Il mistero del torturatore in capo dell’Afghanistan
GIORNALETTISMO – 06/05/2014
Haji Gulalai, già a capo dei servizi afgani fino al 2009 era sparito da allora, l’hanno rintracciato sano e salvo vicino a Los Angeles
Il «torturatore in capo» dell’Afghanistan ha trovato rifugio con tutta la sua famiglia negli Stati Uniti, secondo l’ipocrisia ufficiale senza alcun aiuto da parte della CIA o del governo americano e ora i media anglosassoni sembrano stupirsene.
IL MISTERO GLORIOSO – Il presunto «mistero» che circonderebbe l’arrivo negli Stati Uniti di Haji Gulalai, all’anagrafe afgana Kamal Achakzai, è sembrato appassionare per qualche giorno i media anglosassoni, che poi sono passati ad altro una volta che è apparso chiaro che non si può risolvere.
A dire il vero è un mistero che nel nostro paese si definirebbe un segreto di Pulcinella, ma un formalismo ipocrita impedisce anche a testate come il Washington Post di deridere le affermazioni ufficiali senza pezze d’appoggio, quindi se la CIA dice che non c’entra la cosa diventa un «mistero», almeno fino a che non spunti un documento con il timbro della CIA sulla sua pratica.
Gulalai è uno dei tanti, ma non troppi, afgani che hanno trovato rifugio negli Stati Uniti dopo essersi giocato ogni possibilità di sopravvivenza nel suo paese, collaborando con impegno con gli americani. Nel suo caso più che in altri è chiara la sensatezza della concessione dell’asilo, che ha ottenuto per vie normali senza che nulla ostasse, in particolare il fatto che a suo carico pendano diverse accuse per aver ordinato torture e atrocità nel periodo in cui ha retto i servizi afgani. Ad accusarlo sono altri afgani, rapporti ufficiali americani, ONG internazionali e giornalisti che hanno tenuto traccia delle torture e dei crimini compiuti dalla NDS, la CIA afgana.
IL SEGRETO DEL SUO SUCCESSO – Messo a capo della NDS all’indomani dell’invasione del paese, Gulalai deve la scelta al fatto di essere parente di personaggi di un certo spessore, pashtun di Kandahar che ai tempi della lotta ai sovietici avevano collaborato con la CIA e che sono rimasti alieni ai talebani In quell’ambiente è cresciuto e da quell’ambiente Washington ha tratto i suoi partner locali, dal presidente Karzai in giù.
Gulalai così è diventato il capo della locale sussidiaria della CIA, che alla figliola afgana ha fornito direzione, addestramento, equipaggiamento e finanziamenti e con la quale ha condiviso il pessimo trattamento dei prigioneri, l’ormai nota storia delle prigioni segrete, delle torture segrete e di parecchie sparizioni segrete, che in Afghanistan ha assunto proporzioni notevoli, sottratta a qualsiasi scrutinio di legittimità.
L’ECCESSO DI ZELO – Non è che Gulalai avesse molte possibilità di comportarsi diversamente e, anche se i suoi detrattori dicono che ci abbia messo del suo, è abbastanza ovvio che condannare lui, in Afghanistan o negli Stati Uniti, senza condannare insieme a lui la CIA sia un esercizio sommamente ipocrita. Secondo il Washington Post un «diplomatico occidentale» lo avrebbe definito «il torturatore in capo», ma anche «un ingranaggio importante in una macchina che ha ucciso un mucchio di persone», una macchina guidata da Langley.
POI UN GIORNO È SPARITO – Gulalai è ufficialmente sparito dall’Afghanistan nel 2009 e ora riappare alle cronache dall’altra parte del mondo, confortevolmente sistemato in una rosea casa monofamiliare alla periferia di Los Angeles, un posto che secondo i cronisti ricorda Kandahar grazie alla vicinanza di monti che ricordano quelli visibili dal capoluogo dell’omonima provincia afgana. La sua presenza nella zona era nota agli altri rifugiati afgani che ci vivono e alle autorità americane, ma di recente è stata rilevata anche dalla stampa, che ha riproposto il mistero del suo trasloco e la sua stessa opportunità, perché che Gulalai si sia macchiato di discreti crimini non pare in dubbio.
LE SOLITE IPOCRISIE – I suoi compatrioti giustamente si chiedono il motivo di questi dubbi, in fondo ha combattuto al Qaeda per una decina d’anni e buona parte dei crimini che gli sono imputati, i peggiori, sono stati perpetrati sotto la direzione degli americani. Gli americani però non possono ammettere di aver autorizzato torture, perché l’Afghanistan non è un limbo extra-legale come Guantanamo, e la CIA ha sempre sostenuto che i programmi di formazione delle forze armate e dei servizi afgani ponevano grande enfasi sul rispetto dei diritti umani. L’esistenza di una doppia morale tra pubblico e privato nella CIA è ormai assodata, così come il fatto che in Iraq, Afghanistan e altrove abbia fatto ricorso a tattiche criminali, pur sostenendo pubblicamente il suo impegno ad operare entro i limiti della decenza e del diritto internazionale.
LA FUGA CON IL BOTTINO – Anche il chiedersi come Gulalai possa mantenersi e mantenere la famiglia al completo negli Stati Uniti è esercizio abbastanza ozioso, la corruzione afgana è leggendaria e non esiste membro del governo afgano che non abbia monetizzato massicciamente la propria posizione sotto gli occhi degli americani, che hanno importato nel paese i dollari con i pallet e poi li han visti prendere la via delle banche del Golfo dentro alle capaci valigie di ministri e ufficiali del governo.
Gulalai pare abbia arrotondato vendendo le armi sequestrate e facendosi pagare riscatti dalle famiglie dei prigionieri, pratica abbastanza comune anche tra le forze di polizia. Gulalai però era anche spietato e incuteva vero terrore a chi finiva nelle sue mani, aveva carta bianca e la usava senza troppi rimorsi, difficile pensare che una volta tornato alla vita da civile avrebbe potuto sopravvivere a lungo e che in Afghanistan fosse in pericolo lo testimonia anche l’attentato subito nel 2007, quando all’ingresso di una moschea lui e la sua scorta furono attaccati da un kamikaze che si fece esplodere a pochi metri di distanza. Attentato che peraltro non fu l’unico, ma quello che arrivò più vicino allo scopo, ferendolo.
UNA RIMPATRIATA – Negli Stati Uniti Gulalai ha trovato parecchi amici d’infanzia, alcuni dei quali lo hanno preceduto con i loro genitori fin dal 1979, all’indomani dello sforzo per la cacciata dei sovietici, andavano a scuola insieme e ora si trovano ogni fine settimana a giocare a carte, come normali pensionati americani, lontano dalla guerra e dal loro paese. Una soluzione comoda per il governo americano, soprattutto se non si fosse risaputa, perché la sua fama non è precisamente specchiata ed è fonte d’imbarazzo sia per l’amministrazione americana che per il governo afgano, che a un certo punto si erano trovati di fronte alla pressione dell’ONU e degli alleati affinché fosse rimosso o disciplinato, risolta d’un tratto con la sua sparizione dal paese.
UN FORTUNATO TRA TANTI – Ora che il mistero è parzialmente risolto le agenzie americane si rifiutano di fornire informazioni sul suo caso invocando la privacy e lui e la sua famiglia oppongono il silenzio alle richieste d’intervista, ma molti dei crimini che gli sono imputati sono imprescrittibili e non è escluso che, anche se il governo di Kabul e quello di Washington oggi non intendono perseguirlo, in futuro possa divenire oggetto di un procedimento penale. La sua storia illumina quella di migliaia di persone come lui, che in diversi modi e occasioni hanno collaborato con gli americani in Iraq e in particolare in Afghanistan, dove la genesi,la condotta e l’esito dell’occupazione americana si può paragonare a quello del Vietnam, un paese nel quale all’andarsene degli americani, la messa a morte di chi ha collaborato con loro diventa l’esito più probabile. Gli Stati Uniti non sono stati particolarmente generosi nella concessione dell’asilo o anche solo della carte verde a questi preziosi alleati nelle loro guerre, a poterne godere sono stati per lo più pochi e selezionati, lasciando in particolare i più vulnerabili ad arrangiarsi.
Gulalai e gli altri membri del governo Karzai hanno infatti mezzi in abbondanza per stabilirsi dove desiderino, ma non così ad esempio i traduttori che hanno accompagnato i plotoni americani ovunque e gli ingranaggi più piccoli della macchina che ha fatto strage di afgani per conto degli americani.
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