Afghanistan, schiaffo al patriarcato. La regista: «Porto Kabul agli Oscar»
Viviana Mazza 8 dicembre 2017 corriere.it
A Kabul è notte fonda quando la regista Roya Sadat risponde al cellulare. «Sto girando una scena – dice -, ma di notte non ti puoi rilassare, non sai cosa può succedere». Dopo la caduta dei talebani, la 34enne Sadat è diventata la prima regista donna dell’Afghanistan. Ci sono voluti altri sedici anni ma ora spera di vincere l’Oscar per miglior film straniero con il suo primo lungometraggio, Lettera al Presidente, candidato per l’Afghanistan.
Una prima vittoria l’ha già avuta. Quando il suo film è apparso sugli schermi del cinema Ariana di Kabul, un paio di mesi fa, molte famiglie sono venute a vederlo, racconta la regista al Corriere: un evento assai insolito. I talebani bombardarono i cinema, quello di Herat — la città natale di Roya — fu trasformato in moschea e adesso è un ufficio dei trasporti. «Nella capitale ce ne sono quattro-cinque, ma nelle grandi città come Herat, Kandahar, Mazar-i-Sharif non esistono più.
Prima dei talebani non avevamo donne registe, ma c’era un’industria cinematografica, e andare a vedere un film era parte della vita della gente. Ma è ormai da due-tre generazioni che si è persa questa tradizione. Ora il pubblico è solo maschile, è una questione culturale. Le pellicole per lo più sono pachistane, stile-Bollywood, ma più scadenti, dove non si fa altro che sparare e ballare».
La regista vuole cambiare la mentalità, un film per volta. La protagonista di Lettera al Presidente è una detective della polizia afghana di nome Soraya – come Roya madre di due figli – ma quando torna a casa subisce le percosse di un marito che vuole controllarla.
In una scena, lui schiaffeggia Soraya con violenza, ma la donna non si piega, non scappa: gli risponde, con uno schiaffo più forte. «In quel momento il pubblico in sala è esploso in un applauso», racconta Roya. «Quello schiaffo era una risposta a tutte le ingiustizie subite dalle donne nel nostro Paese», continua la regista, spiegando che la società patriarcale afghana opprime spesso le più povere, ma anche le più emancipate, anche coloro che lavorano in ruoli importanti.
Peccato che dopo sette giorni, le proiezioni all’Ariana siano state sospese per problemi di sicurezza. «Qui in Afghanistan non c’è produzione nè distribuzione, ma il problema più grande per i registi è la sicurezza, specialmente dopo il ritiro di molte forze straniere nel 2014. Così molti giovani cineasti se ne sono andati. Ma io voglio dimostrare che possibile continuare a fare film».
Roya ha iniziato a scrivere sceneggiature per il teatro a nove anni; ha continuato segretamente sotto i talebani (lei e le amiche recitavano in ospedale, unico luogo dove alcune potevano lavorare in quanto solo le donne potevano curare altre donne). Nel 2003 ha creato la casa cinematografica «Roya Film House» nella cantina di casa, con la sorella 27enne Alka (che ha anche avuto una borsa da Fabrica, il centro per la comunicazione di Benetton). Nel 2010 si è aggiunto il marito Aziz Dildar, professore universitario di teatro: si sono conosciuti sul set di una serie che Roya girava per Moby Group, network televisivo afghano. Con Aziz, che ora scrive le sceneggiature, hanno due figli, un maschio di 5 anni e una femmina di 3 (mentre parliamo al telefono, litigano, costringendo Roya di tanto in tanto a sospendere la conversazione).
Ci sono voluti sette anni per girare Lettera al Presidente. Non trovando una casa di produzione interessata, la regista e il marito hanno deciso di investire i propri risparmi. La scorsa estate lo hanno presentato in anteprima al festival di Locarno. Ora aspettano di vedere cosa accadrà agli Oscar. Nel frattempo continuano a filmare. L’ultimo loro progetto è «la storia di cinque ragazzi e delle loro famiglie: persone con opinioni e ideologie diverse, ma che cercano di capirsi gli uni con gli altri. È un tentativo di affrontare la questione del fondamentalismo. E del cambiamento che i giovani possono portare».
Roya ha paura del ritorno dei fondamentalisti al potere in un Paese dove, nonostante i tanti soldi piovuti dopo la cacciata dei talebani, i cambiamenti hanno avuto scarso impatto, perché non venivano dall’interno della società. È con il cinema che combatte la sua battaglia.
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