INSEGNATE LORO A COMBATTERE L’OPPRESSIONE.
Letteradonna – 11 luglio 2017
L’Afghanistan è il peggior posto al mondo per una donna. Di storie spiacevoli ne sentiamo molte, troppe, da sempre. Perciò stupisce un poster come quello recentemente comparso nelle strade del Paese. «È il momento di studiare e non del matrimonio. Dite no al matrimonio delle bambine», recita il manifesto immortalato dal giornale online Yjr.
Espressioni che a noi sembrano più che ovvie, ma che in una realtà come quella sono un oltraggio alla cultura patriarcale. Una cultura sicuramente pronta ad alzare le barricate davanti a un messaggio del genere. D’altronde le associazioni che operano per i diritti parlano chiaro.
Secondo Human Rights Watch, ad esempio, l’85% delle donne sono private dell’istruzione minima, e le conseguenze non sono indifferenti. Senza poi dimenticare la scarsa assistenza medica che fa sì che una madre ogni due ore muoia di parto.
O le violenze che continuano a crescere insieme con omicidi e suicidi. Ciò che succede in Afghanistan arriva soltanto in minima parte in Occidente, le stime infatti vanno prese con le pinze. Quando nei report si parla di aumento delle violenze bisogna considerare che ad incrementare in realtà sono le informazioni che siamo mano a mano in grado di raccogliere.
Invece l’oppressione è una realtà statica che condanna da sempre le donne a segregazione e soprusi. La svolta può quindi arrivare solo se supportata da un serio impegno politico interno e da un cambiamento di valori sociali. Perciò qualsiasi piccolo gesto, come il messaggio lanciato dal poster, apre uno spiraglio di speranza perché per migliorare la condizione femminile locale non c’è altro modo se non quello di partire dal basso, dall’educazione.
LE REGOLE DELLA SUBORDINAZIONE
Di istruzione si può parlare a lungo, ma finché i precetti a cui le donne islamiche devono attenersi non vengono messi in discussione la scuola rimane una piccola concessione, che non incide sulla loro vita. Relegate al lavoro domestico (ogni attività fuori dalle mura di casa è considerata blasfema) e costrette a nascondersi dietro ad un velo: la sottomissione è il loro pane quotidiano. Attenzione, non si tratta di un attacco alla religione, che di per sé non è responsabile della situazione, ma di una più ampia considerazione sulla segregazione sociale.
La vita di una fondamentalista è rigidamente scandita: dai sette ai nove anni dovrebbe imparare le lingue religiose, dai 10 ai 12 approfondire i temi legati al matrimonio e dai 13 ai 15 studiare la legge e darsi da fare coi lavori manuali. Secondo queste ‘linee guida’ religiose dai nove anni ci si può sposare, ma come sappiamo purtroppo esistono casi spaventosamente più precoci.
Inoltre per rispettare la fatwa (l’insieme di regole dettate dalle autorità religiose) una donna deve tenere a mente che il sapere per lei deve essere esclusivamente religioso: non le è concesso imparare materie che non si riferiscano alla spiritualità. Insomma allargare i propri orizzonti è solo una prerogativa maschile. Questo crea un circolo vizioso perchè l’unica via per sviluppare una vera consapevolezza passa per i libri: senza l’istruzione a rompere la catena che tramanda di madre in figlia le regole oppressive la loro vita è condannata a consolidare e, in molti casi a giustificare, il maschilismo nella società.
NIENTE SCUOLA, MATRIMONIO
Cucinare, prendersi cura dei figli, essere brave mogli. Questo è ciò che viene chiesto a chi ha la sfortuna di nascere femmina. E la politica non sembra davvero interessata al problema. In parlamento infatti molti deputati hanno fatto ostruzione al progetto Elimination of Violence Against Women (EVAW). Il loro obiettivo è emendare la proposta di legge fino ad eliminare un passaggio cruciale: l’innalzamento dell’età del consenso (se di consenso si può parlare nel caso afghano) al matrimonio. Oggi legalmente è fissata a 16 anni, ma come abbiamo visto molti si rifanno alle indicazioni della fatwa. Tutt’altro discorso invece per i ragazzi che devono invece aspettare i 18 anni.
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