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Il bavaglio ai giornalisti afgani

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Giuliana Sgrena, Globalist Syndication, 18 aprile 2012

200 giornali, 44 stazioni televisive e 141 radio non hanno determinato alcun reale progresso nella libertà di espressione in Afghanistan

L’Afghanistan sta rapidamente diventando il paese con il più alto numero di giornalisti uccisi, sia afgani sia internazionali. Solo negli ultimi dieci anni, sedici giornalisti sono stati uccisi per il loro lavoro e a tutt’oggi nessuno è mai stato incriminato per questi assassinii.

Una impunità di fatto per i crimini contro i giornalisti, davanti alla quale il silenzio del presidente afgano Hamid Karzai è motivo di seria preoccupazione in coloro che tengono alla libertà di espressione e di stampa.

Dopo la caduta dei Talebani e l’arrivo delle truppe straniere nel 2001, l’Afghanistan ha sperimentato un boom di nuovi media che ha portato alla rapida proliferazione di case editrici ed emittenti radio-TV. Il paese ospita attualmente 200 pubblicazioni periodiche, 44 stazioni televisive (delle quali 25 sono a Kabul), circa 141 radio e otto agenzie di stampa, e ciascuno di questi settori è in continua e rapida crescita.

Purtroppo questo aumento di media ha comportato ben poco progresso nella libertà di stampa nel paese, poiché la maggior parte dei media sono legati al governo, a signori della guerra, alle forze occupanti, o a potenti e ricchissimi uomini, nessuno dei quali permette ai giornalisti di portare avanti il proprio lavoro onestamente.

Se si aggiunge a questo la censura imposta dai Talebani a tutti i media, che cancella tra l’altro tutte le immagini di nudità che appaiono nelle soapopera, si vede che il panorama della stampa in Afghanistan assomiglia fortemente a un campo di battaglia nel quale i giornalisti devono combattere ogni giorno con il sangue per testimoniare la verità.

La censura è largamente praticata

Nazir Fayaz, un giornalista di 34 anni che ha lavorato per anni a Ariana TV, è stato contretto a licenziarsi tre mesi fa per le pressioni dell’ambasciatore iraniano.

Nel corso di un’intervista, il diplomatico iraniano aveva accusato il popolo afgano di “accettare l’occupazione straniera”, e Fayaz aveva apertamente rigettato questa affermazione. Poiché la sua secca replica era stata trasmessa dalla TV a diffusione nazionale, Fayaz era stato messo in carcere per due giorni e poi obbligato a dimettersi dalle autorità sia afgane sia iraniane.

 

Oggi Fayaz riceve in continuazione telefonate di minaccia, non solo dall’ambasciata iraliana, ma anche “dal governo afgano, da signori della guerra, da trafficanti di droga, e da Talebani. E’ molto rischioso fare il giornalista in Afghanistan” dice Fayaz.

“In Afghanistan non c’è libertà di stampa perché tutti i media sono in mano a signori della guerra, alla mafia e alle banche. La censura è ancora più forte nei media governativi.

Ariana TV era indipendente fino a che il proprietario, l’afgano-americano Ehsan Bayat, è diventato senatore” dice Fayaz.

Fayaz iora sta pensando di abbandonare il suo lavoro, per diventare un attivista della Afghan Independent Human Rights Commission (Commissione afgana indipendente per i diritti umani), perché “in Afghanistan non esiste la possibilità di lavorare onestamente per i media”. Fayaz crede fermamente che la libertà dei media sia cruciale per portare la pace nel paese, “ma se non esiste libertà di espressione, il risultato sarà l’opposto”, prevede drammaticamente.

Diverse province del sud dell’Afghanistan, come Helmand, Uruzgan, Paktika e Farah, sono zone proibite ai giornalisti. Il 22 febbraio del 2011 fu ritrovato a Urgun (nel sudest della provincia di Paktika) il corpo decapitato di Sadim Khan Bhadrzai, che era stato rapito la sera prima. Era il direttore di una radio locale molto popolare, radio Mehman- Melma.

La sua morte era solo l’ultima di una lunga serie di assassinii mirati contro operatori del mondo dei media negli ultimi anni. Ogni anno si registrano centinaia di casi di violenza contro i giornalisti, la maggioranza a Kabul, Herat e Helmand.

Le donne giornaliste tengono duro

Le giornaliste sono sempre più oggetto di minacce. Nel 2007 Zakia Zaki, la proprietaria di Radio Pace di Kandahar, fu uccisa a sangue freddo durante la notte in casa sua, dove stava dormendo con suo figlioletto.

Ma nonostante il loro sia un lavoro pericoloso, le donne non cedono. Najeeba Feroz è una fragile ma risoluta giornalista ventiquattrenne che lavora per la BBC Afghanistan, che trasmette in Dari e Pashto. Il suo ufficio a Shara Now, in centro a Kabul, è un edificio fortificato protetto da guardie armate.

Feroz si è laureata all’università di Kabul e ha poi lavorato per una serie di periodici indipendenti ed emittenti radiotelevisive, compresa Tolo TV, ma presto la sua frustrazione è diventata insostenibile per l’impossibilità di lavorare in modo autonomo e con piena libertà e per il pesante controllo politico sui media.

“L’unica  scelta che hai è tra la censura imposta e l’autocensura. Ecco perché sono andata alla BBC” ha detto.Qui “verifichiamo le fonti di informazione e non ci importa se dobbiamo pubblicare servizi contro la corruzione governativa o dei signori della guerra, purché il servizio dica la verità”, aggiunge.

Feroz, come molti giornalisti afgani, vorrebbe lasciare il paese. “Dopo tre anni di lavoro alla BBC, noi giornalisti abbiamo l’opportunità di passare un anno all’estero. Sarà una bella esperienza per me, ma dopo tornerò in Afghanistan per aiutare la mia gente”, dice Feroz, che si occupa in particolare di inchieste sulle donne, le cui sofferenze passano spesso sotto silenzio nei media.

La senatrice Belqis Roshan, un’altra intrepida giornalista, ci racconta del suo lavoro nella provincia di Farah per raccogliere testimonianze di violenze contro le donne e per farsi portavoce delle vittime al Senato, perché “a Farah non abbiamo nessun organo di informazione”.

L’Afghanistan ha un tasso di analfabetismo del 72%, per cui la televisione e la radio sono i mezzi più efficaci per raggiungere la gente anche nelle province remote.

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