Via dall’Afghanistan per evitare la guerra: il “coraggio” di Ena
A 10 ANNI È ARRIVATO IN ITALIA E ORA È UNO STUDENTE MODELLO
Il Cittadino
Ascoltare un ragazzo di 24 anni che non sa se siano proprio 24, scappato da solo a 10 dall’Afghanistan, affidato a una famiglia italiana e oggi studente di scienze politiche a Torino. Una sana lezione di “sobrietà”, che fa impallidire le nostre lamentazioni sulla crisi e convince che si può sentirsi felici anche se il telefonino in tasca è un po’ vecchiotto e l’automobile nel box va avanti a rattoppi. È quello che hanno sperimentato ieri a San Giuliano i ragazzi delle medie, incontrando Enajattolah Akbari, il giovane afghano che assieme a Fabio Geda ha scritto “Nel mare ci sono i coccodrilli” (Baldini Castoldi Dalai).
Il resoconto di un’infanzia che più negata non si può, con l’inizio nell’Afghanistan sotto le bombe e la conclusione in una grande città italiana. Enajatollah Akbari, subito abbreviato da tutti in “Ena”, ieri mattina al cinema Ariston è stato invitato dall’associazione Liberi Pensieri per raccontare a ragazzi dai 10 ai 14 anni quale è stata la sua esperienza di vita esattamente nello stesso arco di età.
A San Giuliano è arrivato grazie al sodalizio che da diversi anni sostiene in città il “Progetto Aquilone”, l’accoglienza temporanea di ragazzi di Kabul e altre città in Italia: un’esperienza che è iniziata nel 2007 con l’arrivo dei primi giovani del Progetto patrocinato da Liberi Pensieri, e si ripeterà l’anno prossimo. Akbari una decina di anni fa viveva nella provincia afghana di Ghazni, nel sud est dello Stato centroasiatico. Appartiene a un’etnìa minoritaria nel mosaico etnico afgano, ma lui per tagliare corto e non perpetuare il razzismo dice: «Sono afghano e basta, sono musulmano non praticante e parlo con tutti.
Ciascuno ha un suo sapere da tramandare». «Un giorno mia madre raduna me e i miei fratelli, mio padre non l’ho mai conosciuto veramente prosegue e ci dice che dobbiamo scappare, abbandonare il Paese perchè lì non c’è futuro, non c’è lavoro, si pensa solo a sopravvivere, anzi per essere esatti, a non morire in modo violento». In cinque giorni arrivano a Qandahar, la porta del Pakistan, e riescono a passare la frontiera. In Pakistan il bambino perde di vista (in modo definitivo da allora) la mamma e i fratelli, e deve imbracciare qualche tipo di strumento per lavorare e guadagnarsi il pane nel senso letterale, «perchè spesso lì il lavoro è retribuito in natura e non in danaro».
Tutto questo avviene quando ha su per giù 14 anni. Dal Pakistan tenta di spostarsi verso Occidente guidato da una percezione confusa di dove esattamente siano l’Europa, o quantomeno la Turchia: «Se non vai a scuola, la geografia non te la insegnano, io ero così». Questa odissea prosegue in Iran, poi col passaggio del confine turco e il graduale avvicinamento al vecchio continente. L’ultimo capitolo comprende l’approdo «con un canotto da piscina» sulle coste pugliesi e infine l’incontro con una famiglia italiana al quale Ena viene affidato.
Oggi ha 24 anni, studia scienze politiche anche se gli piacerebbe filosofia e lo si capisce quando dice «ragazzi, non disperdete il tempo. Le scelte che potete fare oggi forse tra dieci anni non torneranno. Rendetevi conto di che fortuna è poter studiare. Anche poter scegliere se studiare o no». Si lascia andare anche a qualche confidenza giovanile quando dice di essere scappato «anche per le ragazze italiane» e di tifare per la Fiorentina.
In Afghanistan non tornerebbe ora, non è pronto per cercare madre e fratelli anche se il suo Paese d’origine non si cancella: «Forse più avanti nella vita tornerò».
Emanuele Dolcini
Lascia un commento