La vendetta afghana
L’Afghanistan è l’ultimo – ma non ultimo – frutto avvelenato che si è lasciato dietro il fallimento del “nuovo secolo americano”: un secolo che, nella visione parossistica di Bush e della destra americana, irresponsabilmente sostenuta dai Blair e dai Berlusconi europei, avrebbe dovuto fare degli Stati Uniti il sovrano del mondo, del dollaro il metro di misura dell’universo, del sistema neoliberista l’unico regime economico e politico consentito, e degli “Stati canaglia” un deserto.
Questa politica ha devastato l’economia mondiale, ha diffuso la povertà perfino tra i ricchi e reso più miserabili i poveri, ha distrutto l’Iraq, ha compromesso le prospettive di pace in Medio Oriente e ha impantanato gli eserciti occidentali in Afghanistan.
Se noi stiamo in Afghanistan a morire, ci stiamo per questo; ma non moriamo solo noi, ma anche sono morti quasi 2000 soldati della coalizione, e 40.000 afghani tra militari e civili, mentre centinaia di reduci americani ed inglesi si sono suicidati, come denuncia un appello lanciato dall’ex vescovo di Caserta mons. Nogaro. Se siamo lì in quel contagio di morte, ci stiamo non perché abbiamo fatto una scelta di valori (mettendo in campo per esempio la Costituzione italiana), ma perché, senza scelta, ci siamo messi al servizio di quell’empio disegno. Poi, quando tornano nelle bare, un vescovo militare dice a quei ragazzi uccisi che erano “profeti del bene comune, decisi a pagare di persona per ciò in cui hanno creduto e per cui hanno vissuto”, e che lo stavano facendo “nella consapevolezza di una strategia chiara e armonica”; ma non è vero, né per la coscienza di ciò che essi stavano facendo (in realtà “lavoravano”), né per la chiarezza della strategia, di cui l’unica cosa chiara è che non si sa come uscirne.
Neanche Obama lo sa; perché è più facile entrare in una guerra che uscirne. Quando ci si entra garriscono i gagliardetti e la stampa incita al rapido massacro; ma quando se ne esce si porta a casa una sconfitta, e la colpa di un’inutile strage.
Finché Obama non sa come uscirne (e ne avrebbe bisogno, per fedeltà alla sua stessa immagine), non lo sappiamo neanche noi, e non saranno certo quei giganti del pensiero che sono i nostri governanti e ministri a indicare la via. La cosa più ingegnosa pensata dal ministro La Russa è di mettere le bombe sugli aerei per impedire che saltino in aria gli automezzi a terra, che sarebbe come bombardare Palermo per impedire che ammazzino Falcone sull’autostrada di Capaci.
La guerra in Afghanistan si ammanta delle sovrastrutture ideologiche e perfino dei conforti religiosi che le Chiese sono solite offrire a tutte le guerre (fino a che non si convertano).
Ma l’Afghanistan è più di una guerra: è una vendetta in forma di guerra, per lo stupro subito dall’America l’11 settembre, e non c’è mai lucidità nella vendetta. Ancora di più, l’Afghanistan è il macigno che il vecchio mondo, imperialista e violento, ha messo di traverso per impedire che si faccia strada un altro mondo di accoglienza reciproca, di corresponsabilità e di pace. È il manufatto con cui l’Occidente libero ha rimpiazzato il muro di Berlino eretto dall’Oriente malvagio, per ottenere gli stessi risultati di un mondo dominato e diviso.
Il ritiro dall’Afghanistan non è perciò solo la fine di una vendetta (che di per sé non avrebbe bisogno di nessun altra motivazione), ma è anche la condizione di un nuovo inizio, la svolta necessaria per rendere pensabile un mondo diverso, e per rendere credibile ogni altra alternativa.
È chiaro ad esempio che Obama non può chiedere ad Israele di ritirarsi dai territori occupati e di dare fiducia ai palestinesi, se non si fida degli afghani e ne presidia il territorio. Coloni gli uni, coloni gli altri; buoni ad alzare muri gli uni, a stabilire barriere gli altri, pronti a demonizzare i propri nemici gli uni, a considerarli tutti terroristi gli altri.
L’Afghanistan è il simbolo di un tempo in cui non si sa più fare la guerra, e non si sa fare la pace, non si sa più dominare, e non si sa cooperare, non si sanno più dire le bugie, ma non si osa ancora dire la verità. Senza chiudere il buco nero dell’Afghanistan, l’America non potrà uscire dall’era di Bush, Obama non potrà governare, la storia resterà rattrappita; e la guerra perpetua, come modello del rapporto tra i potenti ed i deboli, non potrà avere fine: una guerra a bassa intensità, abbastanza bassa da poter essere detta “missione di pace”; almeno, finché si riesca a controllarla.
Raniero La Valle
Articolo della rubrica “Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca
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