AFGHANISTAN DOPO GLI ATTENTATI. La guerra senza fine che potrebbe ingolfare Donald Trump.
ilsole24ore.com – di Marco Valsania, 4 giugno 2017
New York – Gli attentati in successione non danno pace all’Afghanistan, e all’America. Sono culminati in un nuovo eccidio: almeno 18 vittime e decine di feriti al funerale del figlio di un influente politico locale, rimasto paradossalmente ucciso dalla polizia durante dimostrazioni per chiedere maggiori misure di sicurezza. Protese scaturite dopo il camion bomba che solo pochi giorni prima aveva fatto strage nel centro di Kabul, dove si trovano le ambasciate internazionali.
Ma una settimana segnata dal sangue, in tutto oltre cento morti e centinaia di feriti, ha riaperto ferite anche a Washington. Ferite politiche profonde, che minacciano più di altre sfide di politica estera di mettere in discussione e in crisi lo slogan di America First sbandierato dalla Casa Bianca: l’amministrazione di Donald Trump si sta avvicinando a nuove decisioni sulla strategia da seguire in quella che, dopo sedici anni, è ormai la “guerra infinita”. Scelte che potrebbero inviare nuove truppe americane nella regione.
Il presidente sta considerando la proposta del Pentagono, autori il Segretario alla Difesa James Mattis e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale HR McMaster, di spedire un contingente stimato tra i 3.500 e i cinquemila soldati, per rafforzare le operazioni di caccia a terroristi e appoggio al governo e alle forze armate di Kabul. E in discussione e’ anche l’ipotesi di giri di vite nei confronti del Pakistan, tuttora patria rifugio di talebani e gruppi pirati da Al Qaeda, compresi nuove ondate di attacchi di droni.
La strategia è però men che condivisa dentro la stessa amministrazione. Ed è carica di incognite anche militari. Si scontra con l’anima populista del consigliere Steve Bannon oltre che con le promesse di disimpegno globale di Trump stesso, adombrando un “tradimento” della campagna elettorale. È semmai il frutto dell’ala più pragmatica e tradizionale dell’establishment, alla quale Trump sembra semmai oggi dare meno ascolto – l’esempio eclatante è lo strappo sul clima, con il quale ha snobbato anche la sua figlia e confidente Ivanka – a caccia di consensi nella sua base più radicale che pensa gli sia necessaria e sufficiente a governare. Una decisione, insomma, che rischia di alimentare spaccature e paralisi nella cerchia più ristretta della Casa Bianca.
Gli interrogativi strategici e bellici impongono ipoteche ancora più pesanti. Aggiungere cinquemila soldati portandoli a forse dodicimila appare poca cosa per cambiare i desti i del conflitto: gli americani non ci sono riusciti con oltre centomila militari. Perché a mancare di chiarezza restano gli obiettivi: Washington, sotto George W. Bush prima e sotto Barack Obama poi, ha seguito a conti fatti strade con poche variazioni. Prima una sorta di estesa operazione punitiva, poi interpretazioni di strategie anti-insurrezionali mischiate ad azioni anti-terrorismo (il succedersi di “surge” e di ritiri). Successi sono arrivati nell’eliminare leader e apparati del terrore, molto meno nel consolidare uno stato locale che si faccia baluardo contro rischi futuri nonostante grandi sacrifici di truppe e di risorse. La scarsa rilevanza strategica dell’Afghanistan, salvo che come rifugio di pericolosi militanti e estremisti, rende ancora più drammatica la scelta sull’impegno americano. Dal 2014 il ritiro di gran parte delle truppe americane in ruoli di combattimento ha cosi’ lasciato il campo all’azione di squadre speciali statunitensi e di controversi droni in una situazione, alla fine, di grave instabilità.
Il dilemma del Pakistan complica ulteriormente qualunque missione e decisione. Premere su Islamabad, militarmente o diplomaticamente, come immaginato da Trump è una pericolosa e delicata arma a doppio taglio: potrebbe scatenare dinamiche di instabilità e spirali di terrorismo in un Paese oltretutto armato fino ai denti. La crisi a Kabul appare molto meno importante alla Casa Bianca di quella di Pyongyang. Mattis ieri dall’Asia dove ha incontrato leader dell’area Cina compresa ha invocato nuove cooperazione per fermare la minaccia nucleare e missilistica della Corea del Nord. Ha chiesto ancora a Pechino di fare di più, pur alzando la pressione contro la politica cinese di militarizzare le isole artificiali nel conteso Mar cinese meridionale. Ma qui le strade, al di la’ della retorica, appaiono poche e obbligate: le opzioni miliari sono inesistenti, e quella politiche passano per la Cina e la Corea del Sud. A Kabul potrebbero invece essere in gioco, ben presto, le vite di migliaia di soldati americani oltre a quelle della popolazione afgana senza un esito in vista. E con Trump e la sua America First nelle sabbie mobili della guerra senza fine.
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