Afghanistan. Quali sono i numeri dell’impegno militare post-Nato?
Osservatorioiraq – 20 maggio 2013 di Claudio Bertolotti
Per rispondere a questa domanda è necessario affrontarne un’altra: gli Stati Uniti continueranno a condurre operazioni di controterrorismo in Afghanistan e in Pakistan?
Questa è la questione centrale di qualunque discussione che riguardi la presenza e la missione militare in Afghanistan.
Secondo molti esperti la risposta sarebbe indubbiamente sì, se la strategia per l’Afghanistan rimanesse quella attuale, portando a 68 mila le truppe sul terreno nel 2014 e dimezzandole nel corso del 2015.
Dunque, con una presenza significativa forte di circa 30.000 uomini, la questione si sposta allora sul piano logistico. La presenza fisica di truppe sul terreno richiede infatti un notevole sforzo logistico, proporzionato alle truppe operative e adeguato alle misure minime di auto-protezione.
La svolta strategica della missione in Afghanistan punta a due obiettivi formali (e sostanziali): il disimpegno dalla guerra combattuta (e non vinta) e il mantenimento di basi strategiche e operative in territorio afghano (obiettivo in fase di definizione).
In sintesi – meglio di quanto già tentato in Iraq – Washington vorrebbe mantenere una presenza militare minima sul lungo periodo, al momento ipotizzabile sino al 2024.
Dopo mesi di dibattiti, l’allora comandante in capo della missione militare in Afghanistan, il generale John R. Allen, si è espresso suggerendo al presidente degli Stati Uniti di mantenere un adeguato contingente di truppe sul terreno al termine della missione Nato-Isaf (dal primo gennaio 2015), momento in cui Stati Uniti e Nato avranno formalmente trasferito la responsabilità della sicurezza alle autorità afghane.
Secondo il New York Times, fonti vicino al Pentagono confermerebbero la redazione di tre differenti ipotesi militari:
La prima dovrebbe prevedere l’impiego di una forza residua di 6.000 soldati statunitensi dopo il 2014, il cui impiego dovrebbe essere prevalentemente di tipo contro-terrorismo, con operazioni mirate su obiettivi di alto valore in territorio afghano e pakistano (al-Qa’ida e taliban).
Un’altra opzione si baserebbe sulla permanenza di 10.000 uomini, che garantirebbe agli Usa una significativa presenza e la capacità di proseguire con l’addestramento e la preparazione delle forze di sicurezza afghane (Ansf).
Infine, la terza possibilità: 20.000 soldati. È la soluzione preferita dai vertici militari americani, poiché l’unica che consentirebbe alle truppe convenzionali (e dunque non solo forze speciali/contro-terrorismo) di continuare a muoversi sul campo di battaglia, così come di addestrare le Ansf e condurre limitate operazioni.
A queste tre se ne aggiunge una quarta, non auspicabile né opportuna sul piano della real-politik; il presidente Obama, durante l’incontro ufficiale di gennaio il suo omologo afghano, ha avanzato a sorpresa una ‘opzione zero’: ritirare tutte le unità dal paese.
Una mossa politica volta a porre sotto pressione Karzai, ma che è riuscita a destare un certo stupore negli ambienti politici statunitensi e nelle cancellerie europee.
La ragione di questa scelta discende dalla contrapposizione tra Washington e Kabul in merito al futuro ruolo militare statunitense nel post-2014, in particolare per quanto riguarda l’immunità dei soldati americani che Karzai avrebbe voluto cancellare, così da consentire alla giustizia afghana di poter intervenire in caso di infrazioni gravi (una mossa rivolta alla politica interna più che alle relazioni internazionali).
Il diniego dell’amministrazione Usa e il successivo dialogo negoziale hanno portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante della presenza di soldati stranieri a fronte del mantenimento di nove basi militari sotto giurisdizione statunitense.
Un evidente vantaggio per entrambe le parti.
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