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Il documento della delegazione CISDA alla XX Giornata della Memoria e dell’Impegno organizzata da Libera a Bologna

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Simona Cataldi – CISDA – 21 marzo 2015

IMG 20150322 WA0007 300x225ANTIMAFIA SOCIALE E DIRITTI UMANI IN AFGHANISTAN

21 marzo 2015 – Ringraziamo Libera per averci invitate e per averci dato la possibilità di dare il nostro piccolo contributo ad un’iniziativa così importante e significativa quale la XX Giornata della Memoria e dell’Impegno.

Il Cisda si occupa di Afghanistan dal 1998, quando ancora c’erano i talebani. Siamo tutte volontarie. Ogni anno abbiamo svolto missioni in loco per monitorare la situazione del paese direttamente e senza filtri a fronte dell’intervento della comunità internazionale che chiama in causa anche l’Italia e gli italiani.

Con 15 anni di attivismo alle spalle, abbiamo individuato interlocutori affidabili e seri (esponenti della società civile, associazioni, partiti politici, onlus locali…), abbiamo verificato il grandissimo lavoro sociale e politico che portano avanti nel marasma delle oltre migliaia di organizzazioni non governative che sono state fondate con l’unico scopo di recepire gli ingenti finanziamenti (oltre 25miliardi di dollari) arrivati nell’Afghanistan post talebano e che fanno capo a signori della guerra e signori della droga che, purtroppo, ancora oggi giocano un ruolo fondamentale, chiave, all’interno del paese.

Dobbiamo ringraziare doppiamente Libera perché questo dibattito ci permette non solo di riaccendere i riflettori sulla situazione del paese, ma anche con un focus particolare sulla GIUSTIZIA. Un tema che ci sta molto a cuore e che abbiamo seguito da vicino anche perché è stata l’Italia che per anni e con milioni e milioni di euro, si è occupata come lead country della riforma del sistema giudiziario afghano.

Come storia insegna, fare i conti con il passato è la condizione sine qua non per il raggiungimento di risultati concreti nell’ambito della ricostruzione del tessuto sociale, economico e politico nonché delle trattative di riconciliazione di qualsiasi paese in via di sviluppo che esce da decenni di guerra e dittature. 

Paradossalmente, ma non casualmente, dalla Conferenza di Bonn del 2001 ad oggi si è sempre e solo posto l’accento su STABILITÀ e SICUREZZA ma mai sulla giustiza.E la Sicurezza e la Stabilità ancora precarie sono state le ragioni a monte della proroga annuale dell’impegno internazionale nel paese. 

La Giustizia è la questione dimenticata  della Transizione in Afghanistan” e la chiave di lettura per capire quali sono le ragioni che sottendono all’attuale situazione del paese.  Secondo la denuncia di Transparency International, un’associzione non governativa fondata nel 1993 a Berlino che si occupa di casi di corruzione, l’Afghanistan è  uno dei paesi più corrotti al mondo e sta precipitando verso una crisi politica devastante che sancisce irrimediabilmente il fallimento fattivo della Transizione a guida internazionale.

Ancora, secondo Transparency International “ufficialmente gli Stati Uniti hanno vagliato apposite misure anti-corruzione, ma nello stesso tempo,  hanno protetto gli ufficiali accusati di corruzione ma giudicati essenziali all’impegno bellico.  Stupri, rapimenti, omicidi e torture possono essere coperti e persino legittimati purchè ci si renda utili alla causa. Una specie di realpolitik in base alla quale si sceglie di sacrificare ciò che è giusto (perseguire legalmente i criminali) in nome di ciò che è necessario (combattere e sconfiggere il tanto dissacrato terrorismo).

 

La stessa logica cinica e fredda che è alla base della politica di “non-interventismo” nei confronti dell’aumento esponenziale delle piantagioni da oppio dal 2001 ad oggi e del relativo rifiorire del narcotraffico afghano che aveva registrato una battutta d’arresto durante il periodo talebano in seguito ad un editto emanato dal Mullah Omar nel 1999 che aveva vietato la produzione di oppio nella speranza di guadagnarsi il riconoscimento internazionale.

Oggi l’Afghanistan è tornato ad essere il primo produttore di oppio al mondo (UNODOC – Agenzia UN per il Controllo della Droga e la Prevenzione del Crimine) e una delle cause risiede in una strategia politica che fu di Bush prima, poi portata avanti da Obama, per cui si scelse di non immischiarsi nelle campagne di eradicazione delle coltivazioni di papaveri da oppio e di andare a colpire in maniera “selettiva” solo i signori della droga legati ai talebani. Una strategia che è stata venduta all’opinione pubblica con un campagna stampa mondiale che ha messo in ombra il ruolo dei signori della droga legati al governo afghano e all’Occidente, facendo passare l’idea che il business dell’oppio e dell’eroina sia gestito solo ed esclusivamente dai talebani. Ma dai rapporti UNODOC è evidente che gli insurgents intascano appena il 10% dei profitti generati dall’industria della droga. E l’elenco dei narcotrafficanti locali alleati di USA e NATO è lungo e comprende nomi di primo piano della politica afghana come Ahmed Wali, il fratello di Karzai, o il fratello delle due parlamentari e anche attiviste per i diritti delle donne, Mariam e Fazia Koofi.

L’oppio vanifica i tentativi di istituzionalizzare il paese, instilla instabilità e non solo in Afghanistan ma anche in Russia, Iran e Pakistan, alimenta la corruzione. E siamo di nuovo al discorso sulla corruzione. Un paese corrotto è un paese dove il rispetto dei diritti umani è gravemente compromesso. Le istituzioni che devono garantire il rispetto dei diritti umani finiscono infatti per garantire protezione a chi viola la legge e chi viola la legge  fa parte delle istituzioni.

Interessante  il rapporto di Amnesty International sullo stato di diritto in Afghanistan che sin dal 2009 mette in luce e denuncia che da una parte le istituzioni formali della giustizia sono lente, inefficaci e corrotte. Dall’altra non esiste un sistema che faccia applicare le leggi dello Stato, per cui le jirgas e le shuras tradizionali (vale a dire i Consigli tribali informali) che operano al di fuori del sistema giudiziario formalmente riconosciuto e che, di fatto, costutuiscono una violazione del diritto ad un processo equo, continuano a gestire una stima dell’80% delle dispute, soprattutto nelle aree tribali.

Nel concreto, vorrei portare degli esempi che riguardano la condizione femminile in Afghanistan. Il nostro Coordinamento si occupa in particolare di donne e la condizione delle donne è sempre specchio  dello stato di salute di un paese in termini di stato di diritto e cultura della legalità. Ebbene, come denunciato da Hawca, una delle onlus afghane se non la più accreditata e seria che lavora per l’appunto per garantire assistenza umanitaria alle donne anche in termini legali, la maggior parte delle donne che subisce violenza decide di non sporgere denuncia perchè non ha nessuna fiducia nelle istituzioni.  Seppure esistono strumenti che garantiscono l’uguaglianza di uomini e donne di fronte alla legge (es. Legge per l’Eliminazione delle Violenze nei confronti delle Donne promulgata nell’agosto del 2009), tuttavia  la maggior parte dei giudici sono parte di quel sistema di potere fondamentalista dei signori della guerra e della droga che governano il paese. Sistema che non differisce da quello precedente dei talebani. 

Ad essere in aumento sono le cosiddette “violenze istituzionali” cioè quelle perpetrate da esponenti del governo, parlamentari, ministri o membri delle loro famiglie cui l’apparato giudiziario garantisce protezione.  Come sostiene l’Afghan Women Network, l’impossibilità di denunciare ha promosso a tutti ii livelli  la cultura dell’impunità. E’ lapidario il giudizio di HRW nel rapporto “I had to run away” (2012) l’Afghanistan, nonostante le misure intraprese, resta uno dei peggiori paesi al mondo dove essere donne.

I crimni cosiddetti “istituzionali” non colpiscono, purtroppo, solo le donne. Vorrei allargare il focus e citare il rapporto di HRW “Just don’t call it a Militia” del 2011 che approfondisce  la questione dei crimini impuniti commessi da funzionari e  comandanti delle milizie. Negli ultimi anni, infatti per far fronte alla costante instabilità che assieme al tema sicurezza è stata la lente attraverso la quale si è scelto di rappresentare la situazione del paese, Stati Uniti e Governo afghano hanno fornito armamenti militari, addestramento e salario a migliaia di uomini reclutati in una nuova forza armata organizzata a livello di comunità: la Polizia Locale Afghana, destinata a garantire la sicurezza delle comunità locali e impedire le infiltrazioni  di gruppi insorgenti nelle aree rurali. Ebbene questi gruppi armati irregolari, denuncia HRW, non differiscono da quei gruppi armati al comando di leader tribali, imprese private di sicurezza, bande di criminali etc… che hanno commesso vendette tribali, estorsioni, traffici illegali, stupri di donne e bambini negli ultimi decenni di guerra civile.

La creazione di queste milizie, che si abbandonano a stupri, ruberie e crimini di ogni sorta, non ha fatto che aumentare il livello di insicurezza. Il rapporto è importante perchè sottolinea come l’insicurezza nel paese non viene solo da insurgents (elementi anti-governativi). L’ inaffidabilità delle istituzioni, la corruzione e l’impunità delle forze armate sono un incentivo alla ribellione e alla guerriglia che deve essere affrontato.

Bisogna investigare sui crimini commessi dalle forze di sicurezza afghane e smantellare le truppe locali irregolari sostenute dalla comunità internazionale.  Il monito di HRW che si evince dalla lettura del rapporto parla chiaro: l’assistenza finanziaria delle forze di sicurezza deve andare di pari passo con lo sviluppo fattivo dei meccanismi di giustizia.

E arriviamo ad un documento pubblicato dall’–Osservatorio sui Diritti Umani pochi giorni fa “Today we shall die: Afghanistan’s strongmen and the legacy of impunity”. 125 interviste, dal 2012 ad oggi che inchiodano otto uomini forti dell’apparato afghano voluti e incaricati per la politica sporca. Nelle testimonianze raccolte non senza timori da superstiti e familiari delle vittime ce n’è per tutti . Violenze, uccisioni, torture -soprattutto nelle carceri- continuano nell’Afghanistan di oggi come ai tempi della guerra civile sotto lo sguardo assente e spesso complice della Comunità Internazionale.

Cito le parole di Brad Adams, Direttore HRW Asia, che mi sembrano significative “il Governo afghano e i suoi alleati internazionali hanno sostenuto e protetto comandanti implicati in vari e gravi crimini contro l’umanità bloccando la GIUSTIZIA a cui le vittime avevano diritto. Un futuro giusto e sicuro per l’Afghanistan non può essere costruito dalle persone che lo hanno distrutto”. Finalmente dopo quasi 15 anni di intervento,  si parla di Vittime.

Le VITTIME. Sembra incredibile, ma, come denunciato da Sari Kuovo, a capo del programma in Afghanistan dell’International Centre for Transitional Justice, nessuna istituzione ufficiale, dalla fine del regime talebano ad oggi, ha mai parlato con le vittime. Chi sono le vittime in Afghanistan? Le vittime dei 10 anni di occupazione societica a partire dal 1978, le vittime della guerra civile dal 1992 al 1996 -che costò la vita a più di 65.000 persone, è tutto ampiamente documentato in un rapporto HRW “Blood Stained Hands”-, le vittime dell’oppressivo regime dei talebani e le vittime del presente, le vittime civili della missione di pace. I cosiddetti “danni collaterali” anche degli attacchi aerei occidentali. Il 2014 è stato definito il peggiore in termini di perdite da UNAMA, la missione UN in Afghanistan. La stima delle vite stroncate dall’inizio del conflitto ad oggi è di circa 47.000 persone.

Le vittime non sono mai state riconosciute. Esiste ampia evidenza di chi fu responsabile di tutti i crimini contro l’umanità commessi dalle varie fazioni dell’Alleanza del Nord che provocarono la guerra civile. Ma, cito un comunicato pubblicato da HRW lo scorso febbraio a memoria della stragedia di Afshar “l’allora governo, con l’avvallo della comunità internazionale scelse di non perseguire i responsabili nel nome della stabilità politica. Tutti gli sforzi per fare GIUSTIZIA furono sistematicamente bloccati”.

Esattamente nel 2007, quando per intenderci furono anche ritrovate 81 fosse comuni, il Parlamento afghano prima e poi Karzai approvarono la National Stability Reconciliation Law. Una legge che nel nome della Riconciliazione, concede la completa amnistia a tutti coloro che si sono macchiati di crimini contro l’umanità e crimini di guerra nelle ultime tre decadi. A tutti i responsabili delle fosse comuni ritrovate, in sostanza, fu concessa l’impunità. Le fosse furono ricoperte e non ci furono le dovute e doverose investigazioni. Non solo. La legge concede anche l’impunità a tutti i Talebani purchè accettino di sedere a un tavolo di trattative con il Governo e depongano le armi.

È questa legge, è l’impunità che concede, alla base della profonda corruzione che oggi mina il paese. E’ questa legge che ha portato criminali di guerra a ricoprire cariche istituzionali, che mina e compromette incontrovertibilmente qualsiasi tentativo di costruire la pace. Tra l’altro per la legge internazionale un’amnistia così ampia non è legale. I crimini contro l’umanità non sono condonabili.

La legge ha generato grande sdegno e una ferrea opposizione da parte di tutte le forze sane e democratiche del paese. Dallo Statement che fu redatto dal Transitional Justice Coordination Group, che raccoglie 24 associazioni di parenti delle vittime, al lavoro della Commissione Indipendente per i Diritti Umani – AIHRC “Conflict Mapping in Afghanistan since 1978”. Un prezioso documento che non a caso ancora non è stato reso pubblico né tantomeno riconosciuto dal Governo. Dettaglia le coordinate di circa 180 fosse comuni nel paese, molte ancora segrete e non scavate nonchè raccoglie testimonianze ed altri importanti elementi dal 1978 ad oggi attraverso interviste a circa 8000 vittime e superstiti.

L’instabilità e i combattimenti spingono gli afghani a lasciare le loro case. Non a caso, ce lo conferma l’ultimo rapporto UNHCR aggiornato alla metà del 2014, dei 46,3 milioni registrati (tra rifugiati e sfollati interni), 2,7 milioni sono afghani. Una comunità storica che per 30 anni è stata al vertice della classifica.

Come Cisda non abbiamo mai smesso di denunciare questa situazione e di sostenere le campagne e le azioni promosse dalle numerose realtà del paese che vogliono ricostruire un Afghanistan giusto e libero dal fondamentalismo e dalla corruzione. Tutte realtà che oggi sono costrette alla clandestinità e che sono perseguitate ma che nonostante tutto non hanno mai perso la speranza.

La diaspora afghana ha fatto e fa storia, ma sono moltissimi gli afghani che scelgono di non andare via e di combattere senza paura per ricostruire un paese democratico e stabile. E voglio concludere parlandovi brevemente di loro che hanno sempre trovato poco spazio nei media.

Rawa, la più longeva delle organizzazioni politiche di donne attive in Afghanistan. La loro “arma” è l’educazione. La democrazia non si può importare, ma può crescere solo all’interno di una cultura che discute e riforma se stessa sulle sue basi positive. E insegna i prinicipi dell’uguaglianza, della libertà di espressione, della tolleranza etnica e religiosa, i valori della pace e della libertà. Rawa conta migliai e miglia di aderenti.

Hambastaghì, il partito politico della Solidarietà che conta oltre 10.000 iscritti. I suoi obiettivi la democrazia, il riconoscimento e la difesa dei diritti delle donne e dei diritti umani, la ferma opposizione all’occupazione militare del paese perchè ancora oggi la popolazione, nonostante la resistenza e il sacrificio di milioni di vite, è senza pane, senza un alloggio adatto, senza istruzione, assistenza sanitaria, senza beni di prima necessità o agevolazione alcuna nella vita quotidiana; la corruzione è ai massimi livelli e la libertà di parola e di stampa sono ancora bassissime.

C’è il Saajis – Social Association of Afghan Justice Seekers –  che rivendica con forza il diritto alla giustizia e il diritto di sapere come contributo necessario e fondamentale non solo al ristabilimento della dignità delle vittime ma anche alla costruzione di un percorso di verità e riconciliazione. Il Saajis è l’espressione tangibile e concreta del bisogno di diritto che nasce da dentro la storia del popolo afghano.

La rimozione della storia spesso invocata in nome della riconciliazione non è che il primo vero ostacolo alla costruzione della pace.

È indubbio, serve una forte volontà politica per costruire un sistema di legalità e uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale è non aver mai fatto pressioni in questo senso. Di qui il nostro lavoro di informazione affinchè la verità sulla situazione dell’Afghanistan diventi di dominio pubblico come le rivendicazioni e l’esistenza di una parte sana del paese che deve essere sostenuta. Perchè come dice Don Ciotti, la speranza se non è di tutti non è di nessuno..

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