Kurdistan iracheno, dove le donne sfidano l’Isis in bicicletta
Corriere della sera Viviana Mazza 1 giugno 2016
Le atlete del club Newroz si allenano a Sulaymaniyah nel Kurdistan iracheno (Foto Alessandro Rota)
A 300 chilometri da Mosul, roccaforte dei jihadisti dove le donne sono costrette a velarsi dalla testa ai piedi e rispettare una rigida segregazione tra i sessi, le cicliste della nazionale irachena pedalano in pantaloncini per le colline di Sulaymaniyah. Mentre le forze anti-Isis conducono l’offensiva contro il Califfato, una nuvola di elmetti e tute colorate sfreccia nella città curda di un milione e mezzo di abitanti che ha mantenuto una relativa sicurezza a differenza del nord e dell’ovest dell’Iraq. Restano impassibili agli sguardi stupiti degli operai, agli scooter dei ragazzi che giocano a superarle.
Zryan Atar, 21 anni, è stata la prima a conquistare una medaglia d’oro al campionato arabo di ciclismo di strada in Algeria, nel 2014. La bici era un hobby d’infanzia — racconta al Corriere —, poi alle superiori ha partecipato a una gara, è arrivata prima e ha capito di essere brava. «All’inizio la gente mi diceva che non è uno sport per ragazze, ma non mi sono lasciata influenzare.
Voglio continuare anche dopo il matrimonio, non voglio un marito che mi impedisca di correre». La sua star è la francese Pauline Ferrand-Prévot, per come va in bici, ma anche per il suo stile. Atar sogna di diventare una campionessa ma anche una modella.
La sua compagna Suzi Dilshad è arrivata quarta al campionato asiatico del 2013. Entrambe fanno parte del club Newruz, uno dei 16 di ciclismo femminile in Iraq e al momento si allenano per le finali del campionato iracheno.
I primi club di ciclismo femminile sono nati in Iraq già negli anni Ottanta, ma non hanno mai avuto successo perché le famiglie non volevano che le figlie facessero sport fuori casa. Poi è scoppiata la guerra Iran-Iraq, le bici sono state appese al chiodo. Solo nel 2004 le cicliste hanno cominciato a viaggiare all’estero con i colori della bandiera.
Nel sud dell’Iraq è impossibile allenarsi in strada, anche con i pantaloni lunghi è rischioso. Zahraa Mohammed, di Bagdad, si è allenata in casa prima del campionato del 2014. Il Kurdistan è un’isola felice rispetto al resto del Paese (e non solo per le donne: Mahmoud Ahmed Fulayih, il coach della nazionale maschile, fu ucciso vicino alla capitale nel 2006, e oggi la squadra si allena in città più sicure a nord o sud). Ma anche a Sulaymaniyah la vista delle cicliste suscita stupore.
All’allenatore del club Newruz, Sirwan Sami, le famiglie chiedono di tutelare l’onore delle figlie più della loro vita. «Andare in bici è ancora considerato una vergogna e una stranezza nelle società orientali, ma vogliamo dimostrare che le ragazze ne hanno il diritto», ci dice al telefono. L’Italia ha candidato la bici al premio Nobel per la Pace, pensando in particolare alla squadra femminile afghana, che però è stata di recente colpita da scandali, con il coach sessantenne accusato di corruzione e di aver sposato e poi divorziato da tre ragazze del team. «Le ragazze devono infrangere le regole per poter praticare questo sport: perciò meritano assolutamente di vincere il Nobel», dice Zryar. Ma a volte anche lei vorrebbe andarsene dal Kurdistan. «Perché qui tutto è legato alla politica, anche lo sport. E io non mi sento al sicuro».
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