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CARTOLINE DA KABUL. Sulla lavagna afghana un vecchio copione

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il manifesto, di Giuliano Battiston, 19 settembre 2012
 
In due libri recenti drammi e conflitti del paese asiatico. «In battaglia quando l’uva è matura» di Valerio Pellizzari e «Shùlai» di Enrico Piovesana In Afghanistan, tre giorni fa un bombardamento delle forze internazionali Isaf-Nato ha causato nove vittime nella provincia di Laghman, nel distretto di Alingar: tutte donne, tutte giovani tra i 18 e i 25 anni, tutte innocenti. Per alcuni giornalisti quelle ragazze vanno registrate nell’inevitabile computo della guerra, inserite nella contabilità generale come un corollario necessario, un deficit momentaneo e fastidioso dell’efficienza militare. Precisa ma non perfetta. Per altri non sono numeri, ma persone.
 
Colbacchi e propaganda
Valerio Pellizzari, giornalista e scrittore, già inviato speciale per «Il Messaggero» ed editorialista per «La Stampa», per molti anni ha inseguito le storie degli afghani che la guerra l’hanno combattuta, ma soprattutto subita e sofferta. La storia che racconta nel suo ultimo libro, In battaglia, quando l’uva è matura.

Quarant’anni di Afghanistan (Laterza, pp. 244, euro 18) è infatti una storia dalla parte degli afghani, e inizia trentatré anni fa, quando «centomila soldati
sovietici occupavano l’Afghanistan».
 
Era pieno inverno, quei soldati che indossavano colbacchi e pesanti giacconi erano arrivati a Kabul «per difendere la rivoluzione comunista locale e combattere l’integralismo islamico». Così raccontava la loro propaganda, e così ricorda Pellizzari. Dopo alcuni anni, quella propaganda si è sgretolata. A diradare la nebbia dei bollettini ufficiali era stato il «potente circuito delle notizie che attraversa il bazar, la moschea, la stazione degli autobus, le locande che vendono il tè, che si dilata nei grandi raduni familiari in occasione delle nascite, dei matrimoni, dei funerali…».
 
Nel 2001, gli americani e i loro alleati occidentali sono arrivati in Afghanistan «per sconfiggere il terrorismo che si era trincerato in quelle vallate con Bin Laden, cancellare l’oscurantismo dei talebani e importare la democrazia. Così hanno ripetuto per anni la radio e ‘La voce della libertà’, il giornale delle truppe straniere», e così ricorda Pellizzari. Per
il quale il copione della politica era destinato a ripetersi, in un paese considerato «come una lavagna a disposizione
dell’ultimo forestiero arrivato»: «la vittoria degli stranieri non arriva mai, e gli slogan di chi governa a Kabul
rimangono gli stessi».
 
Una strada in salita
Anche la nebbia della nuova propaganda si è sgretolata. Il «fossato dell’incomprensione tra la gente e le forze straniere è stato scavato», nota Pellizzari. Troppo evidente l’incongruenza tra le dichiarazioni ufficiali e i risultati sul campo.
Troppo eccessiva la distanza tra mezzi e fini. Troppi gli errori commessi. Pellizzari li elenca in modo scrupoloso: la fretta di «importare la democrazia con il sostegno dell’Onu, di celebrare il rito delle dita bagnate nell’inchiostro per dire sì o no»; l’impiego dall’estate del 2006 degli elicotteri corazzati e dei bombardieri («da allora tutti i numeri negativi che riguardano la guerra – gli uomini impiegati, i soldati uccidi, i civili uccisi, gli attacchi con le mine, i
kamikaze – sono cresciuti in modo costante»); la sordità alle richieste della popolazione locale; l’ottusa insistenza sulla militare, «una strada senza indicazioni, in salita, che si perde nella nebbia»; la sovrapposizione tra guerra privata e guerra degli eserciti regolari; la vita di un afghano valutata al prezzo di due pecore.
 
L’analisi di Pellizzari è dettagliata e rigorosa, perlopiù condivisibile. Ma risulta convincente e appassionante per due motivi. Perché viene spiegata alla luce del passato, dentro una cornice storica di ampio respiro, che restituisce densità temporale e di significato alle vicende attuali. E soprattutto perché si snoda lungo un doppio binario. C’è il binario della grande storia, degli avvenimenti e dei personaggi che rimarranno nei libri scolastici, di Gandamak e del medico militare William Brydon, del re modernizzatore Amanullah Khan e del passaggio dalla monarchia alla repubblica, di Zaher Shah e di Babrak Karmal. Ma c’è anche, abilmente intrecciato al primo, il binario delle storie individuali quotidiane, di chi ha incarnato e reso possibile la grande storia. Quella dei sette guardiani del tesoro di Tillia Tepe, del mujaheddin Gul Mohammed Zahid o del monaco-guerriero Farhad, per esempio. O quella di un giornalista occidentale, entrato per la prima volta in Afghanistan nel 1974, quando il paese «rappresentava un angolo di Oriente tagliato fuori dai grandi disegni strategici e dalle grandi rotte commerciali». E rimasto a osservare le terre dell’Hindu Kush fino a oggi, mentre «si chiude lentamente il sipario su un’altra storica sconfitta, con un’uscita di scena quasi furtiva». Lo fa con sguardo onesto, ma a tratti troppo nostalgico verso un paese idilliaco che forse non c’è mai stato.
 
Scioperi e repressioni
Senza nostalgia è invece lo sguardo rivolto dal giornalista Enrico Piovesana a un fenomeno «rimasto completamente ignorato dalla letteratura storiografica, saggistica e giornalistica occidentale»: la storia del movimento maoista afghano Shùlai, «promotore di rivolte studentesche, contadine e operaie che hanno caratterizzato il ‘Sessantotto afgano’ e i primi anni ’70, organizzatore di insurrezioni contro il regime filosovietico ‘khalqista’ alla fine degli anni ’70, protagonista di un’autonoma lotta armata partigiana contro l’invasore sovietico e le milizie fondamentaliste finanziate dagli Stati Uniti».
 
Così spiega Piovesana nell’introduzione a Shùlai. Il movimento maoista afgano raccontato dai suoi militanti, 1965-2011 (Città del Sole, pp. 104, euro 14, con una prefazione fin troppo prevedibile di Malalai Joya, foto di Naoki Tomasini e una interessante postfazione di Cristiana Cella, che nell’estate del 1980 ha incontrato i partigiani maoisti a Kabul).
Il libro è un lungo reportage, frutto di una serie di interviste realizzate in Afghanistan nell’estate del 2011 con alcuni membri clandestini di Alo, l’Organizzazione per la Liberazione dell’Afghanistan, fondata nel 1973, una delle molte sigle che a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso hanno animato discussioni, dibattiti e contese all’interno del variegato movimento maoista afghano. Anche nel reportage di Piovesana la grande storia, quella del ’68 afghano, dei riflessi sui movimenti locali dello scontro «ideologico internazionale tra il comunismo cinese e il revisionismo sovietico», la storia delle manifestazioni studentesche represse nel sangue, degli scioperi nelle fabbriche e delle rivolte contadine emerge attraverso storie individuali fortemente rappresentative.

C’è Bahram, 55 anni, ex combattente partigiano: la sua militanza ha avuto inizio alla fine degli anni 60, «quando studiavo ingegneria al Politecnico di Kabul», racconta. Il fratello faceva parte dell’Organizzazione della Gioventù Progressista (Sazmàn-e-Jawanàn-e Mutarraqì, PYO la sigla in inglese), il primo movimento rivoluzionario maoista, fondato da Akram Yari, intellettuale originario della provincia di Ghazni nel 1966 (non nel 1965 come riporta Piovesana), nove mesi dopo la costituzione del riformista e filosovietico Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (Hezb-e-Dimukratìk-e Khalq-e
Afghanistan, Pdpa in inglese), che invece propugnava «una pacifica transizione al socialismo» e che veniva giudicato un partito «revisionista» e «opportunista», viziato da «imperialismo sociale» dai membri del Pyo.
 
Gli anni non sono casuali: nel 1964 la nuova costituzione aveva trasformato l’Afghanistan in una monarchia costituzionale, garantendo perlomeno formalmente il diritto di associazione politica e la libertà di stampa, i dieci anni successivi sarebbero passati alla storia come «il decennio della democrazia», la relativa libertà politica di quel periodo aveva riattivato quei circoli politici, culturali e riformisti avviati nei tardi anni Quaranta e Cinquanta.

 
Quando il primo ministro Shah Mahmud aveva sostituito il fratello Mohammad Hashem Khan, molto meno incline a concedere libertà al popolo afghano. Shah Mahmud nel 1949 consente elezioni parlamentari piuttosto libere, i circoli intellettuali prendono parte alla campagna elettorale.
Tra la metà degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta si formano gruppi di studio noti come mahfel, incubatori di iniziative politiche e sociali e di idee innovative.

Alcune di queste sono rivoluzionarie. Vengono dall’estero. La letteratura marxista viene introdotta attraverso il Pakistan (protagonista il partito maoista dei lavoratori e dei contadini, Mazdoor Kisan Party), l’India e soprattutto l’Iran (attraverso l’Hezb-e-Tudeh, il partito comunista iraniano e le sue ramificazioni). A guidare i circoli intellettuali sono due famiglie in particolare, racconta il ricercatore Niamatullah Ibrahimi in Ideology without Leadership. The Rise and Decline of Maoism in Afghanistan, un report dell’Afghanistan Analysts Network di Kabul che integra, con una dettagliata ricostruzione storiografica, il reportage di Piovesana, «lontano dalle pretese scientifiche di un saggio storico», come scrive lo stesso autore.
 
C’è la famiglia Mahmudi, tra cui si distingue Abdur Rahman Mahmudi, intellettuale e leader del movimento costituzionale e riformista degli anni Quaranta e Cinquanta, tra i primi a laurearsi in medicina all’università di Kabul e a combinare pratica medica e attivismo sociale, fondatore nel 1949 del giornale Neda-ye Khalq («La voce del popolo», bandito già nel 1951), arrestato nel 1952, vittima della repressione del regime di Daud Khan (1953-1963), morto nel 1961, due mesi dopo essere stato rilasciato. I suoi eredi avrebbero costituito l’avanguardia del movimento maoista afghano insieme ai membri della famiglia Yari. Uno dei nipoti di Mahmudi, Rahim, sarebbe stato il redattore capo della rivista Shula-e-Jawed («Fiamma eterna», da cui il termine Shùlai), pubblicata dall’aprile al luglio del 1968, prima che il regime repubblicano di Daud Khan ne ordinasse la chiusura.
 
Attività clandestine
Quella rivista sarebbe finita nelle mani di uno dei protagonisti del reportage di Piovesana, Bahram, la cui storia esemplifica le divisioni dei maoisti: negli anni 70 infatti, quando il Pyo è di fatto sciolto a causa dei dissidi interni, Bahram entra a far parte del Gruppo Rivoluzionario dei Popoli dell’Afghanistan (Grooh-e- Inqelabì Khalqhay-e Afghanistan, RGPA, la futura Alo, Sazmàn-e-Rihay-e- Afghanistan), fondato nel 1973 da un medico originario di Kandahar, di famiglia aristocratica, Faiz Ahmad, che guidava la fronda degli enteqadeyun, i contestatori critici, e che nel 1972 aveva pubblicato un documento durissimo, «Rigettare l’opportunismo e puntare alla Rivoluzione Rossa».
 
Bahram svolge attività politica clandestina nei villaggi di campagna, «nelle valli a cavallo tra la provincia di Nangarhar e il Nuristan», il suo gruppo viene scoperto dalla polizia, sei dei suoi fratelli vengono giustiziati. Lui continua a combattere, prende parte all’insurrezione del 5 agosto 1979 per la conquista dell’antica fortezza di Bala Hissar, a Kabul.
Il risultato è disastroso: «molti vennero uccisi e tanti altri furono imprigionati», racconta «Nasim», 62 anni, una pluridecennale esperienza di insegnante clandestino di marxismo, che introduce Piovesana alla storia del movimento maoista.
 
Nasim ricorda il debutto pubblico del Pyo, il 25 ottobre 1965, quando «decine di studenti vennero uccisi dall’esercito che aprì il fuoco contro una dimostrazione pacifica davanti al parlamento di Kabul»; ricorda la crescita del movimento, la repressione, gli anni di clandestinità, le spaccature, la nascita del movimento rivoluzionario autonomo Akhgar («scintilla» in dari), che «rivendicava la difesa dell’ortodossia marxista-leninista criticando la deriva ideologica della Cina dopo la morte di Mao e guardando invece al pensiero del leader stalinista albanese, Enver Hoxha»; e poi ancora la nascita di una serie di gruppi Shùlai minori sulla base di sottili distinzioni ideologiche e strategiche: Surkha, l’Organizzazione per la Liberazione dei Popoli dell’Afghanistan fondata dai fratelli Yarì; Paikar, l’Organizzazione per la Lotta di Liberazione dell’Afghanistan; Sawo, l’Organizzazione dei veri Patrioti. Gruppi divisi e destinati dopo pochi anni a confluire in una «nuova organizzazione rivoluzionaria unitaria: Sama», l’Organizzazione per l’Indipendenza del Popolo dell’Afghanistan.
 
Tra due fuochi
Unirsi era una questione di sopravvivenza: con il colpo di stato del 27 aprile 1978 al potere arriva il partito Khalq, che inaugura una «spietata repressione contro tutte le opposizioni anti-sovietiche». I gruppi maoisti sono stretti tra due fuochi: da una parte il regime e i servizi segreti del Khad, la sezione afghana del Kgb, dall’altra i mujaheddin anti-sovietici. «Ci dovevamo guardare le spalle anche dai mujaheddin fondamentalisti», ricorda per esempio Nemat, 50 anni, originario di Herat, dai «tagichi di Rabbani e Massud, dai pashtun di Gulbuddin Hekmatyar, dagli hazara di Khalili, dagli
uzbechi di Dostum».
 
Tra quei due fuochi, i movimenti maoisti sarebbero rimasti schiacciati. La scomparsa del maoismo, «uno dei più importanti e dinamici movimenti politico-ideologici afghani», la perdita di consenso tra la popolazione, nota Niamatullah Ibrahimi, non va attribuita soltanto a fattori endogeni. Non c’era soltanto la difficoltà di trovare un equilibrio tra pragmatismo politico e ideali rivoluzionari, di canalizzare in modo produttivo «le infinite battaglie ideologiche interne», di trovare rimedi alla «confusione organizzativa» e alla mancanza di leadership: «nella battaglia tra gli islamisti e la sinistra pro-sovietica che ha dominato la politica afghana negli anni Settanta e Ottanta – scrive Ibrahimi – i maoisti afghani si sono uniti alla resistenza, ma sono rimasti schiacciati tra forze politiche e militari più forti e dotate di maggiori risorse».
 
Il partito filosovietico riceveva aiuti e armi dall’Unione sovietica, i mujaheddin dai paesi occidentali e da quelli «islamici». In una situazione simile, «dove il sostegno esterno divenne un fattore decisivo per il successo e la sopravvivenza, i maoisti erano senza risorse, e la Cina, che sembrava essere l’alleato più verosimile, decise di aiutare i mujaheddin». Dimenticandosi dei maoisti. Oggi quei mujaheddin sono ancora al potere: «è una vergogna che questi stessi criminali, che hanno distrutto il nostro paese, oggi siano al potere con il sostegno dell’Occidente», sostiene Nemat, che nelle province di Farah, molti anni fa, era addetto all’addestramento militare dei combattenti maoisti.

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