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Afghanistan, gli americani bombardano le aree pashtun del sud

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di Emanuele Giordana, Il Manifesto

800px Afghanistan.valley.view 300x200C’è un altro fronte di scontro tra russi e americani in Asia. Un fronte nascosto e dimenticato ma dove la guerra infuria con continuità e, per numero di decessi, più di prima. È il fronte afgano, la porta che dal Medioriente e dall’Asia centrale arriva al subcontinente indiano. Un fronte di guerra che l’anno scorso ha contato 11mila vittime civili e dove si sta assistendo a un’escalation dei bombardamenti americani nel Sud e alla possibilità che Trump, in campagna elettorale favorevole al ritiro, aumenti le truppe nel Paese. Come anche il governo di Ashraf Ghani gli chiede.

L’Afghanistan fu terreno di scontro durante il «Grande Gioco» tra Impero zarista e Inghilterra nell’800 e divenne il confine  guerreggiato durante la Guerra Fredda quando l’Urss invase l’Afghanistan e gli Usa armarono, con sauditi e pachistani, l’armata mujaheddin: i primi «combattenti della fede» manovrati anche dall’Occidente come da lì a poco sarebbe avvenuto anche per la guerra in Bosnia.

I sovietici lasciarono l’Afghanistan con le ossa rotte nel 1989, dopo 10 anni e migliaia di morti, poco prima che la Perestrojka desse il colpo di grazia all’Unione delle Repubbliche socialiste. L’Afghanistan fu il detonatore di una crisi profonda e la carta che Washington aveva giocato, assieme a molte altre, per combattere i comunisti nel mondo. Poi fu la volta degli americani. Dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001, prima gli Stati uniti e poi la Nato (quindi ancora gli Usa), presero il controllo del Paese per far presto i conti con le tribù afgane adesso col turbante nero dei talebani.

Mosca intanto si era ritirata dalla scena, alle prese con la ricomposizione di un impero ormai spezzettato. Se aveva perso l’Afghanistan, Mosca stava soprattutto perdendo influenza in Asia centrale e nel Caucaso dove, oltre alla protesta islamista, c’era da far i conti con la perdita di giacimenti di gas e petrolio, cotone, minerali.

 

Ma da allora ecco che Mosca ricomincia a occuparsi del piccolo Paese crocevia perché le preoccupazioni crescono. Sul fronte afgano ci sono almeno tre grossi problemi: la presenza di truppe Nato e soprattutto il controllo delle basi aeree afgane da parte degli Usa, una cintura pericolosa sul suo lato sudorientale. Il narcotraffico, che porta in Russia vagoni di eroina. Lo Stato Islamico, che ha creato una testa di ponte sui porosi confini tra Afghanistan e Pakistan.

Gli americani e la Nato hanno deciso di lasciare? Bene, è il momento di farsi avanti. A Kabul c’è ancora Karzai e Mosca fa le prime avance. Regali, offerte di training militare, aiuti economici. È un avvicinamento lento portato avanti dall’ambasciata a Kabul e dall’inviato speciale Zamir Kabulov.

Kabulov conosce il Paese: ci ha lavorato dal 1983 all’87 come secondo segretario d’ambasciata (e, per gli americani, come spia del Kgb) e poi è stato ambasciatore a Kabul sino al 2009. È un uomo che ha conosciuto mullah Omar e ha trattato con lui, nel 1995, per il rilascio di prigionieri russi. La carta da giocare è diplomatica.

Mosca organizza un incontro in Russia sul futuro dell’Afghanistan ma non invita né Kabul né Washington. Intanto tratta coi talebani. E mentre i comandanti americani e afgani cominciano ad accusare Mosca di vendere armi alla guerriglia, la Russia organizza per il prossimo 14 aprile una nuova conferenza internazionale cui invita Kabul, Teheran, Islamabad, Pechino, Delhi e le repubbliche centroasiatiche. Fa la sua offerta anche a Washington che declina l’invito. I nervi sono tesi anche se quel fronte sembra apparentemente ininfluente e lontano. La conferenza si svolgerà proprio mentre il segretario di Stato Usa Tillerson sarà Mosca.

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