In Afghanistan c’è la guerra e in guerra si muore
GIULIANA SGRENA, 9 giugno 2013 – Globalist.it
Una replica ad Adriano Sofri che invita a non dividerci dopo la morte del soldato. [Giuliana Sgrena]
Non ci si può dividere di fronte a chi muore in Afghanistan scrive oggi su la Repubblica Adriano Sofri ricordando Giuseppe La Rosa, l’ultima vittima italiana della guerra afghana. Sono pacifista e convinta sostenitrice della non violenza, dunque non potrei mai banalizzare la morte, chiunque sia la vittima.
Ma dobbiamo sapere che in guerra si muore e gli italiani che vanno in Afghanistan partecipano a una guerra, alcuni forse persino inconsapevolmente, vista la retorica sulla “missione di pace”. Una missione di pace non si fa con i cacciabombardieri.
“Così si muore nella terra dell’odio” recita il titolo dell’articolo di Sofri, ma chi ha alimentato l’odio in Afghanistan? L’odio aveva già profonde radici, quelle che avevano portato ai massacri tra le varie componenti dei mujahidin afghani che insieme, finanziati dall’occidente, avevano costretto i sovietici a ritirarsi. Un odio feroce che ha avuto come conseguenza la distruzione di Kabul.
Per porvi rimedio gli americani avevano sponsorizzato i taleban di mullah Omar diventato poi un nemico da abbattere per liberare il paese e, si disse pretestuosamente, “liberare le donne dal burqa”.
Sono passati quasi dodici anni dall’inizio dell’intervento occidentale la violenza contro le donne non è diminuita e l’odio non è placato, anzi. Ma su un punto tutti sono d’accordo: l’occupazione deve finire.
Gli occidentali, Usa in testa, dovrebbero ritirarsi entro il 2014. Il condizionale è d’obbligo perché si sta già preparando il seguito, con la missione Resolute support, alla quale ha già dato il proprio appoggio l’Italia. Forse Resolute support, che ha come compito ufficiale l’addestramento delle truppe afghane, permetterà ai militari occidentali di stare un po’ più al riparo (gli Usa stanno costruendo grandi basi), ma sempre nelle zone che ora occupano e dove la popolazione non sembra così accogliente. Non solo.
I nemici delle truppe occidentali non sono solo i taleban (quelli “buoni” sdoganati dagli Usa dovrebbero entrare nel governo, dove ci sono già i seguaci del feroce Gulbuddin Hekmatyar) ma gli stessi militari da addestrare. Dal 1 gennaio 2008 sono stati un’ottantina gli attacchi cosiddetti “green-on-blue” in cui 132 soldati stranieri sono stati uccisi dalle forze di sicurezza afghane. Se l’odio è arrivato così in profondità forse occorrerebbe fare un bilancio serio della missione – nel caso pur dividendoci – ma la conseguenza, per evitare altre vittime anche afghane, dovrebbe essere – per tutti -l’immediato ritiro.
Il ministro della difesa Mauro in un’intervista alla radio (sabato sera) ha detto che alla fine del 2014 resteranno 1.800 militari italiani in Afghanistan (oltre la metà dei 3.000 attuali), ma non ha precisato se in attesa di ritiro oppure no. Sicuramente non rientreranno tutti, ma quanti ne resteranno? La Germania ha annunciato un contributo di 600-800 uomini e l’Italia? Resterà, come oggi, uno dei principali contingenti presenti sulla “terra dell’odio”.
Speriamo di no per gli italiani e per gli afghani.
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