Afghanistan: la guerra infinita
Da MEDARABNEWS
Se un mese fa il decimo anniversario dell’11 settembre era stato ricordato da imponenti celebrazioni accompagnate da una vasta e partecipe copertura mediatica, il compimento del decimo anno dall’inizio della guerra in Afghanistan, venerdì scorso, è invece passato quasi sotto silenzio.
Lo scorso 11 settembre l’America, pur vivendo ormai in una fase completamente diversa dal 2001, con priorità e preoccupazioni totalmente mutate, era stata riportata forzosamente, dal clamore dei mezzi di informazione e dalla retorica di Stato, al clima di dolore e di paura generato dal crollo delle torri gemelle.
E’ stato invece ben inferiore negli Stati Uniti il numero di coloro che, la settimana passata, hanno voluto riflettere sulle conseguenze di quel tragico evento, e sulle implicazioni e i significati di una guerra enormemente costosa e devastante, che a dieci anni dal suo inizio è ben lontana dall’essersi conclusa.
Ma, se un certo dibattito si è comunque registrato sulla carta stampata americana in occasione di questo secondo anniversario, il silenzio è invece stato pressoché totale in Europa – e soprattutto in Italia – sebbene l’informazione del vecchio continente avesse dato in precedenza ampio spazio alle commemorazioni dell’11 settembre, e sebbene i paesi europei continuino ad essere pienamente impegnati nella guerra afghana.
UN TRAGICO BILANCIO PER L’AMERICA…
L’operazione “Enduring Freedom” – inizialmente chiamata “Infinite Justice”, con una scelta ancora più infelice da parte dell’allora presidente americano George W. Bush – non ha portato giustizia né libertà in Afghanistan, ma solo una guerra senza fine, e incalcolabile sofferenza e distruzione.
L’obiettivo dichiarato di quello che è ormai divenuto il conflitto più lungo mai combattuto dagli Stati Uniti era quello di rovesciare il governo dei Talebani e smantellare al-Qaeda, allo stesso tempo mostrando “alla popolazione oppressa dell’Afghanistan… la generosità dell’America”, secondo le parole dello stesso Bush.
Ma a dieci anni dall’inizio dell’invasione militare, sebbene Bin Laden sia stato infine ucciso all’inizio di maggio (in un’operazione delle forze speciali USA che ha avuto il sapore di una vendetta, più che di un atto di giustizia, e che ha lasciato uno strascico di ombre e perplessità), i Talebani sono da tempo tornati prepotentemente alla ribalta, e l’Afghanistan continua ad essere uno Stato fallito.
Più di 2.700 soldati della coalizione occidentale sono morti in Afghanistan (di cui 1.780 americani; sono invece 45 i militari italiani caduti), e il numero annuale delle vittime è cresciuto progressivamente. Per non parlare poi delle vittime afghane, solitamente dimenticate in questo tipo di statistiche: solo fra i civili, oltre 8.000 afghani sono rimasti uccisi negli ultimi quattro anni, con un bilancio che continua ad impennarsi su base annuale.
I costi di questa guerra, sommati a quelli del conflitto iracheno, sono stati spaventosi per l’America: secondo l’Eisenhower Research Project, tenendo conto delle spese a lungo termine, i due conflitti sono destinati a raggiungere un costo di almeno 3.200 miliardi di dollari allo stato attuale. Secondo la stessa ricerca, il costo annuale di queste guerre per il contribuente americano, pari a circa 130 miliardi di dollari, sarebbe sufficiente a creare quasi due milioni di posti di lavoro in America nel settore dell’istruzione, della sanità e dell’edilizia.
Bin Laden è stato ucciso, è vero, ma ha realmente perso?
Se da un lato il suo sogno di un califfato islamico giace ormai in frantumi, e nessuno dei regimi arabi che egli odiava è caduto per mano dell’Islam fondamentalista (piuttosto, tali regimi stanno ora vacillando sotto i colpi di una primavera araba sorta da istanze completamente differenti da quelle avanzate da Bin Laden), dall’altro egli è riuscito, con la complicità dell’amministrazione Bush, a trascinare l’America in una guerra senza fine, su molteplici fronti, che ha prosciugato l’economia e il bilancio statale degli Stati Uniti.
Sempre con la complicità dell’amministrazione Bush (dal cui solco l’attuale amministrazione Obama purtroppo non sembra riuscire ad allontanarsi), Bin Laden ha contribuito a degradare la qualità della vita, dei diritti e delle libertà in America.
Il fattore della paura ha spinto la società americana verso un maggior conservatorismo (una tendenza ulteriormente rafforzata dalle incertezze della crisi economica), quando non addirittura verso una forma di ultranazionalismo che ha ulteriormente favorito un dispiegamento militare USA nel mondo che è al di sopra delle possibilità dello Stato americano.
Questa deriva fa sì che un’amministrazione democratica come quella di Obama persegua politiche quali l’uccisione extragiudiziale di cittadini americani nel mondo (si veda il recente assassinio del presunto leader qaedista Anwar al-Awlaki, nato nel New Mexico da genitori yemeniti) – politiche che sarebbero state duramente criticate negli anni del repubblicano Bush, mentre adesso vengono sbandierate come una vittoria della “democrazia” americana sul terrorismo.
…E PER L’AFGHANISTAN
Nel frattempo anche i successi del nuovo governo afghano appaiono trascurabili. Di fronte ad alcuni lievi miglioramenti nel settore dell’istruzione e della sanità, soprattutto per le donne – miglioramenti che tuttavia restano fragili e molto parziali, e rischiano di essere rapidamente spazzati via – il fallimento maggiore resta quello di non aver fornito sicurezza ai cittadini afghani.
Se il controllo delle forze afghane e dell’ISAF (la coalizione occidentale) è leggermente migliorato nelle regioni meridionali e sudorientali del paese, tradizionali roccaforti talebane, è però aumentata la penetrazione dei Talebani nel nord e nel nordest, e si sono intensificati i loro attacchi nel cuore di Kabul.
Solo quest’anno, oltre 150.000 afghani sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni a causa della violenza, ed altre migliaia sono ora spinte a farlo a seguito della siccità.
Su questo sfondo, il presidente Obama ha annunciato lo scorso giugno che gli Stati Uniti avrebbero ritirato 10.000 soldati dall’Afghanistan entro la fine del 2011, e più o meno altri 23.000 entro la fine dell’estate successiva. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di trasferire la gestione della sicurezza nelle mani delle forze afghane entro il 2014.
Ma sul fatto che queste ultime saranno in grado di assumersi tale responsabilità entro quella data, la maggior parte degli analisti esprime grosse perplessità.
Comunque, come ha messo in chiaro il segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, “la transizione non è una partenza; non ce ne andremo quando gli afghani prenderanno il comando”. Ciò significa che l’impegno della NATO in Afghanistan continuerà. A tempo indeterminato.
Secondo Robert Grenier, ex direttore del Centro antiterrorismo della CIA, Washington starebbe ridimensionando le proprie aspirazioni in Afghanistan, ed attualmente punterebbe a “gestire l’instabilità”.
In altre parole, la maggior parte delle truppe statunitensi si ritirerà, ma gli Stati Uniti manterranno alcune basi in Afghanistan dalle quali gli aerei potranno alzarsi in volo per contrastare eventuali attacchi di Talebani contro le città.
L’obiettivo sarà quello di impedire che i Talebani rovescino il regime di Kabul, e di continuare a tenere sotto tiro nel paese qualsiasi gruppo identificabile come affiliato ad al-Qaeda. Ma ciò sarà realmente possibile?
Molti analisti ritengono che in realtà l’Afghanistan rischi di piombare in una guerra civile analoga a quella che scoppiò all’indomani del ritiro sovietico del 1989, e che il governo Karzai potrebbe crollare così come crollò il regime filosovietico di Najibullah.
Karzai è sempre più solo. Malgrado i suoi tentativi di “dialogare” con i Talebani, l’annuncio del ritiro delle truppe americane a giugno è stato seguito da un’escalation che ha fatto ben comprendere quanto siano scarse le prospettive di una riconciliazione inter-afghana che mantenga al potere l’attuale presidente ed il suo governo anche dopo la partenza del grosso delle truppe USA.
L’attacco all’Intercontinental Hotel a Kabul è stato solo l’assaggio di una delle estati più calde che il governo Karzai e le truppe NATO abbiano mai dovuto affrontare dall’inizio della campagna occidentale in Afghanistan. A luglio è stato ucciso Ahmed Wali Karzai, l’influente fratello del presidente. A settembre i Talebani hanno condotto un assedio di 19 ore alla zona di sicurezza che a Kabul comprende l’ambasciata USA e il quartier generale della NATO. Soltanto una settimana dopo, è stato ucciso Burhanuddin Rabbani, ex presidente dell’Afghanistan e uno dei principali negoziatori di pace.
L’assassinio di Rabbani sembra aver distrutto qualsiasi speranza di un “processo di pace” con i Talebani, ed ha lasciato il governo Karzai alla deriva. Tale assassinio ha anche coinciso con un nuovo picco negativo nei rapporti fra Stati Uniti e Pakistan. Quest’ultimo è accusato dagli americani di sostenere la rete Haqqani, alleata dei Talebani in Afghanistan.
UN NUOVO “KASHMIR” TRA INDIA E PAKISTAN?
Dopo dieci anni di braccio di ferro e di collaborazione coatta nella “guerra al terrorismo”, Islamabad e Washington – i due amici-nemici – sembrano ormai sull’orlo dello scontro aperto. Inoltre, questi anni di guerra hanno letteralmente distrutto le istituzioni statali del Pakistan, e portato il conflitto sul suolo pakistano.
Sebbene il Pakistan abbia ricevuto 20,5 miliardi di dollari in aiuti americani a partire dal 2001, essi sono andati per il 70% all’esercito, a scapito del governo civile. A Islamabad sono i vertici militari a dettare le scelte di politica estera del paese, soprattutto nei confronti dell’India, dell’Afghanistan e degli Stati Uniti, e tali vertici non sono soggetti al controllo del governo.
Le forze armate pakistane hanno utilizzato gli estremisti islamici come strumenti per perseguire i loro obiettivi di politica estera, ma questa tattica si è rivelata un boomerang e ha prodotto un movimento estremista interno – i Talebani pakistani – che si è rivoltato contro lo Stato.
L’ascesa dei Talebani pakistani e la crescente insurrezione separatista nella regione del Baluchistan hanno fatto perdere allo Stato pakistano il controllo sul 10-15 % del proprio territorio. L’ascesa fondamentalista ha prodotto anche un incremento degli attacchi contro le minoranze, come i cristiani e gli sciiti.
I pericoli di anarchia interna, di una guerra civile, o di un golpe da parte dei militanti islamici, stanno diventando concreti per il paese.
Nel frattempo, la politica americana “del bastone e della carota” nei confronti del Pakistan – fatta di minacce frammiste a collusioni con l’establishment pakistano – sta esasperando il vicino e “fraterno nemico” di Islamabad: l’India.
Con intimidazioni e lusinghe, Washington vuole persuadere il Pakistan a muovere guerra alla rete Haqqani, la quale fra l’altro ha colpito più volte gli interessi indiani in Afghanistan (si possono ricordare in particolare i due attacchi all’ambasciata indiana a Kabul). Ma allo stesso tempo gli USA chiedono l’aiuto dei servizi segreti pakistani per negoziare con questo stesso gruppo un possibile ingresso di quest’ultimo nel governo afghano.
Delhi, fra l’altro, è convinta che sia stato il Pakistan ad architettare l’assassinio di Rabbani, il quale, oltre a essere stato presidente dell’Afghanistan, fu uno dei leader dell’Alleanza del Nord, sostenuta dall’India contro i Talebani all’epoca della guerra civile afghana negli anni ’90.
L’India è pertanto inorridita all’idea che Washington collabori con i suoi nemici (il Pakistan e la rete Haqqani) per inserirli nell’attuale struttura di potere a Kabul, la quale al momento è invece molto vicina a Delhi.
E non deve trarre in inganno l’apparente distensione fra India e Pakistan sul fronte dei rapporti commerciali e dei negoziati sul Kashmir. Quest’ultima è certamente un’apertura interessante, ma la risoluzione della questione del Kashmir richiederebbe in ogni caso tempo e perseveranza per colmare il divario tra le posizioni dei due paesi – elementi che però mancano drammaticamente alla luce della rapida evoluzione degli eventi in Afghanistan (a cui bisogna aggiungere il fatto che sia in India che in Pakistan esistono potenti lobby che non vogliono in nessun caso la riconciliazione fra i due paesi).
Il timore che si possa andare verso uno scontro tra India e Pakistan in Afghanistan, invece che verso una definitiva riconciliazione fra i due paesi, sembra essere confermato dalla visita compiuta da Karzai in India all’inizio di ottobre.
Già in passato Karzai ha cercato l’appoggio di Delhi come contrappeso a Islamabad. Inoltre, come già accennato nel caso di Rabbani, i principali alleati politici del presidente afghano in patria sono i gruppi che in passato facevano capo all’Alleanza del Nord appoggiata dall’India durante la guerra civile afghana.
L’irritazione di Delhi nei confronti delle politiche di Washington in Pakistan e Afghanistan, e la visita di Karzai, fanno sospettare che l’India intenda assumere l’iniziativa nella crisi afghano-pakistana.
Il presidente afghano ha stipulato con Delhi un accordo di partnership strategica che comprende un’espansione dei rapporti commerciali fra i due paesi, l’appoggio di Kabul al tentativo indiano di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma soprattutto l’assistenza indiana all’addestramento e all’equipaggiamento delle forze di sicurezza afghane in vista della scadenza del 2014.
Questo accordo significa anche che l’India si candida ad avere un ruolo di primo piano nello sfruttamento delle enormi risorse minerarie recentemente scoperte in Afghanistan, e conferma un fatto già noto, e cioè che Delhi considera i gruppi non pashtun dell’Afghanistan centrosettentrionale come un baluardo contro la possibile conquista del paese da parte dei Talebani.
Un simile accordo strategico, però, non può che aggravare le paure pakistane di un “accerchiamento” indiano attraverso l’Afghanistan, spingendo ulteriormente Islamabad a fare di tutto per ottenere l’insediamento di un governo filo-pakistano a Kabul – se necessario, anche con la violenza.
In altre parole, si sta assistendo a una polarizzazione che per molti versi è una replica di quanto accadde all’indomani del ritiro sovietico, e che portò alla guerra civile degli anni ’90, nella quale l’Alleanza del Nord era sostenuta dall’India (oltre che da Russia e Iran) e i Talebani dal Pakistan (e dall’Arabia Saudita).
L’Afghanistan post-2014 potrebbe dunque divenire una sorta di nuovo “Kashmir” per i due rivali nucleari dell’Asia meridionale, con conseguenze imprevedibili per la regione.
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