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Afghanistan, terremoti e leggi che uccidono le donne

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Casa delle Donne di Milano, 11 settembre 2025, di Antonella Eberlin

Un terremoto distrugge in pochi secondi. Case che crollano, villaggi che spariscono, famiglie che si ritrovano senza nulla. Ma in Afghanistan, dopo che la terra ha smesso di tremare, per molte donne la tragedia non è finita. È solo cominciata.
Perché in un Paese in cui alle donne è vietato, tra tante altre cose, studiare medicina, lavorare come infermiera o muoversi senza un accompagnatore maschio, anche il diritto più elementare – ricevere soccorso quando si è feriti – può essere negato.

Una catastrofe naturale e un sistema che amplifica il dolore

Nell’ottobre 2023 la provincia di Herat è stata colpita da tre scosse di magnitudo 6.3: circa 1.480 morti e quasi 2.000 feriti. Un bilancio pesantissimo, aggravato dalla distruzione di oltre 40 strutture sanitarie. Testimonianze delle agenzie umanitarie hanno rivelato un dato significativo: tra le vittime, la maggioranza erano donne e bambine. Non per caso, ma perché al momento delle scosse si trovavano in casa, mentre gli uomini erano all’aperto per lavoro.

E quando si arriva all’ospedale – ammesso che non sia crollato – inizia un altro dramma. Da anni, i talebani hanno imposto regole che limitano l’assistenza sanitaria femminile. In molte zone un uomo non può visitare una donna se non è presente un mahram, cioè un parente maschio. Ma se il mahram non c’è, o è morto sotto le macerie, la donna resta senza cure. In situazioni di emergenza questo equivale a una condanna a morte.

Il blocco della formazione sanitaria femminile

Come se non bastasse, dal dicembre 2024 è stato imposto lo stop ai corsi di infermieristica e ostetricia. Una misura che ha chiuso l’ultima finestra per formare personale sanitario femminile, proprio quando ce n’è più bisogno.
Il paradosso è evidente: le donne possono essere curate solo da altre donne, ma alle donne viene vietato di studiare e di lavorare in ospedali e ONG. Il risultato è che intere comunità restano senza mediche e infermiere. In un Paese con frequenti disastri naturali e un sistema sanitario fragile, questa scelta non è neutrale: è letale.

Non solo regole, ma vite spezzate

Le cronache raccontano storie di donne ferite che hanno dovuto attendere ore ai checkpoint, perché senza un accompagnatore maschio. Alcune non ce l’hanno fatta. Altre, arrivate in ospedale, hanno trovato solo medici uomini che non potevano toccarle.
Medici Senza Frontiere ha sottolineato come, dopo i terremoti, la maggior parte dei pazienti fosse composta da donne e bambini. Ma senza staff femminile sufficiente, l’accesso alle cure è stato limitato. Non esiste un decreto nazionale che proibisca esplicitamente a un uomo di salvare una donna ferita, ma la somma di regole, divieti e paure crea lo stesso effetto: vite perse per motivi che nulla hanno a che vedere con la natura.

Dove finisce l’umanità?

Dov’è finita l’umanità se, di fronte a una donna che sanguina sotto le macerie, si dà più valore a una regola che al suo diritto alla vita?
Un terremoto è inevitabile. Ma lasciar morire una persona ferita perché “non può essere toccata” non è una fatalità: è una scelta politica, un atto di crudeltà istituzionalizzato. È l’umanità stessa che viene sepolta, ogni volta che un soccorritore abbassa le mani per paura di una punizione.

Cosa chiedono le agenzie internazionali

Le Nazioni Unite, Human Rights Watch e numerose ONG parlano apertamente di gender apartheid. Non si tratta di tradizioni culturali da rispettare, ma di un sistema che discrimina e uccide. Le richieste sono chiare:

  • Deroghe immediate che permettano a chiunque di salvare chiunque, in situazioni di emergenza.
  • Ripristino della formazione sanitaria femminile, perché senza infermiere e mediche non c’è futuro.
  • Accesso sicuro alle ONG e alle cliniche mobili, che spesso rappresentano l’unica speranza nelle province più isolate.

Le donne afghane oggi stanno morendo due volte: una sotto le macerie, l’altra per mano di un sistema che nega loro perfino il diritto alla vita. Non possiamo permettere che questo silenzio continui.

Afghanistan. Il CISDA al fianco delle famiglie del Kunar

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