Malalai, in nome dell’Afghanistan
di Monica Bozzellini, 17 dicembre 2013 – giula.globalist
Anita Sonego, presidente Cpo Comune di Milano, l’afghana Malalai Joya e una delle responsabili del Cisda
Malalai Joya ha 34 anni, 16 dei quali vissuti con la propria famiglia in campi profughi tra i confini dell’Afghanistan, dove è nata, e il Pakistan. Eletta nel 2003 alla Loya Jirga, l’Assemblea del Popolo convocata per ratificare la Costituzione dell’Afghanistan, viene sospesa nel 2007 per le dure posizioni contro alcuni Signori della Guerra che oggi ricoprono incarichi parlamentari e vive da allora sotto scorta, passando di casa in casa, oggi con un marito e un figlio.
Il suo impegno è la liberazione del popolo afghano: durante il regime dei talebani, attraverso l’educazione clandestina delle donne; da 12 anni con la denuncia di quella che, insieme al fondamentalismo, ritiene essere la radice dei mali attuali del Paese, ossia l’occupazione delle forze alleate impegnate a “sostenere un governo composto da Signori della guerra” e ora a “dialogare con i talebani, rafforzandoli”.
A Milano, ospite del CISDA Onlus (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) lo scorso 11 dicembre, Malalai ha incontrato all’Urban Center di Milano cittadini e autorità ed è stata subito evidente la sua vera priorità, una denuncia che non guarda in faccia nessuno: “Rappresento una nazione che dopo 12 anni di guerra è ancora in mano a un governo fascista ed è vittima dell’occupazione delle forze della Nato.
Oltre a condannare la brutalità di questa guerra, vorrei parlarvi delle conseguenze dal punto di vista dei diritti umani: della violenza patita, del saccheggio e della trasformazione subiti dal nostro Stato, diventato mafioso. Parlo in nome del popolo afgano per cui l’unica soluzione possibile è un ritiro totale della forza internazionale. La nostra gente può effettivamente progredire se Usa e Nato smettono di rafforzare i signori della guerra e i talebani.
Oggi ci sono molte manifestazioni spontanee in questo senso, con decine di migliaia di persone a sostegno, ma non ne avrete notizia dai vostri canali di informazione ufficiali”.
E allora, mostra foto ‘spietate’ e ricorda le decine di migliaia di civili – uomini, donne e bambini – uccisi. Snocciola dati sull’Afghanistan, “al 175esimo posto nell’indice di sviluppo, ma ai primi posti per corruzione e nella top ten dei Paesi più sottosviluppati: 20 milioni su 27 di afghani vivono sotto la soglia di povertà, il 60% dei bambini è malnutrito e il sistema dell’istruzione pubblica è il sesto per corruzione nel mondo. Intanto il Paese è diventato il più grande centro di produzione di oppio mondiale, “più pericoloso di Al Quaida – denuncia -, perché distrugge la vita delle persone, con due milioni di tossicodipendenti, in maggioranza donne e bambini. E non è raro venire a sapere di donne offerte in matrimonio in cambio di oppio”.
Proprio le donne, sono tra le vittime principali del “disastro” dell’Afghanistan, “uno dei luoghi più sanguinosi al mondo per loro – denuncia Malalai -. Si parla di diritti, ma non esiste nemmeno quello alla vita: l’80% subisce violenze, il 57% dei matrimoni coinvolge ragazze minori di 16 anni, i matrimoni forzati e gli attacchi con acido stanno aumentando, mentre decine di donne ogni mese si suicidano per la disperazione delle violenze”. E, intanto, il Ministero della Giustizia sta pensando di reintrodurre la lapidazione in caso di adulterio.
Tra le molte storie, Malalai racconta quella della sedicenne Shakila, “violentata e uccisa. Gli uomini coinvolti siedono in Parlamento, da dove stanno cercando di manipolare il processo e i referti attraverso la corruzione, ma la battaglia condotta insieme ad alcuni avvocati molto coraggiosi ci ha permesso di impedire che il violentatore si ricandidasse alle prossime elezioni”.
E se l’Afghanistan è uno dei peggiori Paesi al mondo in cui essere donna, la situazione si aggrava se si è anche giornaliste. “Come gli uomini, non hanno mani libere sui media, controllati dai proprietari che sono i signori della guerra”, racconta, citando su tutte Zakia Zaki uccisa nella sua casa proprio per la sua insistente denuncia dei ‘warlord’.
“Io viaggio in nome del mio Paese e delle donne del mio Paese, ma vedo che in molti luoghi nel mondo non esiste una vera democrazia, per quanto riguarda i diritti delle donne – aggiunge -. E’ molto triste sapere che qui in Italia, dall’inizio dell’anno, 128 donne sono morte per violenze domestiche, è una grande tragedia e noi donne afghane la comprendiamo bene, perché abbiamo perso le nostre sorelle, le nostre madri, le persone più care. Ecco perché noi donne dovremmo essere unite, abbiamo gli stessi nemici, le stesse responsabilità da portare avanti. Dovremmo dire la verità, essere coraggiose insieme, essere più attive, lavorare nelle organizzazione per i diritti delle donne, scrivere dei diritti delle donne, essere più unite le une con le altre e sono sicura che un giorno saremo vittoriose. Uomini e donne. dobbiamo parlare, il silenzio è il nostro più grande nemico”.
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