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La denuncia. Joya, tutti i mali dell’Afghanistan

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di Emanuela Zuccalà€, Avvenire

Ingiustizia, corruzione, fondamentalismo, violenza contro le donne, ma anche «le bugie di Usa e Nato per continuare a testare armi sulla nostra terra»: parla l’attivista clandestina da dieci anni.

Joya 300x201I suoi occhi si velano di lacrime trattenute quando parla del figlio di quattro anni, affidato al marito e alla nonna in un punto dell’Afghanistan che non si può rivelare. «Una volta al mese vado da lui, viaggiando nascosta sotto un burqa: è il pensiero del suo futuro a darmi forza». Malalai Joya è stata definita dalla Bbc «la donna più coraggiosa dell’Afghanistan», e paragonata da un gruppo di premi Nobel per la Pace all’icona della non violenza Aung San Suu Kyi. Attivista per i diritti civili, 39 anni, vive in clandestinità dal 2007, quando fu espulsa dal Parlamento afghano (era la più giovane deputata mai eletta nel Paese) per aver accusato di crimini contro l’umanità molti suoi colleghi di scranno.

Già nel 2003, delegata alla Loya Jirga, l’assemblea per approvare la Costituzione, questa donna minuta e tenace denunciava davanti alle telecamere la scandalosa presenza dei signori della guerra. Diventava così un simbolo per le forze progressiste in una terra stremata da conflitti infiniti, droga, povertà, attacchi terroristici – il più sanguinoso il 31 maggio nel cuore di Kabul, rivendicato dal Daesh, con novanta morti e centinaia di feriti -, violazione sistematica dei diritti umani. Malalai Joya riceve continue minacce di morte: «Hanno cercato di uccidermi sette volte», ci racconta durante un viaggio in Italia, ospite dell’associazione Cospe e della rete ‘In difesa Di – Per i diritti umani e chi li difende’, che riunisce trenta organizzazioni della società civile. «Sono qui per chiedere alla comunità internazionale: non dimenticate l’Afghanistan».

Chi vuole metterla a tacere?

«I fondamentalisti al potere. Il regime ha paura della società civile che si mobilita, vuole mantenere la gente nell’ignoranza mentre io mi batto per l’istruzione, chiave di ogni progresso, e ho denunciato il furto sugli investimenti stranieri per le scuole. E poi i talebani nelle aree rurali. Nella mia provincia, Farah, hanno persino un bazar dove smerciano droga e armi alla luce del sole. Di recente, mentre andavo a un incontro segreto in un villaggio, una bomba ha distrutto il ponte su cui stavo per passare».

 

Lei non risparmia critiche nemmeno agli Stati Uniti e alla comunità internazionale.

«In Afghanistan, dal 2001, i governi occidentali appoggiano un regime fantoccio e mafioso. La lotta al terrorismo è una bugia di Usa e Nato per continuare le loro guerre e testare armi sulla nostra terra: dalle bombe a grappolo alla ‘madre di tutte le bombe’, che ha provocato malformazioni nei bambini nati in quel periodo. So che l’uscita delle truppe straniere non porterà la pace, non sono stupida, ma almeno il popolo afghano si libererebbe di uno dei suoi numerosi nemici. Basti pensare che la produzione di droga non è mai stata tanto fiorente come oggi».

Come riesce a svolgere il suo attivismo vivendo in clandestinità?

«Cambio spesso alloggio e telefoni e mi nascondo sotto un burqa, che è un simbolo di oppressione femminile, ma a me dà libertà di movimento. Incontro le forze progressiste che organizzano proteste e conferenze, e la gente comune che mi supporta, ma non posso apparire pubblicamente. Da ragazza, quando vivevo nei campi profughi in Pakistan, insegnavo alle donne a leggere e scrivere: ogni tanto lo faccio ancora, poiché le donne sono le più vulnerabili nella nostra società».

Dopo la caduta dei talebani la condizione femminile non è migliorata?

«No: per i fondamentalisti al potere, il posto di una donna è la casa o la tomba. Nella provincia di Herat, nell’ultimo anno, 700 donne hanno tentato il suicidio perché non tolleravano più le violenze domestiche: 33 sono morte. Due anni fa a Kabul, una 27enne di nome Farkhunda è stata accusata di aver bruciato un Corano e linciata sotto gli occhi della polizia e delle truppe straniere. E Shakila, 16 anni, stuprata e uccisa da un membro del Consiglio provinciale di Bamyan. Ho aiutato i familiari a denunciare, ma il fratello dell’assassino era un parlamentare, che ha corrotto il tribunale facendolo assolvere. Una tragedia che racchiude tutti i mali dell’Afghanistan: ingiustizia, corruzione, povertà, violazione dei diritti umani, violenza di genere».

Eppure avete quota rosa in Parlamento e un ministero per i Diritti delle donne. Solo un’operazione di maquillage?

«Esattamente. Le donne deputate sono fantocci dei partiti e non muovono un dito per l’emancipazione femminile. Alcune mi hanno minacciata apertamente».

Qual è l’obiettivo finale della sua protesta?

«Sono tanti. La consapevolezza politica della popolazione. L’istruzione, perché un popolo analfabeta non può rivendicare diritti. Sto anche costruendo scuole in zone rurali: voglio vedere in ogni angolo del Paese scuole, computer, corsi di tecnologia. Voglio che le nostre figlie non abbiano più paura di essere rapite e stuprate. Voglio libertà, cibo, pace. E soprattutto giustizia: sto raccogliendo documenti sui signori della guerra per portarli alla Corte dell’Aia. Gulbuddin Hekmatyar, per esempio: il ‘macellaio di Kabul’, che dal 2001 guidava una sanguinaria fazione ribelle, fino a ieri sulla lista nera dell’Onu e latitante, a inizio maggio è stato accolto dal presidente come mediatore di pace. Sono scempi sui quali il nostro popolo piange ogni giorno».

In mezzo a tanto dolore, c’è stato un momento felice per lei?

«Due sorelline volevano studiare, ma il padre si opponeva. Mi hanno chiesto di convincerlo e lui s’è fidato di me mandando le figlie a scuola. È stato un giorno speciale. Come quando riesco a dare una piccola speranza ai parenti di ragazzi uccisi, che non hanno neanche un cadavere su cui piangere, eppure mi abbracciano dicendomi: ‘Vai avanti’».

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