Afghanistan, una guerra ravvivata dai droni
Dal blog di Enrico Campofreda – 15 Marzo 2017
Della cosiddetta “guerra al terrore”, lanciata dal W. Bush jr addirittura nelle ore seguenti agli sconvolgenti attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono, l’Afghanistan è stato il laboratorio principe. Dopo sedici anni e dopo il ritiro da quel territorio di gran parte delle truppe Nato di terra, il laboratorio è sempre aperto. Il conflitto prosegue con altri mezzi, soprattutto i decantati droni, per i quali Washington ha approntato otto basi aeree attrezzate (Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e Sharif, Jalalabad, Khost) e spende cifre astronomiche.
È stato il premio Nobel alla pace 2009 Barack Obama a lanciare con decisione la nuova frontiera del conflitto, mentre ipocritamente divulgava la linea dell’exit-strategy. L’ultimo lavoro di un network di ricercatori sulle vicende afghane, rifacendosi anche a notizie diffuse sul Military Times, riferisce che gli stessi dispacci del Pentagono non rivelano il numero dei voli effettuati in questi anni, si parla solo di veicoli impiegati e ordigni sganciati. Per il 2016 utilizziamo i dati offerti dall’Unama: rivelano come gli attacchi tramite droni siano stati 615 su 1017 assalti complessivi che comprendono anche i caccia. I droni usati sono i MQ-1Predator XP e Reaper, mentre il modello MQ-1 Gray Eagles, è impiegato nelle perlustrazioni, ma non è tuttora dotato di missili.
A gestire i gioiellini dell’industria bellica General Atomic di San Diego, è naturalmente l’Us Air Force, assieme alla Joint Special Operations Command, l’organismo pianificatore delle operazioni speciali statunitensi, simili per intenderci alla cosiddetta ‘Neptune Spear’ che nel maggio 2011 ha eliminato Osama Bin Laden. La Cia ha uno stretto rapporto con questa struttura, si può ben dire che le liste di killeraggio vengano compilate direttamente a Langley.
Tali operazioni, tuttora massicce nelle aree tribali verso il confine pakistano (Fata) nonostante il governo di Islamabad si lamenti delle distruzioni che producono fra la popolazione civile, risultano anche ad occhi esperti solo parzialmente mirate. Lo conferma un ex collaboratore di pubblicazioni militari statunitensi negli ultimi tempi passato alla Reuters. In base a quanto appreso, o direttamente constatato, i “piloti” nelle basi afghane presiedono le operazioni di decollo e atterraggio, gli attacchi e i colpi mirati delle esecuzioni vengono decisi ed esplosi a decine di migliaia di chilometri di distanza, nei centri operativi statunitensi. La ‘gola profonda’ rivela che il principale hub è la base di Creech Air Force, in Nevada, cui s’appoggiano altre stazioni locali. Mentre quella storica di Clovis (New Mexico), Cannon Air Force Base, che ha nutrito bombardieri dalla Seconda guerra mondiale, passando per il Vietnam, s’interessa delle missioni di Air Force Special.
Di esplosivo nella notizia ci sono i missili che stracciano vite di inermi civili, i famosi “danni collaterali”, citati negli annunci paramortuari dei portavoce del Dipartimento della difesa statunitense. Per mancanza di dati certi, secretati dall’Aviazione Usa, è difficile distinguere le morti civili provocate da droni da quelle causate da aerei da combattimento. Esperti affermano che la capacità del drone di restare a lungo in volo può favorire la ricerca dell’obiettivo mirato, escludendo altri bersagli. Eppure uno studio compiuto fra il 2010 e il 2011 dall’Unama ha mostrato che i droni provocano più feriti di altri attacchi.
Anche recentemente l’aumento delle attività di controllo dal cielo, da parte americana e governativa, non ha diminuito il numero dei civili uccisi, anzi. Proprio l’anno scorso si è registrato un sensibile aumento dei “danni collaterali” dal 2009, il 40% dei ferimenti è attribuito ad azioni congiunte di droni più aerei (la fonte è sempre l’Agenzia Onu). Analisti militari sostengono che gli errori stanno crescendo per scarsità di lavoro di Intelligence, ma c’è chi pensa che questo sia solo un alibi. Lo dimostrerebbero episodi come l’attacco all’ospedale di Medici senza frontiere nell’area di Kunduz, dell’ottobre 2015. I terribili bombardieri americani sapevano chi colpivano, e hanno continuato a farlo.
Un’altra ricerca, stavolta dell’Università di Durham, che ha inviato a proprio rischio e pericolo propri addetti in due distretti della provincia di Nangahar, ha invece riscontrato una voluta tolleranza alla presenza di droni. Infatti la locale etnìa pashtun è vicina alle posizioni del governo Ghani e vede di buon occhio il tiro a segno dall’aria contro talebani, Daesh ed elementi filopakistani. Peccato che nell’enfasi della battaglia gli abitanti dei villaggi possono diventare essi stessi bersagli.
Quest’ultimi si trovano fra il fuoco statunitense dal cielo e quello taliban da terra, visto che i resistenti cercano di sradicare dal territorio la popolazione impaurendola con attentati. La zona attorno a Jalalabad (centrorientale) riscontra attualmente una situazione simile a quella delle aree tribali pakistane, collocate appena più a sud. C’è un’ampia frammentazione dell’opposizione armata, diversi clan sono in contrasto fra loro, e questa situazione ha fatto sorgere sigle che si richiamano all’Isis. Ma proprio l’ampliamento del programma dell’attacco coi droni, che lì esordì nel 2004 contro la componente qaedista, mostra un contradditorio esito: parecchi miliziani e leader sono stati colpiti, però fra la popolazione giovanile è anche cresciuta l’adesione al combattentismo. E quest’ultimo s’è fortemente radicalizzato, come mostra la storia dei Tehreek Taliban. Questione già trattata, ma torneremo sul tema.
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