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Afghanistan, le sue donne e l’impegno per contrastare l’atrocità di un conflitto che sembra non trovare soluzione

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tralerocceeilcielo – 8 agosto 2016

img 3481 1 300x200Afghanistan, le sue donne e l’impegno per contrastare l’atrocità di un conflitto che sembra non trovare soluzione

Intervista a Cristiana Cella

Dalla voce di una testimone d’eccezione, Cristiana Cella, l’esperienza di collaborazione tra il Cisda e il progetto Vite Preziose e 5 Ong afgane fatte di donne per le donne che lavorano per il rinnovamento di un Paese dilaniato da decenni di conflitto.

In un suo aforisma Voltaire scrive “Uccidere è un crimine. Tutti gli assassini vengono puniti, a meno che uccidano in gran numero di persone e al suono delle trombe”. Questa terribile verità è ormai storia da decenni e in molte parti del Pianeta. Il rapporto di noi occidentali con la guerra è alquanto controverso e distorto, passiamo dall’essere sconvolti e traumatizzati dal conflitto, al disinteresse e all’apatia, troppo spesso “consumiamo” la guerra come un qualsiasi spettacolo mediatico e solo se non ci tocca direttamente facciamo presto ad annoiarci e ad interessarci a nuove tragedie.

Il 19 agosto, durante la seconda giornata del Festival “Tra le rocce e il cielo” avremo modo di ascoltare la testimonianza di Cristana Cella, giornalista e attivista dei diritti umani, che ci racconterà l’Afghanistan, le sue donne e l’impegno che la società civile sta portando avanti da anni per contrastare l’atrocità quotidiana di un conflitto che sembra non trovare soluzione.

Quell’area strategica del medio oriente, pacifica e florida per gran parte del xx secolo ha avuto una storia sofferta e travagliata che possiamo far partire dal colpo di Stato del 1973. Da quel momento in poi una serie di accadimenti scossero il Paese e lo portarono all’attuale condizione di guerra aperta. La Rivoluzione d’Aprile del 1978 di stampo marxista-leninista, l’invasione dell’Urss del 1979, la repubblica Islamica dei primi anni novanta e inseguito il dominio talebano che portò, dopo l’attentato al World Trade Center, all’invasione americana e delle forze Onu nel 2001. Da quel momento in poi la cronaca, l’operazione Enduring Freedom, la “democrazia” imposta con Karzai e la continua instabilità e violenza fino ai giorni nostri, gli attentati, le truppe del contingente Nato ancora sul territorio.

Parlare con Cristiana Cella vuol dire dar voce a questa storia e a molte altre, prime fra tutte alle donne che la giornalista ha conosciuto quando era in Afghanistan per il quotidiano l’Unità e come membro del Cisda e che continua a seguire grazie al progetto Vite Preziose che ha creato e che porta avanti da anni.

Procediamo con ordine e iniziamo a conoscere Cristiana Cella.

Quando sei andata per la prima volta in Afghanistan?

La prima volta che sono andata in Afghanistan era il 1980, la Nazione era stata appena invasa dai russi e la situazione era molto diversa rispetto a quella attuale. Quando i russi hanno iniziato a bombardare l’Afghanistan, la società civile era ancora integra, le donne andavano in giro senza velo, Kabul era una città bellissima, le donne erano medici, ingegneri, architetti, guidavano la macchina, c’era stato il 68 afgano. La società civile era forte e iniziò proprio in quel periodo la lenta distruzione della parte democratica del Paese.

Allora, ho avuto l’opportunità di conoscere i mujaheddin democratici. Già allora c’erano i primi movimenti fondamentalisti, ma i fondamentalisti che stavano a Peshawar erano solo una parte della Resistenza, poi c’era tutta la parte democratica che si opponeva alla invasione russa e all’avanzata del fondamentalismo. C’era tutto l’Afghanistan democratico e islamico moderato, che io ho avuto la possibilità di seguire e documentare sulle montagne durante i combattimenti, che lottava per l’indipendenza del proprio paese. Tuttavia, proprio la parte democratica della Resistenza è stata devastata negli anni seguenti, in quanto colpita contemporaneamente sia dai russi che dalla resistenza fondamentalista. Le donne che adesso hanno strutturato tutte le attività politiche e umanitarie che seguo, molto spesso sono figlie di chi ha portato avanti, negli anni 80, la resistenza democratica. Sono cresciute e sono state educate con l’idea di un Paese democratico, laico, libero e svincolato dalle ingerenze straniere.
C’è un filo diretto che collega quello che sta avvenendo adesso e quel periodo storico ben preciso, ma da allora ad adesso il Paese non ha mai potuto conoscere un momento di pace e quindi le attività di ricostruzione della società civile sono sempre state condotte parallelamente e in concomitanza con i conflitti. Dopo i russi, la guerra civile, i talebani e poi gli americani.

Qual è la condizione dell’Afghanistan oggi?

Il paese vive una condizione in costante peggioramento, se si considerano i dati dei rapporti dell’Onu, le vittime civili sono in aumento. La popolazione si trova in mezzo agli scontri tra esercito e talebani, tra talebani e Isis, sotto i bombardamenti americani fatti con i droni. Vivere in Afghanistan vuol dire essere completamente schiacciato da questa situazione di violenza continua, le strade sono minate e gli attentati sono quotidiani, specie a Kabul.

In questo intricatissimo puzzle, che ruolo hanno le forze internazionali?‏

Le forze internazionali in Afghanistan fanno, a discapito del popolo e della Nazione, solo i loro interessi. Hanno moltissime basi sul territorio e non hanno nessuna intenzione di andarsene. Ultimamente, inoltre, il loro ruolo che era mutato solo in funzione difensiva è stato riconvertito in funzione offensiva e la loro presenza ha avuto e sta avendo ripercussioni pesantissime sul Paese. Non hanno fatto nulla di costruttivo nel tessuto sociale e nella ricostruzione materiale. Kabul rimane un campo di battaglia, manca l’acqua, la rete telefonica, la sanità è un disastro, come l’istruzione e la sicurezza. In 16 anni di presenza internazionale nulla è stato fatto per permettere, un giorno, la rinascita dell’Afghanistan.
Le colpe dell’Occidente riguardano sia il non aver fatto nulla per permettere una ricostruzione concreta della società sia nel aver finanziato i fondamentalisti per interessi politici ed economici. Sono stati gli americani, per esempio, ad armare e sostenere talebani e mujaheddin al fine di contrastare l’invasione russa e adesso, in un periodo di psicosi terroristica, però, paghiamo lo scotto di quelle scelte. Prima di tutto lo paga la popolazione afghana prigioniera da anni del fondamentalismo islamico.

L’Invasione di questi ultimi sedici anni è stata un enorme e colossale menzogna, propagandata come una missione per diffondere la democrazia e liberare le donne dal burqa si è dimostrata invece, un’operazione che ha notevolmente peggiorato le condizioni del popolo. Il fallimento totale di quest’operazione di occupazione è dimostrato da chi governa il Paese, gli stessi signori della guerra e della droga che hanno distrutto il paese negli anni ’90, e dal fatto che gran parte di quest’ultimo è ancora in mano ai talebani che sono liberissimi di muoversi e accedere fino al centro di Kabul per mettere in atto gli attacchi terroristici.

6443100931 06f6ea9393 b 300x225La tua attività nei confronti dell’Afghanistan non è stata solo giornalistica, ha creato con il suo lavoro un movimento di sostegno al ruolo delle donne afgane, il progetto Vite Preziose, di cosa si tratta?

Il progetto Vite Preziose nasce quasi per caso 5 anni fa. Al tempo lavoravo per l’Unità ed ero partita con il CISDA (Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane) in una delegazione di donne per incontrare le Ong afgane con cui il Coordinamento lavora. Tornando da Kabul feci tre reportage sulle donne afgane e i lettori stessi iniziarono a contattare la redazione chiedendoci come potevano contribuire concretamente a sostenere la loro attività. Fu creato il progetto pensando che l’informazione può e deve collegarsi con la solidarietà, perché raccontare non basta.
Ho iniziato così a scrivere delle vite delle donne accolte presso la casa protetta o delle donne seguite presso uno dei pochissimi centri di assistenza legale presenti nel Paese che permette alle vittime di violenza domestica o sociale di trovare assistenza e aiuto. Il progetto nacque con il sostegno dell’allora direttore Concita De Gregorio e così abbiamo iniziato a promuovere questa partnership tra le Ong afgane, Hawca e Opawc, e i lettori, abbiamo iniziato a cercare gli sponsor e quindi i finanziamenti e abbiamo sfruttato le opportunità dateci dal progetto per diffondere un po’ di informazioni sull’Afghanistan che non erano le informazioni che venivano diffuse normalmente.
Il progetto in questi anni è cresciuto e gli sponsor che sostengono concretamente e direttamente le donne afgane sono aumentati. Le donazioni italiane sono molto spesso l’unico denaro di cui la donna può disporre liberamente per le cure mediche e l’istruzione dei figli. Questo sostegno economico, unito all’assistenza data in loco dalla ong Hawca, permette loro di compiere piccoli e grandi passi sulla strada della libertà dalla paura e dell’autonomia.
La condizione di queste donne è quella tipica della schiavitù, vendute in matrimonio ancora bambine, segregate, picchiate e sottoposte costantemente ai ricatti, di natura economica e affettiva. Anche le avvocate o le assistenti sociali corrono rischi molto forti. Le ritorsioni sono all’ordine del giorno e la loro vita e la loro attività è molto complicata. La legalità lì non esiste, la società è in mano a questi signori e signorotti della guerra, all’ideologia fondamentalista, alle bande armate, ma loro con estremo coraggio riescono ad andare avanti e a portare avanti la loro missione.
A settembre del 2014, al progetto di sponsorship che seguo da anni, si è affiancato un progetto del Ministero degli Esteri, gestito dalla Ong Cospe, di Firenze, e di cui Cisda è partner. È un progetto triennale con cui si è riusciti a riaprire i centri legali che erano stati chiusi per mancanza di fondi e a mettere in campo azioni a favore dei diritti delle donne e della giustizia.

donne afghanistan 2 300x194 copyIl progetto Vite Preziose è la prova che il buon giornalismo può andare ben oltre la mera informazione. I tre reportage che hanno fatto appassionare i tuoi lettori di cosa trattavano?

Il primo era incentrato sull’attività della casa protetta di Hawca, che accoglie le donne in grave pericolo, anche bambine, vittime di violenza. Il secondo, invece, verteva sul tema dell’istruzione e il diritto della donna a frequentare la scuola, il terzo sulla guerra civile, che ha devastato l’Afghanistan dal 1992 al 1996, vista con gli occhi delle donne. La guerra civile, in cui i vari gruppi di mujahiddin fondamentalisti, vittoriosi sui russi, si sono asserragliati nei diversi quartieri di Kabul, sparandosi a vicenda, distruggendo la città e facendo 65000 morti. Era un momento in cui l’Occidente si disinteressava totalmente dell’Afghanistan e succedevano cose tremende. Qui ho collaborato con un altro partner di CISDA, Saajs, che si occupa di giustizia transizionale e di fare una campagna politica contro chi, prima ha distrutto il Paese e fatto migliaia di morti e adesso, con l’avallo internazionale, siede negli scranni del potere. Erano le testimonianze di questi anni terribili.

Facciamo un po’ di chiarezza. Vite Preziose è un progetto di sponsorship per le attività di Hawca che si occupa principalmente di assistenza legale alle donne vittime di violenza. Il Cisda, invece, sostiene e collaboro anche con altre quattro associazioni, quali sono le loro peculiarità?

Si, Hawca si occupa di donne e bambini ed è l’associazione con cui si realizza il progetto Vite Preziose. La sua attività principale è la tutela legale delle donne. Ha fondato e gestisce dei centri legali e la casa protetta in cui le donne in pericolo trovano rifugio. Si occupa anche di istruzione e di fornire gli strumenti culturali alle donne sui propri diritti e su come ottenerli.
Poi c’è Opawc che si occupa principalmente di istruzione e formazione professionale nel distretto di Afshar, uno contesto socio-economico particolarmente complesso e disastrato. Inoltre, hanno anche un piccolo ospedale nella ragione di Farah.
Afceco si occupa di bambini. Gestisce da molti anni degli orfanotrofi, dei posti bellissimi, in cui ai bambini viene data un’educazione laica, tollerante, democratica, senza divisioni tra diverse etnie e tra ragazzi e ragazze. Viene insegnata la musica, il teatro, hanno perfino una squadra di calcio femminile. Tutte queste realtà sono in perenne lotta con il governo o con chi detiene il potere in generale. Ad esempio, gli orfanotrofi di Afceco sono stati molto ostacolati per la loro attività ed è stato fatto di tutto per farli chiudere. Strutture come quella sono molto pericolose per la classe dominante, perché cercano di formare giovani liberi da preconcetti mentali, indottrinamenti religiosi e abituati alla convivenza e alla parità tra i sessi. Gli ultimi anni sono stati particolarmente duri a causa della crisi economica e dello spegnersi dei riflettori sull’Afghanistan, questo ha notevolmente ridotto i fondi internazionali destinati alle attività umanitarie e della società civile e alcune di queste strutture sono state chiuse.
Saajs si occupa invece della Giustizia transizionale e il suo lavoro è raccogliere le testimonianze sulla guerra civile e sulle responsabilità delle persone coinvolte che sono al momento al governo del Paese. Questo è la tragedia dell’Afghanistan, il fatto che l’Occidente abbia messo al potere i responsabili della guerra civile.
Infine c’è Rawa, che dal 1977 lotta per i diritti delle donne, i diritti umani, la democrazia e la giustizia sociale. Rawa è stata la prima associazione con cui il Cisda ha iniziato a collaborare.
Negli anni il rapporto tra il Coordinamento e le Ong afgane si è rinsaldato e adesso c’è grande fiducia e stima reciproca, spesso noi andiamo in delegazione in Afghanistan e invitiamo in Italia le loro rappresentanti, per testimoniare quello che davvero succede nel paese. E’ molto importante sostenere e finanziare associazioni veramente autonome e democratica perché le Ong in Afghanistan sono molto spesso una copertura per beneficiare dei fondi internazionali e al loro interno c’è un livello di corruzione altissimo.

Il progetto Vite Preziose con la sua struttura da sponsorship è un progetto di “adozione” a distanza di una donna afgana. Come è stato possibile realizzarlo e portarlo avanti negli anni?

Quando abbiamo iniziato, Selay Ghaffar, una delle voci democratiche più forti del Paese, oggi portavoce del Partito della Solidarietà Afghano, Hambastagi e, allora, direttrice esecutiva di Hawca, è venuta in redazione a parlare degli effetti positivi del progetto. Abbiamo poi continuato a organizzare incontri con lei e con la successiva direttrice di Hawca, in modo che gli sponsor potessero incontrale, avere notizie e scambiarsi opinioni. Questo ha rafforzato la loro adesione, sempre molto generosa, al progetto. L’Unità è stata inoltre uno strumento prezioso e un palcoscenico importante per informare gli sponsor sull’avanzamento del progetto per i quattro anni successivi. La gestione dell’intero progetto non è cosa affatto semplice, tuttavia arrivano sempre nuovi lettori e sostenitori che ci leggono e si informano sul sito del CISDA e questo lavoro mi ha permesso di conoscere una parte dell’Italia veramente meravigliosa. Anche quando l’interesse dei media si è affievolito, il loro interesse e il loro impegno è stato costante e duraturo.

Come si fa a tenere accesi i riflettori su una guerra che dura 40 anni?‏

Bella domanda. Il conflitto in Afghanistan non fa più notizia. Gli anni in cui ho collaborato con l’Unità sono stati sicuramente gli anni meglio coperti da un punto di vista comunicativo. Ogni avvenimento che succedeva a Kabul in quel periodo aveva risonanza internazionale. Adesso, invece, lo spazio dato all’Afghanistan è veramente pochissimo, si dà per scontato che ci sono dei posti nel mondo in cui divampa un conflitto e non si prova più empatia con quei popoli. La cosa assurda però è che noi siamo in quei territori con le nostre truppe da 15 anni, quello in Afghanistan non è un conflitto a noi estraneo, è una guerra in cui noi siamo parte attiva, noi siamo lì, ci sono i nostri soldi, ci sono i nostri soldati.
Oltre alla guerra in sé, poi, andrebbe fatta un’altra riflessione su quello che sta succedendo nel Paese e che ci tocca nuovamente da vicino e mi riferisco al commercio internazionale dell’eroina. La produzione del papavero da oppio in questi ultimi sedici anni, da quando vi è stata l’invasione Usa, è cresciuta a dismisura, diventando il 90% del mercato mondiale. Questo traffico è diventato il sostentamento principale dello Stato afgano, che non ha certo grandi prospettive di sviluppo se basa la sua economia su un mercato illegale. Un paese che avrebbe risorse illimitate, cosa ben nota, infatti i cinesi stanno investendo massicciamente, vive principalmente sui proventi del narcotraffico e sulle cospicue donazioni dei paesi occidentali. Ormai dell’Afghanistan non importa più niente a nessuno o meglio non importa più a nessuno dare un futuro al paese.
Si pensi alla guerra del Vietnam, in quel caso c’era una copertura mediatica indipendente eccezionale cosa che manca in Afghanistan come in Siria. È cambiata la mentalità e alla base di questa assuefazione mediatica alla guerra vi è lo stesso modo di pensare che porta alla chiusura e all’arroccamento delle Nazioni contro il fiume di migranti in fuga dalla morte.
In un momento caratterizzato da così grande egoismo io non riesco a non meravigliarmi e stupirmi del coinvolgimento e della passione che gli sponsor del progetto Vite Preziose mostrano quotidianamente. Loro non hanno avuto come noi la possibilità di vivere l’Afghanistan e quindi di affezionarsi a quel Paese ma comunque sposano la causa e partecipano empaticamente alla lotta delle donne afghane.

Qual è la risposta della società civile all’attività delle associazioni come quelle che sostenete?

La risposta della società civile all’impegno di queste associazioni sta crescendo, sono sempre di più, radicate nel territorio in cui operano e molto interconnesse con il tessuto sociale. Poi, non va dimenticato che i problemi contingenti sono enormi e, per quanto vi siano dei movimenti come il già citato partito Hambastagi, che lavora proprio nell’ottica di far crescere una coscienza politica e civile libera e informata, per la gente è difficilissimo esporsi, la paura è altissima e l’impegno quotidiano è focalizzato nel trovare il cibo per la propria famiglia o nel non morire su una mina o durante un attacco. La situazione attuale, inoltre, non è chiara come durante l’invasione russa in cui vi erano i due schieramenti ben definiti, gli invasori e la resistenza. Adesso, oltre agli invasori, vi è una miriade di gruppi armati che si fanno la guerra tra loro e che difficilmente si riesce ad inquadrare in una determinata posizione. Ci sono vari gruppi di talebani, lo Stato islamico, i signori della droga, la delinquenza comune, i militari afghani corrotti. È un puzzle confuso e intricatissimo difficilissimo da comprendere e che moltiplica la violenza.
L’attività di queste associazioni non nasce in Afghanistan bensì in Pakistan durante la fuga dalla guerra…
Molte di queste associazioni hanno iniziato la loro attività nei campi profughi. Rawa, che è nata nel 1977, ne gestiva alcuni, erano sicuramente i migliori, avevano le scuole, dei presidi sanitari e una particolare attenzione alle donne e alla solidarietà tra le persone. Inoltre, quando sono arrivati i talebani, le donne di Rawa, entravano clandestinamente in Afghanistan per sostenere le persone che erano rimaste lì e che gestivano le scuole clandestine.
In quel periodo, Rawa ci ha raccontato come avevano ripreso le lapidazioni delle donne negli stadi, un’attività di documentazione pericolosissima, fatta clandestinamente nascondendo le telecamere sotto il burqa. All’inizio, questi documenti erano stati respinti dalla stampa internazionale perché i talebani erano partner politici utili. Quando i talebani sono diventati i nemici giurati dell’Occidente, nel 2001, solo allora, questi filmati sono stati diffusi.
All’interno dei campi, singole donne o piccoli gruppi, hanno cominciato a darsi da fare per le altre donne, soprattutto con l’insegnamento. Da queste attività, in seguito, sono nate diverse ong.
Qual è la condizione dei profughi afghani nelle nazioni limitrofe?‏

La maggior parte dei profughi afghani si divideva tra Iran e Pakistan. Dall’Iran sono stati cacciati e sono rientrati nel paese diventando profughi a casa loro, i cosiddetti internally diplaced people. Adesso il numero di rifugiati interni in Afghanistan è altissimo. A Kabul vi sono numerosissimi campi profughi interni alla città. Chi aveva lasciato l’Afghanistan quando è ritornato non ha trovato la propria casa, la propria terra e non ha avuto chance di ripartire.

Come riescono queste donne a trovare la forza di andare avanti?

Sono persone semplici e straordinarie, vivono condizioni molto difficili e pericolose, ma non smettono mai di lottare per quello in cui credono, un Afghanistan libero da occupazioni straniere, democratico e laico e a mettersi in gioco per gli altri. Sono persone, di grande umanità, e anche molto simpatiche. Sono dotate di intelligenza e di ironia. Abbiamo posto spesso questa domanda e la risposta è che, nel paese in cui vivono, è necessario andare oltre la propria piccola vita personale e agire, sapendo di essere parte di qualcosa di più grande e collettivo. Della speranza del cambiamento. E’ questo a dare coraggio e forza alla loro scelta.

Saajs 300x200Donna e guerra, quanto il conflitto è un sessista?‏

Per quanto la guerra sia terribile per tutti sicuramente lo è maggiormente per le donne. La donna diventa l’ultimo anello di una catena di violenza e subisce inevitabilmente di più la ferocia di una guerra. Perché se un bombardamento è egualmente drammatico per tutti quello che viene dopo e a lato del conflitto, la violenza sessuale, il degrado, la povertà, la disoccupazione, la tossicodipendenza si tramuta inevitabilmente in un aumento della violenza, domestica e sociale, sulle donne. In Afghanistan, Il pericolo quindi non viene solo dal drone o dal talebano ma anche dal marito, dalla famiglia e da una società intera basata sull’ideologia fondamentalista che distrugge capillarmente la vita delle donne.
Gli ultimi dati dimostrano come tra le vittime civili le donne e i bambini siano i più colpiti.

Quello che ci raccontano spesso le nostre partner è che le donne hanno pochissime speranze di ottenere giustizia per gli abusi subiti. Le leggi tradizionali, fortemente misogine, possono essere tenute a freno dalle leggi di uno Stato laico che punisca i colpevoli. Il problema è che, dopo tutti questi anni di fondamentalismo, le leggi fatte a favore delle donne non vengono applicate. Il sistema giudiziario è corrotto e improntato al fondamentalismo islamico, che ha cambiato anche la mentalità delle persone. La violenza contro le donne è diventata normale e le donne non sono affatto tutelate. L’impunità è dilagante per questi crimini e questo rafforza la violenza. Così le donne continuano a essere vendute, picchiate, violentate o anche uccise

Ma è importante dire che le donne non sono solo le vittime designate, le donne sono anche combattenti, nella loro vita quotidiana come nelle azioni militari, combattenti che vanno dalle curde di Kobane, alle volontarie delle Ong che sosteniamo con il Cisda e a tutte quelle che si battono per cambiare il proprio destino.

Un’ultima domanda prima di lasciarla dopo questa lunga chiacchierata, quali sono i suoi progetti futuri?

Adesso sto lavorando ad un libro che si chiamerà “Avvocate a Kabul” e racconterà le storie di tante donne, avvocatesse e assistite, nella loro lotta quotidiana per l’affermazione dei loro diritti. Sarà la summa di questi anni di attività di Vite Preziose al fianco di Hawca.

Andrea Distefano

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