AFGHANISTAN: RAPPORTO ONU, SONO I CIVILI A PAGARE IL CONTO DELLA GUERRA
di Serena Grassia, ATLAS, 8 feb 2012
A dieci anni dal primo attacco Nato in Afghanistan contro i Talebani, i civili continuano a pagare il conto della guerra.
L’ultimo rapporto della Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) denuncia numeri scoraggianti: 3012 vittime nel 2011, 231 in più rispetto al 2010 e 599 in più rispetto al 2009.
Il 77% di questo sangue sgorga dagli attacchi improvvisi organizzati dalle forze antigovernative, che nel corso del 2011 hanno cambiato la propria strategia di attacco.
Una volta i kamikaze e le autobombe la facevano da padroni, oggi, pur continuando ad agire indisturbati tra cortei e funerali, assemblee e mercati, hanno ceduto il primato agli assalti IED (Improvised Explosive Device), alle bombe improvvise e improvvisate che, disseminate qua e là in ogni angolo del paese, tra i campi d’avena e i rivoli d’acqua, si sono dimostrate più efficaci nella loro missione di morte. Gli insurgents le nascondono ovunque e le comandano a distanza, facendo saltare in aria chi si trova nei paraggi, senza distinguere tra un bambino e un contadino, un militare e una donna.
Per questo motivo sono armi illegali, i Talebani stessi le vietarono nel 1998 perché contrarie all’uomo e all’Islam, eppure oggi le utilizzano sistematicamente per affermare il proprio potere.
“L’esplosione ha sbattuto i miei clienti e me fuori dal taxi. Mi sono risvegliato ferito alla testa e sanguinante, ma consapevole. La mia auto è distrutta, ed era l’unica mia fonte di sostentamento. Ho una moglie e otto figli piccoli da sfamare. Come faccio adesso? Vorrei dire agl’insorti di smetterla di ammazzare vittime innocenti, è contrario all’Islam.” E’ solo una delle tante testimonianze di vittime di attacchi IED raccolte da UNAMA.
L’altro 23% delle morti civili, invece, per chiudere il cerchio, avviene per mano delle forze governative o internazionali, di solito attraverso attacchi aerei che paradossalmente, pur essendo diminuiti rispetto al 2010, hanno spezzato più vite nel 2011.
E cambia anche la geografia della morte: una volta infuocavano le province del sud, culla del movimento talebano, oggi la battaglia ideologica si è spostata verso sud-est, est, nord. In poche parole: in queste zone incalza la guerriglia, a differenza che nel resto del paese, e i morti e feriti che porta con sé incidono sulla media nazionale.
Kandahar ed Helmand rimangono le province più duramente colpite, ma il fuoco si è spostato verso Khost, Paktika e Ghazni, e ancora a est, verso Nangarhar e Kunar.
Se attacchi IED o attentati suicidi colpiscono all’impazzata, con l’unico scopo di uccidere, gli omicidi mirati, quelli contro personaggi influenti, sono aumentati del 3% rispetto al 2010, per un totale di 495 morti nel 2011.
Governatori provinciali e distrettuali, funzionari di governo, membri dei consigli provinciali e di pace, esponenti della comunità locale e vecchi del villaggio, sono gli obiettivi più a rischio.
Era il 20 Settembre 2011 quando un attentatore suicida ammazzò Buranhuddin Rabbani, Capo del Consiglio di Pace, e altre sei persone in un’esplosione avvenuta proprio all’interno della residenza della vittima, a Kabul, durante una riunione con due capi talebani alla ricerca di un accordo di pace.
Ma oggi i Talibans intimidiscono anche con lettere minatorie, blocchi stradali illegali, interruzione dei collegamenti telefonici, minacce che a volte costringono le vittime a lasciare il lavoro o a emigrare.
A ottobre 2011 gli estremisti minacciarono gli Afghani di Kabul di non partecipare alla Loya Jirga, la grande assemblea del popolo, perché li avrebbero uccisi, e ancora nella provincia di Kunar, attraverso una stazione radio, elencano a gran voce i nomi delle future probabili vittime, paralizzando la vita della gente col terrore.
Sono stati proprio i Talebani nel corso del 2011 a fare più volte appello alla protezione dei civili senza, di fatto, contribuire ad alcun miglioramento.
La Layha, il loro Codice di Condotta, enumera 57 dichiarazioni, come comandamenti, molte delle quali riguardano proprio la sicurezza dei civili e la concentrazione della guerra contro gli obiettivi militari.
Anzi, in una dichiarazione di agosto 2011, in occasione dell’Eid al-Fitr, la fine del Ramadan, la Layha ribadiva che “la protezione della vita e della proprietà è uno dei principali obiettivi del jihad.”
Ma le cronache raccontano il contrario anche perché alcuni di quelli che per il diritto internazionale umanitario sono “civili”, per i Talibans sono “burattini” del governo, bersagli legittimi da eliminare.
Tornando ai numeri, la medaglia del lutto va alla seconda metà del 2011, quando tra luglio e settembre l’Afghanistan ha perso 166 donne e 306 bambini, l’80% in più rispetto al 2010. Il 14% di questi sono deceduti per mano delle forze governative, con attacchi aerei.
Non c’è solo lo spettro della morte a ingrigire la vita tra le montagne del deserto afghano. L’insicurezza e la brutalità del conflitto armato irrompe nelle case e nella vita della gente, facendo lievitare il numero degli sfollati: 185,632 nel 2011, un incremento del 45% rispetto al 2010. Senza considerare la paura con cui si vive quotidianamente.
Migliaia di persone hanno perso lavoro e beni personali, la casa o la possibilità di coltivare il proprio campo; non hanno avuto accesso alla giustizia né alla sanità; non può muoversi liberamente per il paese per paura degli attentati IED o di ritorsioni, migliaia di bambini non vanno a scuola e l’istruzione, in molte province, resta ancora un miraggio.
A poco è servita la creazione dell’ALP, la Polizia Locale Afghana, reclutata e addestrata per controllare le campagne più lontane, quelle che sfuggono agli occhi e alle armi della Polizia Nazionale e dell’Esercito, visto che UNAMA ha denunciato costanti violazioni dei diritti umani, soprattutto a Paktika e Kunduz, dove l’ALP impone tasse illegali, violenta le donne, intimidisce chi prova a ribellarsi, arrivando a reclutare persino i bambini.
E questi ultimi, purtroppo, chiudono la ricerca delle Nazioni Unite in Afghanistan.
Sono i più vulnerabili della società, e i più esposti, soprattutto quelli tra gli 8 e i 15 anni. Rischiano di essere uccisi o feriti mentre giocano all’ aria aperta, rincorrono i cani, o aiutano a raccogliere la legna per il fuoco. Nel 2011, 26 bambini uccisi negli attentati avevano meno di sei anni, e tre di questi erano appena nati.
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