Afghanistan: torture nel carcere italiano
Da: L’Espresso Repubblica – di Gianluca Di Feo
Un rapporto dell’Onu accusa: in Afghanistan, nella prigione costruita e finanziata dal governo di Roma, e dove finiscono i presunti talebani catturati dal nostro contingente, ci sono «prove schiaccianti» di trattamenti inumani
Torture sistematiche sui detenuti del penitenziario afghano di Herat: quello finanziato dagli italiani, quello dove finiscono i presunti talebani o criminali catturati dalle nostre truppe.
L’accusa viene da un monumentale dossier delle Nazioni Unite appena pubblicato, che esamina la situazione dei reclusi in tutto l’Afghanistan. Un documento che dovrebbe far riflettere sui compromessi accettati dal nostro governo nella missione che dovrebbe portare ‘la civiltà’ alle popolazioni afghane.
L’inchiesta dell’Onu si concentra sulle persone custodite dai servizi di sicurezza di Kabul, chiamati National directorate of security o in sigla Nds. I quattro reclusi catturati dalla polizia nazionale, Anp, infatti non hanno nulla da denunciare. Invece dei dodici uomini affidati agli agenti speciali, ben nove parlano di maltrattamenti che arrivano fino alla tortura: tra loro c’è anche un ragazzo di sedici anni.
La delegazione dell’Unama – l’organismo Onu che vigila sulla rinascita dell’Afghanistan – scrive che ci sono «prove schiaccianti che gli agenti del Nds sistematicamente torturano i detenuti per ottenere informazioni e, possibilmente, confessioni».
Cosa c’entra l’Italia? Il carcere in questione è stato ristrutturato e potenziato con i nostri soldi. Donazioni del ministero della Difesa sono state usate per costruire una centrale di videosorveglianza e ripulire i locali: il comandante regionale delle carceri è fotografato accanto al generale italiano mentre inaugura le nuove strutture regalate dal nostro paese nel 2010. Ma soprattutto molti di quei detenuti sono stati catturati dalle nostre truppe e poi consegnati alle autorità afghane.
Le testimonianze raccolte dall’Onu sono agghiaccianti. Sembrano uscite dai verbali di Abu Ghraib, la prigione irachena dove gli americani torturavano i reclusi. A Herat durante la notte un agente del Nds preleva il detenuto dalla cella, gli lega le mani dietro la schiena e benda gli occhi, poi lo porta in un’altra stanza nell’edificio dell’intelligence afghana. Lì comincia l’interrogatorio e, a un certo punto, arriva la minaccia: se non ci dai le informazioni ti picchiamo. Allora lo sbattono con la faccia sul pavimento e cominciano a colpirlo sulla pianta dei piedi, con un cavo elettrico. Poi con i piedi sanguinanti lo costringono a camminare sul pietrisco o sul cemento grezzo.
Nel rapporto sono inclusi i resoconti dei detenuti picchiati. «Io avevo gli occhi bendati e i polsi legati, stavo seduto su un tappeto. Loro urlavano: “Parlaci del capo dell’attacco. Io continuavo a rispondergli che non c’entravo, a ripetere il mio alibi. Sembrava che loro sapessero che io non ero coinvolto nell’attacco ma volevano informazioni da me e non mi credevano. Mi dicevano: “Se non ci dici la verità, ti picchiamo”. Allora mi hanno gettato con la faccia sul pavimento, legando le miei ginocchia e sollevandole in modo che i piedi fossero sospesi in aria. Quindi mi hanno colpito due volte sulla schiena con una specie di tubo, poi sono passati a colpire i miei piedi. Non cosa usassero, ma era molto doloroso: penso fosse un cavo elettrico, perché sulla pelle mi sono rimasti tanti buchi lasciati dai fili che spuntavano dalle estremità. Mi facevano domande, poi picchiavano e ricominciavano a chiedere. Io urlavo per il dolore. Allora mi hanno fatto alzare e camminare fino al cortile e mi hanno lasciato in piedi sul cemento grezzo per cinque minuti».
Secondo l’Onu, i pestaggi erano pianificati: un metodo sperimentato già in Iraq per indebolire la volontà e “ammorbidire” i reclusi per ottenere notizie nei successivi interrogativi. Gli ispettori ritengono che fossero “botte preventive”, non scaturite da una specifica negazione. I detenuti credono che le domande non fossero finalizzate a ottenere risposte, quando a insultarli: “abusi verbali”. In genere, i prigionieri venivano picchiati nei primi interrogatori e alla fine molti “crollavano” in altre deposizioni senza bisogno di maltrattamenti.
Quanti di questi erano stati catturati dagli italiani? La sorte delle persone arrestate dai nostri militari finora non è mai stata chiarita al parlamento. Quante sono state dall’inizio della missione? Che fine hanno fatto? Formalmente, ogni nostro reparto consegna immediatamente i presunti talebani o i sospetti criminali nelle mani dei soldati afghani o della polizia nazionale Anp che accompagna sempre le unità tricolori. Ufficialmente quindi non abbiamo mai fatto prigionieri, nonostante esistano immagini di miliziani ammanettati dalla Folgore nel 2009 o rapporti ufficiali di operazioni concluse con la cattura di numerosi sospetti. I penitenziari di Herat – la capitale del distretto a guida italiana – sono sempre stati affidati a una sorta di supervisione delle nostre truppe. L’Italia in particolare ha curato la creazione di una struttura modello per le donne recluse, in modo da facilitarne l’inserimento nel lavoro. Ben diversa la situazione del carcere maschile, dove una Ong canadese ha contato più di 1800 detenuti tra cui molti bambini. In gran parte, accusati di piccoli reati. Mentre per i sospetti di collusioni con la guerriglia – stando al dossier Onu – ci sono le torture.
Adesso le Nazioni Unite hanno chiesto al governo afghano di rimuovere e punire i responsabili degli abusi. E questo dovrebbe diventare un impegno anche della nostra missione, per spazzare via ogni sospetto di interesse verso le informazioni che l’intelligence afghana si procacciava a suon di bastonate.
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