Afghanistan. Per le donne un passo avanti e tre indietro
DA: OsservatorioIraq Medioriente e Nord Africa
“Malala Yousaftzai è stata colpita alla testa da un proiettile sparato dai talebani pakistani; la sua colpa è aver denunciato i crimini contro le donne”.
Parola di Malalai Joya, l’attivista più famosa di tutto l’Afghanistan, che non ha mai smesso di denunciare quanto poco sia cambiato il suo paese negli ultimi 10 anni.
di Anna Toro
Nel suo ultimo messaggio affidato al web, Malalai Joya si riferisce alla giovanissima blogger quattordicenne che il 9 ottobre scorso è stata vittima di un brutale attacco da parte di un talebano.
La bambina per fortuna è viva, ma il suo è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di violenze contro le donne che continuano a perpetrarsi lungo i confini del Pakistan e soprattutto in Afghanistan.
Perché oggi, a 10 anni dalla caduta dei talebani e dopo quasi 50 miliardi di dollari di aiuti internazionali, la libertà delle donne afghane è ancora fortemente minacciata, e per loro il paese rimane uno dei posti peggiori al mondo in cui nascere, crescere e vivere.
Non solo: la situazione starebbe addirittura precipitando di anno in anno, alla faccia dei miglioramenti e traguardi sbandierati dai media occidentali e dai governi, specie alla vigilia del ritiro delle truppe internazionali nel 2014.
“Per i media mainstream sembra quasi sottinteso che, a fronte di 12 anni di intervento, siano state raggiunte, quantomeno in linea di massima, le condizioni di maturità politico-istituzionale necessarie per lasciare che il paese prosegua autonomamente il percorso di costruzione di una democrazia solida e foriera di una pace duratura” ha affermato Simona Cataldi del Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) in occasione di un recente incontro sul tema tenutosi alla Casa Internazionale delle Donne a Roma.
Certo, le leggi a protezione delle donne sono state fatte. “Peccato che non esista un sistema in grado di applicarle”, aggiunge la Cataldi.
Malalai Joya ne spiega bene la ragione, ovvero il fatto che nel Parlamento afghano siedano quegli stessi uomini che queste leggi le trasgrediscono tutti i giorni e che quindi non hanno nessun interesse ad applicarle.
“Come posso vivere in un paese dove gli assassini rimangono impuniti e dove non c’è giustizia?”, si è domandata l’attivista durante un colloquio con la giornalista Marisa Paolucci, anch’essa presente all’incontro romano.
“Un Parlamento di assassini”
Nata nel 1978, Malalai Joya è diventata famosa nel 2003, a soli 25 anni, per il suo infuocato discorso pubblico come delegata alla Loja Jirga, l’assemblea del popolo, che in quel periodo doveva redigere la Carta Costituzionale.
In quell’occasione, Malalai non mancò di scagliarsi contro i vari ‘criminali di guerra’ presenti all’assemblea e ancora seduti sugli scranni del potere.
“Sono tra i responsabili della situazione dell’Afghanistan. Opprimono le donne e hanno rovinato il nostro paese. Dovrebbero essere processati” aveva gridato, prima di essere zittita e mandata via dalla sala.
Nel 2005 Malalai è stata eletta in Parlamento (Wolesi Jirga), col secondo maggior numero di voti nella sua provincia, Farah, una delle più povere dell’Afghanistan.
La sua avventura parlamentare, però, è durata solo fino al 2007, quando è stata cacciata per non aver mai smesso di criticare coloro che, secondo lei, hanno portato il paese alla rovina: i talebani, certo, ma anche il governo corrotto di Karzai, supportato dalla Nato e dagli eserciti internazionali ‘invasori’.
Soprattutto, le ire di Malalai si rivolgono contro i signori della guerra, personaggi che in passato si sono macchiati di “crimini orribili” e che oggi siedono tranquillamente sulle poltrone del Parlamento, stabilendo le sorti del Paese ed evitando in tutti i modi di farlo progredire.
Com’è stato possibile? Grazie al ‘regime di impunità’ che regna in tutto l’Afghanistan, e soprattutto grazie alla cosiddetta Legge sulla Riconciliazione nazionale approvata nel 2007, che sarebbe in realtà “un’amnistia generale per i delitti compiuti negli ultimi 30 anni in Afghanistan”.
Sebbene la sua attività in Parlamento sia stata troncata, l’attivismo di Malalai non si è mai fermato.
E questo nonostante dal 2003 sia sfuggita a ben 6 attentati, viva sotto scorta, dorma ogni sera in un luogo diverso, e sia costretta a indossare il burqa per non farsi riconoscere.
Ironia della sorte: il tanto odiato simbolo dell’oppressione femminile tramutato in un salva-vita indispensabile.
Donne e diritti, un problema politico e non religioso
Marisa Paolucci, che a Malalai (e non solo) ha dedicato un bel libro dal titolo “Tre donne una sfida”, racconta come alla fine, secondo l’attivista afghana, l’Islam non c’entri nulla con questa situazione.
“Per Malalai la religione è semplicemente uno strumento utilizzato dagli uomini del potere per giustificare quello che fanno” continua la giornalista.
“La chiave di lettura, infatti, è una sola parola: alibi. Le donne soffrono, muoiono per un semplice alibi che viene chiamato Islam e che viene usato dagli uomini per gestire il potere in maniera strumentale ai loro interessi”.
Quello delle donne, infatti, è in realtà un problema tutto politico. “Per capire il livello di qualunque democrazia bisogna vedere come vengono trattate” spiega ancora Paolucci”.
“Perché in uno stesso paese in un dato periodo alle bambine è permesso studiare, e in un altro viene loro lanciato l’acido sulla faccia? Oppure, perché oggi in un paese musulmano le donne non possono guidare, in un altro paese musulmano possono farlo? Dopotutto il Corano è sempre lo stesso. La spiegazione è politica, sono gli interessi di chi è al potere”.
E infatti, alle elezioni successive Malalai non si è più candidata.
“Diceva che non aveva senso, che volevano ucciderla. Ogni volta che parlava le spegnevano il microfono, e non sapeva se sarebbe mai riuscita a portare fino in fondo la campagna elettorale” racconta ancora Marisa Paolucci, che rimarca come quella di Malalai sia in realtà la storia di tutte le donne afghane che vedono ancora lontana la via d’uscita da una vita fatta di sottomissione e violenza.
La lunga e difficile via della nonviolenza
Secondo i dati raccolti da Simona Cataldi, ancora oggi “più dei due terzi delle donne che si trovano nelle carceri afghane sono detenute per ‘crimini morali’ come il reato di zina (ovvero i rapporti sessuali pre o extra matrimoniali), e la fuga da casa, che viene arbitrariamente associata all’intenzione di commettere adulterio”.
Sebbene nell’agosto del 2009 il governo afghano abbia promulgato la legge sull’eliminazione delle violenze nei confronti delle donne, “stando a quanto denunciato dalle principali agenzie delle Nazioni Unite il 60% dei matrimoni in Afghanistan sono forzati e di questi il 57% riguarda donne che hanno meno di 16 anni”.
“Ancora dalle statistiche – termina Cataldi – risulta che l’87% delle donne dichiara di aver subito una violenza e la metà sono sessuali”.
Con il coinvolgimento dei talebani nei negoziati di pace col governo, si teme che la situazione non possa che peggiorare.
Eppure, donne come Malalai Joya continuano a lottare, diventando un esempio per le altre. Basti pensare che la piccola Malala Yousaftzai, prima del suo attentato, aveva definito l’ex parlamentare afghana una delle sue eroine.
“Malalai Joya è la figura più famosa ma non è la sola” afferma Patrizia Fiocchetti del Cisda.
“Sono donne – continua – che si servono della parola e non delle armi e della violenza. Fanno così paura? Per quale motivo in uno pseudo processo democratico come quello afghano, a queste persone si impedisce in tutti i modi di essere attive?”.
5 novembre 2012
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