Afghanistan – Arrivederci al 2014
Le truppe americane e occidentali rimarranno in Afghanistan fino al 2014, data in cui le forze afgane prenderanno il controllo totale della sicurezza del paese: è questa la decisione finale presa alla conferenza internazionale tenutasi a Kabul lo scorso martedì 20 luglio.
L’enfasi posta sul 2014 sarebbe, secondo diverse opinioni, un tentativo per distogliere l’attenzione dalla precedente scadenza fissata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, la quale prevedeva il ritiro delle truppe americane dal paese a partire dal 2011 e che per molti significava la resa ai talebani.
La nuova linea politica dimostra invece come questo ritiro dall’Afghanistan sarà graduale e verrà stabilito in base alla situazione nterritoriale, pertanto i termini di scadenza stabiliti sono da considerarsi puramente indicativi.
Tuttavia, è proprio questo il nocciolo della questione: l’attuale situazione del paese – che ha reso il ritiro delle truppe a partire dal 2011 alquanto improbabile visti gli obiettivi stabiliti – lascia intendere che anche il ritiro totale delle truppe dall’Afghanistan fissato per il 2014 è piuttosto irrealizzabile (a meno che un improvviso peggioramento della situazione non lo renda necessario, ovvero, nel caso di un avanzamento dei talebani che minaccerebbe così una sconfitta imminente).
Pertanto, la drammatica saga afghana è destinata a proseguire, al meno nel futuro più prossimo, e la missione della Nato potrebbe prolungarsi contro ogni logica nonostante la mancanza totale di risultati tangibili.
L’aspetto più sorprendente della recente conferenza di Kabul è stata l’enorme incongruenza tra la retorica del Segretario di stato americano Hilary Clinton e del Segretario generale della Nato Andres Fogh Rasmussen, e ciò che sta realmente accadendo sul terreno di guerra in Afghanistan.
In un articolo pubblicato il giorno successivo alla conferenza, Rasmussen ha definito l’incontro ‘un punto fondamentale’ nel processo che vedrà il popolo afgano nuovamente artefice del destino del proprio paese.
‘L’Afghanistan si sta finalmente muovendo nella direzione giusta’, ha dichiarato Rasmussen. ‘Probabilmente gli insorgenti stanno aspettando la nostra uscita di scena, noi invece resteremo fino a che il nostro lavoro non sarà terminato’.
All’uscita sulla carta stampata delle dichiarazioni di Rasmussen, era già ben noto a moltissimi osservatori internazionali che il 2009 è stato l’anno con il più alto numero di attacchi talebani degli ultimi otto anni e che il 2010 si prospetta ancora più sanguinolento e letale per le truppe della coalizione occidentale.
Se è vero che la maggior parte del territorio afgano è sotto il controllo dei talebani, dall’altro lato, le offensive militari della Nato – definite da Rasmussen ‘di grandissima importanza politica’ in quanto ‘accelerano il processo di marginalizzazione delle forze politiche e militari talebane,’ – si sono rivelate un fallimento: le truppe della coalizione occidentale e quelle dell’esercito afgano incontrano enormi difficoltà nel difendersi dai violenti contrattacchi talebani e in tutto questo, il governo afgano non è riuscito ad garantire alcun tipo di servizio al popolo ‘liberato’.
Molti degli obiettivi stabiliti alla conferenza di Kabul – tra i quali conferire al governo afgano ulteriori responsabilità amministrative in cambio di una maggiore trasparenza ed efficenza – erano già stati fissati in passato in diverse conferenze come quella svoltasi a Londra nel 2006 e a Parigi nel 2008. Tuttavia, con il passare degli anni, la situazione è senza dubbio peggiorata.
Secondo una recente inchiesta, il numero delle mazzette e delle tangenti pagate in Afghanistan è raddoppiato dal 2006 al 2009. La corruzione è sempre più diffusa. Centinaia di milioni di dollari sono finiti nelle tasche di appaltatori, ufficiali corrotti e signori della guerra a causa di un mancato sistema di controlli efficienti.
Le istituzioni statali sono ancora deboli. Lo stato è assente. Nel 2008, dopo otto anni di ‘nation-building’, il programma di ricostruzione del paese, un’inchiesta del Brookings Institution vedeva l’Afghanistan al penultimo posto nella classifica dei paesi con le istituzioni statali più instabili, seguito solo dalla Somalia.
Le forze armate e la polizia afgana dovrebbero prendere in mano il controllo della situazione nel 2014, ma la qualità del loro addestramento lascia molto a desiderare. Un recente rapporto del SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) ha rivelato come solo il 23% dell’esercito afgano e solo il 12% della polizia afgana è effettivamente in grado di portare a termine le operazioni indipendentemente.
Sono numerosi i casi in cui la polizia afgana ha commesso abusi nei confronti della popolazione locale anziché provvedere alla loro sicurezza. Il quotidiano britannico The Daily Telegraph ha documentato una serie di preoccupanti incidenti in cui giovani soldati afgani hanno aperto il fuoco e perfino lanciato missili per errore.
I soldati afgani sono sottopagati e mal attrezzati. Spesso prendono con sé le armi dei compagni morti sul campo. Nonostante il loro livello di addestramento sia molto basso rispetto a quello delle truppe americane, non di rado vengono impiegati in pericolose missioni notturne. Considerate le condizioni di lavoro e di vita alle quali sono sottoposti, accade soesso che qualcuno decida di passare dalla parte dei talebani.
È dunque evidente che nel 2014, gli obiettivi prefissati in occasione della conferenza di Kabul potrebbero continuare ad essere tanto lontani quanto appaiono oggi.
Diversi opinionisti hanno definito il clima della conferenza di Kabul ‘irreale’ o perfino ‘surreale’: mentre alcuni parlano di vittoria ‘così imminente’ da poter cominciare già a stabilire le condizioni per il trasferimento dei poteri al governo afgano, alcuni ribelli sono riusciti a lanciare cinque missili nelle vicinanze dell’aeroporto e della zona diplomatica. Poco tempo prima, si era deciso all’ultimo momento di cambiare la pista di decollo dell’aereo con a bordo il Segretario generale delle Nazioni Unite per paura di un eventuale attentato dei talebani.
Allo stesso tempo, è ancora più evidente che a partire dal prossimo anno, il ritiro delle forze occidentali potrebbe già avere inizio. Sarà sempre più difficile per i governi occidentali fornire all’opinione pubblica dei loro paesi delle valide ragioni per prolungare la guerra dopo oltre dodici anni di combattimenti e perdite enormi sia in termini di spesa pubblica che di vite umane.
Recenti sondaggi dimostrano come il 77% dell’opinione pubblica in Gran Bretagna sia favorevole al ritiro delle truppe entro i prossimi dodici mesi. Negli Stati Uniti, a maggio, il 52% degli americani non vedeva più la necessità di continuare la guerra in Afghanistan.
L’idea che questa guerra sia necessaria per combattere il terrorismo non è più credibile. Al-Quaeda, ritenuto il responsabile degli attentati dell’11 Settembre 2001, non esiste più. La sua originaria organizzazione centralizzata si è frantumata e insediata in diversi paesi come Pakistan, Somalia e Yemen, più che in Afghanistan. Spesso queste cellule si appoggiano a movimenti locali o operano per mezzo di individui reclutati su internet (è il caso di Umar Farouk Abdulmutallab, il giovane nigeriano che tentò di farsi esplodere in un volo diretto a Detroit).
Nella lotta al terrorismo, la guerra in Afghanistan non ha alcun senso.
L’instabilità che inevitabilmente aumenterebbe nel caso si procedesse con un ritiro improvviso delle truppe occidentali dall’Afghanistan è molto più pericolosa, in quanto il paese rischierebbe di ricadere nelle mani dei talebani o di essere sventrato da una nuova guerra civile.
Pertanto, al fine di evitare tale rischio, l’unica via possibile è quella di siglare accordi locali che assicurino stabilità al paese. L’amministrazione Obama non ha saputo, o non ha voluto, seguire questa strada. Un esempio: gli Stati Uniti avrebbero ignorato la richiesta della Russia di rendere l’Afghanistan un paese ‘neutrale’, il quale – senza la presenza di forze occupanti straniere – avrebbe potuto raggiungere una certa stabilità e porre così le basi per una serie di rapporti di cooperazione con i paesi confinanti.
Pur essendo consapevole della necessità di ridurre gradualmente la propria presenza militare nel paese, Washington non sembra essere disposto a rinunciare alla propria influenza. Nel corso di una recente conferenza stampa, il presidente Obama ha dichiarato che gli Stati Uniti ‘rimarranno a lungo un alleato nel garantire sicurezza e progresso al popolo afgano’.
Questo concetto è stato reso ancor più chiaro dal Segretario generale della Nato Rasmussen, il quale ha dichiarato che la Nato dovrebbe stipulare un accordo di cooperazione a lungo termine con il governo afgano, simile a quello siglato dagli Stati Uniti e il governo Maliki in Iraq.
Se a queste dichiarazioni, consideriamo poi che gli Stati Uniti stanno costruendo una base per le proprie forze speciali del costo di 100 milioni di dollari vicino a Mazar-i-Sharif, a dodici chilometri dal confine uzbeko, è chiaro che nel 2014 non ci sarà alcun ritiro totale delle forze americane (o Nato) dall’Afghanistan.
Il Pentagono sta inoltre progettando la costruzione di campi militari di addestramento nei paesi dell’Asia centrale confinanti con l’Afghanistan, come l’instabile Kyrgyzstan (dove gli Stati Uniti possiedono già la base aerea Manas, d’importanza strategica per la guerra in Afghanistan), Tajikistan e Kazakhstan.
Secondo numerosi analisti, il piano di Washington di mantenere un punto d’appoggio in Afghanistan avrebbe a che vedere più con la regione dell’Asia centrale – dai confini russi e cinesi in Xinjiang, e vicina all’Iran e al Pakistan – che con la lotta al terrorismo o l’esportazione della democrazia in Afghanistan.
C’è poi la necessità di stabilizzare il paese. Gli Stati Uniti non sono riusciti a garantire una stabilità con la propria presenza militare, e non sembrano nemmeno intenzionati a farlo mediante un accordo territoriale. La strada che Washington sta cercando di seguire al momento è quella dell’accordo con i talebani (o per lo meno, una parte di essi) – grazie anche al sostegno del Pakistan – per una condivisione dei poteri a Kabul.
Tuttavia, come diversi analisti fanno notare, questa tattica rischia di intensificare le tensioni locali più che allentarle. Prima di tutto, i talebani potrebbero non voler accettare l’accordo in quanto convinti di poter vincere la guerra. Secondo, un ritorno dei talebani a Kabul preoccuperebbe l’India (e perfino dell’Iran) in quanto significherebbe che il Pakistan ha avuto la meglio in Afghanistan.
E’ questa la ragione per cui Washington vorrebbe Islamabad – pur promuovendo un accordo tra Karzai e i talebani – per combattere i talebani nella regione pakistana del Nord Waziristan. Tuttavia, i talebani, prevalentemente di origine pashtun e occupanti la zona di confine tra Afghanistan e Pakistan, assicurerebbero al Pakistan una ‘forza strategica’ all’interno dell’Afghanistan. Da una parte, rappresentano per Islamabad un ulteriore alleato nel frenare l’influenza indiana a Kabul; dall’altra invece, l’esercito pakistano non impiegherebbe mai del tutto le proprie truppe nella zona di confine a nord-ovest, rendendosi così vulnerabile al nemico storico indiano a sud est (in questi giorni i tentativi di trovare un accordo tra Islamabad e Nuova Delhi sono falliti).
C’è poi l’Iran, che, dopo il Pakistan, è il paese più influente in Afghanistan.
Teheran sta espandendo la propria influenza specialmente tra la comunità sciita e le minoranze non pashtun. L’Iran, da un lato, si pone come interlocutore del governo afgano; dall’altro invece non ha esitato ad appoggiare i ‘nemici’ talebani (gli oppositori di Teheran in quanto rappresentano un’espressione dell’Islam salafita sunnita sostenuto dal nemico storico dell’Iran, l’Arabia Saudita) in quanto sarebbero una spina nel fianco degli Stati Uniti.
Tra gli obiettivi di Teheran c’è il rafforzamento del proprio ruolo di mediatore nelle trattative con Washington. Tuttavia, se l’Afghanistan dovesse cadere nella mani dei talebani, Teheran perderebbe la propria influenza nel paese a beneficio del Pakistan. Per questo motivo, Teheran potrebbe schierarsi a fianco dell’India (come fece in occasione del ritiro delle truppe sovietiche nel 1989) per appoggiare così le minoranze non pashtun opposte ai talebani.
Tali osservazioni dimostrano chiaramente come Washington stia conducendo un gioco molto pericoloso. Sperare in un accordo con i talebani che non comporti una vittoria schiacciante per essi e per il Pakistan è alquanto assurdo. Allo stesso tempo però, gli Stati Uniti non sembrano in grado di controllare le numerose influenze e forze d’opposizione che un eventuale cambiamento dello status quo promuoverebbe nel paese.
Lascia un commento