare la protagonista: una bambina che sembrasse non tanto femmina, che sapesse recitare, che fosse afghana o anche italiana, ma che poi dovesse parlare in pashto. Avevo visto tante bambine. E lei, un giorno, dopo settimane che ne stavamo discutendo, mi ha detto: «Io ho una figlia, ti posso mandare una foto». Quando l’ho guardata, ho capito che era lei. Mi chiedevo, però, se fosse in grado di recitare: si è rivelata bravissima, soprattutto considerando la situazione. Noi non comunicavamo direttamente, avevamo un interprete, quindi per lei era ancora più difficile: una bambina di 13 anni, catapultata su un set con una regista che non capisce… Ho anche scoperto, mentre le tagliavamo i capelli, che aveva un’alopecia da stress. Il trauma nasceva dal fatto che lei, quando è scappata con la famiglia, è stata fermata al confine con il Pakistan e hanno puntato una pistola contro la testa del padre, proprio come si vede nel film. Ci sono tante storie di persone che sono arrivate lì e poi sono state rimandate indietro. Arrivati al confine con il Pakistan, i profughi scappano attraverso strade secondarie, pagando il viaggio, ovviamente. Quello è il punto più critico da attraversare. Tutti i costumi li abbiamo cuciti per l’occasione, con dei modelli che ho scelto sempre insieme alla consulente afghana.

E per il resto del cast? Sono tutti volti molto veri.

Per il casting degli altri ragazzi, c’erano due afghani, che erano appena arrivati in Italia, e poi alcuni rom. A me piace avere a che fare con gente un po’ ai margini. A Lecce c’è Campo Panareo, uno dei più grandi campi rom d’Italia. Visivamente sono molto simili agli afghani. E poi sono svelti d’intelligenza. I ragazzini rom sembrano avere un’esperienza da farli apparire dieci anni più grandi dei loro coetanei. È stato facile per loro imparare le battute in pashto, merito dell’interprete. Poi c’è anche qualche italiano, ma ho cercato il più possibile di coinvolgere profughi arrivati da poco. Non era solo un’esigenza di realismo, mi piaceva l’idea che per loro sarebbe stato un modo di sentirsi utili. Quando perdi tutto e arrivi in un luogo lontano, offrire la possibilità di raccontare una storia come questa, che stessero facendo qualcosa per il loro Paese, per quanto piccolo potesse essere come contributo, ha fatto sì che tutti abbiano accettato con grande entusiasmo. Mi hanno aiutato tantissimo.

In Amina non si parla molto, è un cinema totalmente visivo.

Sì, non ho mai immaginato un film denso di parole. Secondo me, la storia doveva arrivare visivamente allo spettatore, parlare soprattutto con le immagini.

Dove avete girato?

In Puglia. Siamo stati parecchio in giro per trovare i luoghi giusti. È stato difficile trovare i posti all’aperto che potessero rievocare quegli spazi lontani. La scena della partita di pallone, per esempio, è ambientata in una cava tra Avetrana e Manduria. La dimora di Amina è una casa abbandonata in campagna dell’organizzatore generale del film, che ci aveva fatto vedere mille posti che non andavano bene, poi si è ricordato di questa vecchia casa di famiglia dove non c’era nulla intorno

Tu hai cominciato nel cinema come attrice e fai una piccola parte anche in Amina, di cui sei autrice del soggetto e della sceneggiatura, oltre che regista. Cosa ti affascina di più della macchina cinema e che cosa un ruolo dà all’altro?

Per quella che è la mia formazione del mestiere d’attrice, qualcosa che non si definisce mai, ma una ricerca continua, la cosa che più mi piace è il fatto che tu vivi su di te il personaggio. È qualcosa che parte da fuori, arriva dentro di te e poi riesce fuori. Dal punto di vista registico, il percorso è opposto. Nel senso che non esiste niente, un testo, una storia, solo degli spunti, e il personaggio lo devi creare tu. Viene da dentro di te, si forma raccogliendo piccoli pezzi, ma non sei limitato da un testo già esistente: quando fai l’attrice, se il tuo personaggio è Giulietta, sai benissimo chi sei e che farai, non puoi uscire da quel seminato. Invece, quando crei un personaggio, hai libertà. Io ho cominciato a scrivere Amina dopo aver conosciuto degli afghani. Si parte da atmosfere e poi crei dalla tua testa. Sono un po’ processi opposti. Dell’attrice mi piace che prendi qualcosa che è stato scritto da qualcun altro e lo fai tuo. Quello che invece mi piace della scrittura è la magia di qualcosa che nasce nella tua testa e poi diventa vera.

Amina è anche un film sulla memoria. È in gran parte costruito su flashback.

Io sono una persona molto nostalgica e ho un rapporto molto forte con il passato. Non riesco a staccarmi da alcuni ricordi, che condizionano il mio presente. Mi rendo conto che, anche nel lavoro cinematografico, tendo sempre ad andare verso questo, a strutturarlo come sono fatta io.

Hai portato Amina in vari Festival. Qual è stata la reazione del pubblico?

Al di là del giudizio sul film, quello che sento sempre è che nessuno conosceva questa storia. Non mi meraviglia, neanch’io sapevo nulla, avendola pescata così su internet, mi rendevo conto di essere una delle poche persone a conoscerla. Ho notato anche che, soprattutto le donne, di qualunque età, rimangono particolarmente scosse. Le reazioni e le riflessioni più articolate, più profonde, le ho sempre avute dal pubblico femminile. È quello che ha empatizzato di più con questa storia.

Non a caso, l’immagine in qualche modo centrale del film, punto di svolta narrativo, è quando Amina scopre, tra l’altro pubblicamente, di avere il ciclo mestruale. È una rivelazione anche archetipica dell’essere donna. La scoperta di una specifica fisicità.

È, infatti, un passaggio che tutte ricordiamo. Non credo ci sia una donna che non rammenti dove stesse quando ha avuto per la prima volta il ciclo. Quello credo sia, probabilmente, il punto di connessione che trovano tutte le donne quando guardano questo film. Particolarmente in questo caso diventa una rivelazione a te stessa e al mondo. Tieni presente che, in Afghanistan, non si parla mai di mestruazioni. La prima volta che una bambina ha il ciclo, veramente non sa cosa stia succedendo. Qui in Occidente, in qualche modo, siamo preparate. Io lo sapevo che mi doveva succedere. Con le amiche, i genitori, si parla. Ma loro no, perché è un tabù talmente grande, che tu hai il doppio trauma di non capire cosa ti sta accadendo. Tanto più in una situazione come quella di Amina, non sai quale sarà la portata sociale di quello che ti sta succedendo.

Vincere un premio nella propria terra, qui a Corti in Opera, in Puglia, immagino abbia un significato speciale.

È la cosa che mi fa più piacere in assoluto, perché io ho un rapporto strano con questa terra. Di natura mi sono sempre sentita cosmopolita, non ho un attaccamento da tifoseria alla mia Puglia. Riesco a essere abbastanza obiettiva su cosa mi piace e cosa no. Amina è girato in Puglia, ma racconto di un luogo lontano perché, fin da piccola, sono sempre stata curiosa dell’altrove. La gente parte dal presupposto che la propria terra sia sempre la migliore, io lo vedo come un atteggiamento che impedisce di aprirsi veramente agli altri. Io volevo viaggiare, conoscere, vedere, mi affascina sempre molto. Però rimango male quando, nella mia terra, quello che faccio non viene riconosciuto. Per cui sono felice di essere qui a rappresentare la mia regione, nel mio piccolo, con un’opera, come dicevi tu prima, dal respiro internazionale.

Hai già degli altri progetti cinematografici di cui ci puoi e ci vuoi parlare?

Sì, mi sto avventurando nella scrittura di un lungometraggio, partendo dalla mia personale condizione di persona affetta da epilessia. Sono stata perfettamente sana fino a 22 anni, poi ho iniziato ad avere queste problematiche. Non è stato un processo di accettazione facile. Mi ci è voluto un po’ per metabolizzare questa cosa. Per fortuna non è una forma severa, però porta comunque delle difficoltà. Di epilessia non si parla molto. Ho deciso di utilizzare questo spunto insieme a un mio grande amico e geniale autore, Alessandro Valenti. Ho iniziato a ragionarci, immaginare, e adesso sto elaborando una commedia, perché non voglio fare cose smielate, retoriche. Sarà un film sullo sport e l’epilessia. Certo, con i tempi del cinema italiano, sarà forse pronto tra dieci anni. Però non mollo!

AFGHANISTAN: UNA DONNA E TRE UOMINI FRUSTATI IN PUBBLICO PER ‘CORRUZIONE MORALE’

Nessuno tocchi Caino, 7 maggio 2025

I Talebani hanno frustato in pubblico una donna e tre uomini nel nord e nel sud-est dell’Afghanistan, secondo il comunicato rilasciato il 4 maggio 2025 dalla Corte Suprema del gruppo.
Una donna e un uomo il 4 maggio sono stati frustati di fronte a una folla nel distretto di Qala-e-Zal, nella provincia di Kunduz.
Secondo la Corte erano colpevoli di “relazioni illecite” ed erano stati condannati a 30 frustate ciascuno, oltre a un anno di carcere.
In un altro caso, il giorno prima, due uomini sono stati frustati pubblicamente nel distretto di Zurmat, nella provincia di Paktia, dopo essere stati riconosciuti colpevoli di “sodomia”. Ognuno di loro ha ricevuto 33 frustate oltre a un anno di carcere.
Si tratta dei più recenti casi di una serie di punizioni corporali inflitte nel Paese, tra cui fustigazioni pubbliche, esecuzioni e lapidazioni.
Da quando hanno ripreso il potere nell’agosto 2021, i Talebani hanno ripristinato un’interpretazione rigida della Sharia, simile a quella che avevano alla fine degli anni ’90.
Sotto il loro regime, sono già state praticate sei esecuzioni pubbliche per omicidio e centinaia di individui, in particolare donne e membri della comunità LGBTQ+, hanno subito fustigazioni pubbliche per quella che i Talebani definiscono “corruzione morale”. I rapporti suggeriscono un aumento di tali punizioni negli ultimi mesi, con le fustigazioni pubbliche che nel Paese sono diventate un evento quotidiano.
La Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha documentato 111 casi di punizioni corporali tra giugno e settembre 2024, tra cui 15 donne e una ragazza.

(Fonte: Kabul Now, 04/05/2025)