Afghanistan: non è un paese per donne
di Stella Pende, Panorama – 13 agosto 2012
Vendute dalle famiglie, lapidate per adulterio, sfigurate con l’acido, fatte saltare in aria per l’impegno politico o civile. Le afghane sono il principale obiettivo dell’integralismo. Ma c’è una nuova generazione che si ribella. E cerca il riscatto. Politico
Guidava la sua Jeep a Mehntar nell’Afghanistan del Nord per portare libri e pennarelli alle bambine di una scuola fra le montagne. Per Hanifa Safi, ministro degli affari femminili nella provincia del Laghman, l’educazione era «l’unico antidoto contro l’ignoranza e la ferocia che torturano le donne afghane». Invece i suoi sogni sono schizzati in mille pezzi assieme alla sua vita. Hanifa è morta con suo marito in un attentato che ha fatto esplodere la sua auto.
Qualche mese fa raccontava di avere già schivato due attentati: «Nel primo hanno cercato di uccidermi offrendomi del tè avvelenato». Non recitava da martire. Anzi, aveva paura. «L’Afghanistan è di certo il luogo più pericoloso per noi donne» aveva detto. «Ma chi, come me, raccoglie il terrore di bambine stuprate e poi si gira dall’altra parte è peggio del carnefice. E allora vivo giorno per giorno, contando i minuti…».
I giorni delle donne che offrono il loro coraggio alla speranza di un Afghanistan libero sono pieni di insidie. Solo il 2010 ha visto 76 donne ammazzate. Una settimana fa nella regione dell’Helmand un padre «assai religioso» ha ucciso a colpi di ascia le sue due figlie adolescenti invocando il delitto d’onore. Le ragazze erano state fuori quattro giorni senza permesso. Niente di incredibile. Anzi. Esecuzioni senza processi, delitti d’onore, morte per stenti e fame. Oggi però è la condanna a morte per peccati politici e sociali quella preferita dai folli adoratori di Allah.
Come per Hanifa che lavorava per il futuro delle nuove generazioni femminili. Le donne afghane, anima e motore della lotta sociale, sono oggi il primo nemico da colpire. «Quando prendono in mano una missione politica o un progetto combattono come leonesse» dice Seema Ghafar, eccellente politica, «ciò disturba parecchio sia l’ambiente governativo, dove gli uomini raccolgono meno risultati, sia, soprattutto, i talebani spaventati dai successi raccolti da deputate, governatrici e militanti dei diritti umani».
«Chi vuole fare assaggiare il suo sangue ai cani randagi faccia come Hanifa» stava scritto sul muro accanto allo scheletro dell’auto della politica uccisa. Ma le femmine afghane non si piegano. Nell’ufficio bunker dell’Hawaca (Humanitarian assistance for women and children of Afghanistan) gli occhi neri della bella Selay Ghaffar lo promettono. Lei, profuga per anni con la famiglia in Pakistan perché perseguitata dai talebani, oggi accoglie frotte di piccole donne a cui il destino ha spezzato l’adolescenza.
«Insegnavo ai bambini di un campo profughi. Poi d’improvviso Aisha, la più piccola, si è suicidata con un sacco di plastica. Suo padre abusava di lei» la sua gola si rompe. «Non ho dormito per giorni. Poi ho deciso: dedicherò la mia vita al dolore delle bambine come Aisha» . La porta si apre. Una ragazzina velata a piedi nudi ci sorride. Selay le sussurra dolcemente di stare tranquilla. Così quel pipistrellino di nome Orzala racconta la sua odissea: «Avevo 13 anni quando mi hanno sposato a un 70enne in cambio di due caproni. Mi hanno messo una coroncina in testa: era quella del mio martirio. Aveva i denti marci e mi faceva paura. Poi un giorno Selay mi ha portato via. Oggi grazie a lei vivo».
Selay Ghaffar racconta che la storia di Orzala si replica in molte famiglie che vendono le figlie come vacche. «Le leggi ci sono, ma non abbiamo i giudici che le applicano. La sorte peggiore è quando le costringono a prostituirsi. Se le piccole si ribellano vengono torturate barbaramente». Così è accaduto a Sara Gull, il caso più orribilmente famoso nel paese. Vado a trovare questa martire al Central Hospital. Ma non riesco a guardarla. Si torce nel letto dell’ospedale nascondendo gli occhi viola per le torture. Le dita delle mani carbonizzate. «Non le hanno risparmiato un centimetro di pelle» mi spiega la dottoressa Kavrat che non la lascia mai. «Vai via, sei un mostro anche tu!» mi dice d’improvviso. Forse perché cerco di parlarle. Scappo.
Ho una sola certezza: dopo anni di guerre l’Afghanistan resta Medioevo puro. L’ultima strage di luglio durante la festa di nozze nel Samangan dove un kamikaze si è fatto scoppiare tra gli invitati di mostra come l’odio non è solo «per gli occidentali». Ma che la lotta è ancora tra i signori della guerra. «Se la soluzione non verrà trovata all’interno di ogni gruppo della società afghana il sangue scorrerà ancora nelle nostre strade». A parlare seduta a una tavola principesca è Fawzia Koofi, la prima donna in Afghanistan vicepresidente del Parlamento. Oggi Fawzia è candidata contro Karzai alle elezioni presidenziali. Anche Fawzia è scampata ad aggressioni terribili. «Qui le donne che combattono vivono come fiere in gabbia» dice.
Questa gladiatrice dagli occhi turchesi è conosciuta nel mondo grazie a un libro, Lettere a mia figlia, che racconta una vita tempestata da lutti. Suo padre, celebre politico, è stato ammazzato, e poi suo marito e infine suo fratello. «Ho cominciato a lottare da neonata quando mia madre, che mi rifiutava, mi ha lasciato al sole un giorno intero per farmi morire… Non sono morta. Oggi come tante donne afghane guardo la morte in faccia ogni giorno». Nel libro Fawzia scrive così: «Care figlie, se non tornassi più siate fiere di vostra madre. Ha dato la vita affinché il vostro futuro fosse quello di donne felici e giuste».
L’ultima tappa fra le donne afghane combattenti è un luogo che non si dimentica: la sede di Afceco (Afghan child education and caring organization), dove bambini una volta ingoiati dalla povertà della strada oggi ricevono scuola, amore e perfino un’educazione musicale raffinata. «Ho suonato il violino alla Scala» mi dice una brunetta. Andeisha Farid, la santa moderna che opera tali miracoli, possiede la perfezione di un’attrice, come se la bellezza fosse il giusto premio al cuore e all’eroismo. Anche lei è un’ex profuga. Anche lei è diventata madre pugnace di ogni figlio di strada: «Abbiamo tre istituti con circa 600 bambini. Sono loro il futuro del nostro paese, dunque ci impegniamo affinché la loro cultura sia completa». Qualcuno ha detto che da piccola anche Andeisha è stata rapita dai talebani. Che suo fratello è stato spellato vivo. Che non ha più parlato per mesi. Ma non c’è traccia di quell’orror e nel suo sorriso puro. Mi accompagna alla porta dicendo: «Ogni storia terribile può fiorire. Mi creda». Le credo.
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