In seguito alla sparatoria a Washington, Trump vuole sospendere le immigrazioni dall’Afghanistan
ultimavoce.it Lucrezia Agliani 27 novembre 2025
L’episodio della sparatoria a Washington ha coinvolto due membri della Guardia Nazionale, colpiti in pieno giorno mentre erano in pattuglia nei pressi di Farragut Square, una zona centrale frequentata dagli impiegati federali e affollata all’ora di pranzo. Poco dopo le 14:15, un uomo ha aperto il fuoco contro i militari, ferendoli gravemente prima di essere a sua volta colpito e immobilizzato da altri colleghi accorsi sul posto.Da qui, Donald Trump ha impiegato veramente poco tempo per costruire una retorica xenofoba: questa volta, il dito è stato puntato sulle immigrazioni dall’Afghanistan.La polizia ha descritto la scena della sparatoria a Washington come un’“imboscata”: il sospettato sarebbe spuntato all’improvviso da un angolo della strada, sparando immediatamente contro i due soldati. Testimoni hanno riferito di aver udito una serie di colpi seguiti dal panico della folla che cercava rifugio nei negozi vicini. Le immagini girate da alcuni automobilisti mostrano i due militari distesi sull’asfalto, circondati dai medici che tentavano di stabilizzarli.

L’identificazione del sospettato
Poche ore dopo la sparatoria a Washington DC, le forze dell’ordine hanno identificato il presunto aggressore: Rahmanullah Lakanwal, 29 anni, residente nello Stato di Washington. Fonti investigative hanno confermato che si tratta di un cittadino afgano arrivato negli Stati Uniti nel 2021, nei mesi successivi alla presa di Kabul da parte dei talebani.
Secondo quanto riferito da un familiare, Lakanwal avrebbe passato dieci anni nell’esercito afgano, collaborando anche con le forze speciali statunitensi. Per questo motivo avrebbe ottenuto protezione nell’ambito dei programmi dedicati agli afghani che rischiavano ritorsioni dopo il ritorno al potere dei talebani. La stessa fonte ha dichiarato ai media di essere sconvolta: «Eravamo noi il bersaglio dei talebani, non riesco a immaginare cosa sia successo».
Il programma di accoglienza e la richiesta d’asilo per le immigrazioni dall’Afghanistan
Il nome di Lakanwal era stato registrato nel 2021 all’interno di Operation Allies Welcome, l’iniziativa lanciata dall’amministrazione Biden per accogliere gli afghani che avevano collaborato con gli Stati Uniti durante la guerra. Nel 2024 aveva presentato una richiesta formale di asilo politico, che sarebbe stata accettata all’inizio di quest’anno.
Ma dopo l’attacco di Washington, le autorità hanno dichiarato che il sospettato non starebbe collaborando con gli investigatori e al momento non è stato reso noto il movente. Il sindaco Muriel Bowser, pur evitando conclusioni affrettate, ha definito l’episodio «una sparatoria mirata», suggerendo che i militari fossero l’obiettivo diretto.
A poche ore dalla conferma dell’identità del sospetto, Donald Trump ha utilizzato l’episodio per lanciare un attacco politico contro le politiche migratorie dell’amministrazione Biden. Da un palco, il Presidente ha chiesto «un riesame immediato di ogni cittadino afgano entrato nel Paese sotto il mandato di Biden», definendo la sparatoria «un atto di terrore».
Quasi in contemporanea, il Dipartimento della Sicurezza Interna ha annunciato la sospensione a tempo indeterminato di tutte le procedure di immigrazione dall’Afghanistan, in attesa di una revisione dei protocolli di sicurezza. Una misura immediatamente contestata da gruppi per i diritti dei rifugiati, che la considerano una reazione politica sproporzionata.
Un clima di militarizzazione crescente
Negli ultimi mesi la capitale americana ha visto un massiccio dispiegamento della Guardia Nazionale, schierata su ordine di Trump – con il benestare del Pentagono – per contrastare quello che il Presidente ha definito un aumento incontrollato della criminalità. Al momento, oltre duemila riservisti pattugliano le strade della città, pur senza poteri di arresto.
Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha annunciato l’imminente arrivo di altri 500 militari, dichiarando che l’attacco «non farà che rafforzare la nostra determinazione nel rendere Washington più sicura». Una scelta che riaccende il dibattito su fino a che punto sia opportuno utilizzare forze militari in ruoli tipicamente civili.
La questione delle immigrazioni dall’Afghanistan negli Stati Uniti
La sparatoria a Washington riapre una discussione mai sopita: quella sull’accoglienza degli afgani arrivati dopo il ritiro statunitense del 2021. Decine di migliaia di persone sono entrate nel Paese con protezioni speciali, tra visti umanitari, asilo e programmi dedicati agli ex collaboratori delle forze armate statunitensi.
Negli ultimi mesi, l’amministrazione Trump aveva già annunciato restrizioni ai visti, inclusi divieti di viaggio per i cittadini di vari Paesi tra cui l’Afghanistan. In un documento trapelato due giorni prima della sparatoria, veniva indicata la volontà di esaminare nuovamente tutti i rifugiati ammessi durante la presidenza Biden, un processo che potrebbe interessare oltre 200.000 persone.
Un Paese diviso tra accoglienza e timori per la sicurezza
L’episodio della sparatoria a Washington rischia di diventare un nuovo punto di frattura nel dibattito americano sulle immigrazioni dall’Afghanistan e più in generale. Da una parte, chi teme che l’ingresso accelerato di migliaia di afghani abbia comportato un abbassamento degli standard di controllo; dall’altra, chi ricorda che molte di quelle persone hanno messo a rischio la propria vita collaborando con gli Stati Uniti.
Con il sospettato ancora ricoverato e senza una chiara ricostruzione delle sue motivazioni, le risposte definitive tardano ad arrivare. Nel frattempo, la questione migratoria torna a dominare la scena politica, mentre Washington tenta di fare i conti con un attacco che, più del suo bilancio, sembra destinato a lasciare un’impronta profonda nel clima del Paese.
La migrazione è diventata il banco di prova delle democrazie contemporanee: misura la capacità degli Stati di bilanciare sicurezza e diritti, ordine pubblico e valori costituzionali, pragmatismo e solidarietà. Le difficoltà di gestione non devono però oscurare una verità fondamentale: la mobilità è parte integrante della società globale e non può essere governata esclusivamente con logiche emergenziali o punitive, che spesso nascondono politiche xenofobe.
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