Afghanistan: come si viene processati a Kabul
di Giovanni Porzio – tratto da Panorama
Due edifici contigui ai lati della carreggiata che sfiora le colline a nord-est di Kabul. Costruiti con un finanziamento della cooperazione italiana, i centri di detenzione minorile e femminile sono il fiore all’occhiello del sistema carcerario afghano: campi di pallavolo, asilo, corsi di computer. Niente a che vedere con le celle di altre carceri dove i reclusi bivaccano senza alcuna speranza di riveder le stelle. Dai racconti dei prigionieri emerge una realtà agghiacciante, specchio di una società arcaica che a 9 anni dal crollo del regime del mullah Omar non sembra avere fatto alcun progresso nella sfera dei diritti civili.
Ancora oggi in Afghanistan si può finire in carcere per una delazione, un arresto arbitrario, una fuga per evitare un matrimonio forzato o i maltrattamenti domestici. E a finire dietro le sbarre sono spesso le vittime della violenza. Come Nasrin, una dei 158 minorenni internati, che a 15 anni deve scontarne tre per abbandono del tetto coniugale. Come Nasira, 14 anni, rapita, stuprata e condannata a 5 anni per fornicazione. Le garanzie legali esistono solo sulla carta. Tra le 137 adulte (e 45 neonati) della sezione femminile ci sono nove straniere. Maryam, ugandese di Kampala, condannata a 7 anni perché trovata in possesso di mezzo chilo di eroina, è sieropositiva: non ha mai visto un medico. Hosan Pari, una kamikaze pachistana fermata a Jalalabad con una cintura di esplosivo, ha scontato la sua pena: i mesi passano, ma non sa quando potrà uscire.
«Il sistema giuridico» spiega Rohullah Qarizada, presidente dell’associazione degli avvocati, «è ancora basato sulla sharia, la legge coranica. Il codice penale si applica solo per alcuni reati: traffico di droga, pederastia, aborto, corruzione, contrabbando, incidenti stradali. Per i cosiddetti crimini morali, come la fornicazione o la fuga da casa, e per i reati “hudud” (apostasia, adulterio, omicidio, furto, brigantaggio, ribellione, uso di bevande alcoliche) vige il diritto islamico della scuola hanafita. Esattamente come al tempo dei talebani. Con l’aggravante che oggi i tempi della giustizia si sono allungati e la corruzione ha raggiunto livelli mai visti».
Principi come la presunzione di innocenza e il diritto alla tutela giuridica stentano a farsi strada. Cinque avvocati dell’associazione sono stati arrestati in aula. Un altro è finito in carcere perché difendeva un talebano. Afzal Nooristani, uno dei legali incaricati da Emergency di assistere i volontari italiani arrestati a Lashkar Gah, è stato minacciato di morte, nel 2007, per avere difeso il giornalista «blasfemo» Sayed Parwez Kambakhsh, condannato alla pena capitale (e poi graziato dal presidente Hamid Karzai) per avere scaricato da un sito iraniano materiale sui diritti delle donne.
«Gli abusi si sprecano» afferma Shamsullah Ahmadzai, ricercatore della Commissione indipendente per i diritti umani (Aihrc). «In teoria la polizia ha 72 ore per consegnare un fermato alla procura, che entro 15 giorni deve formalizzare le accuse. In pratica la tempistica è regolata dalle mazzette ai poliziotti e ai magistrati. Lo stesso vale per i termini di detenzione: chi finisce in cella ci resta finché non paga, mentre politici e narcotrafficanti godono di un’assoluta impunità. L’ex sindaco di Kabul Abdul Haq, condannato a 5 anni per corruzione, è uscito dopo pochi mesi. Per non parlare di ciò che vediamo nelle sovraffollate carceri in provincia: torture, violenze, assenza di igiene, isolamento ingiustificato».
Capitolo a parte sono i «buchi neri», le prigioni dell’esercito americano dove languono senza processo centinaia di presunti terroristi. L’Aihrc e la Croce rossa internazionale non sono ammesse. Ma la Bbc ha mostrato le immagini di prigionieri ammanettati alle mani e alle caviglie, sottoposti a privazione del sonno, portati in giro su sedie a rotelle e costretti a indossare cuffie e occhiali scuri. Nessuno di loro ha diritto a un avvocato.
In Afghanistan il rispetto dei diritti umani è un concetto sconosciuto. Un rapporto del dipartimento di Stato Usa elenca la lunga serie dei reati impuniti: esecuzioni sommarie, detenzioni arbitrarie, tortura, violenze su donne e su minorenni, persecuzioni etniche e religiose, traffico di esseri umani, sfruttamento del lavoro minorile. L’amnistia concessa da Karzai per i crimini di guerra, duramente contestata dall’Onu, contribuisce a screditare la giustizia e a rafforzare l’immunità dei signori della guerra e dei boss della droga. Il comandante uzbeko Rashid Dostum, responsabile del massacro di oltre 1.500 talebani arresisi a Kunduz nel novembre 2001, non è mai comparso davanti a un giudice.
L’Italia, che nel 2002 si è assunta il compito di riformare il sistema giudiziario e che finanzia i corsi di formazione per avvocati e magistrati, ha redatto il codice minorile e quello di procedura penale, in vigore ad interim. Mentre è all’esame del parlamento un nuovo codice, anch’esso elaborato in Italia, che si sforza di conciliare i principi democratici con le leggi islamiche e alle consuetudini locali: nei villaggi la giustizia è amministrata dalle «jirga» degli anziani e nel sud, accanto alla sharia, vige il Pashtunwali, il codice d’onore delle tribù pashtun.
«La strada è ancora lunga» ribadisce Rohullah Qarizada. «I giudici laureati sono meno della metà e in tutto il paese ci sono solo 980 avvocati. Ma il problema numero uno è la corruzione: un cancro che corrode la politica, la magistratura, l’economia, le forze di sicurezza. Invece di perseguire i trafficanti di eroina, il governo arresta i contadini che non hanno alternative alla coltivazione dei papaveri da oppio. E la stessa polizia organizza rapimenti a scopo di estorsione». Gli Stati Uniti hanno speso 6 miliardi di dollari per la formazione della polizia afghana, con esiti disastrosi. Delle 170 mila reclute (il 93 per cento analfabeti), solo 30 mila non hanno disertato. L’addestramento si limitava alla consegna dell’uniforme, di un fucile e a qualche prova di tiro. Così i malpagati poliziotti, quando non vendono le munizioni ai talebani, taglieggiano i cittadini che dovrebbero proteggere.
«Siamo ripartiti da zero» racconta a Panorama il generale Carmelo Burgio, che da novembre guida la task force di carabinieri inquadrata nella Nato training mission. «Abbiamo raddoppiato i salari e adottato nuovi standard di addestramento; abbiamo aumentato il numero degli istruttori, migliorato l’armamento e le condizioni di vita nelle caserme, organizzato corsi di alfabetizzazione e seminari per gli ufficiali con l’ausilio di avvocati e di psicologi». L’obiettivo è trasferire la responsabilità dell’ordine pubblico alle forze di sicurezza locali entro il 2011, quando secondo i piani di Barack Obama inizierà il ritiro dei contingenti Nato. Ma ci vorrà più di una generazione e ben più di un codice di procedura penale per trasformare la mentalità, le abitudini e le antiche leggi del popolo afghano.
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