Quelle vittime che sorridono
di Roberto Saviano
Da: espresso.repubblica.it – 26 giugno 2017
La triste verità dei nostri tempi è che se non esiste una fotografia come prova di un avvenimento, è difficile pensare che sia accaduto davvero. Senza immagini non si comunica nulla, nemmeno la morte. Stentiamo a credere che una bomba sia esplosa con la drammaticità che i superstiti raccontano, se non vediamo immagini di morte che poi saranno utilizzate come simbolo di lutto e atrocità.
E soprattutto se non guardiamo in faccia i protagonisti della tragedia, ovvero i morti, ma dobbiamo guardarli quando erano in vita, nei ritratti che magari, in un momento di felicità, avevano pubblicato sui loro social. Quello che colpisce la nostra sensibilità più di ogni altra cosa, con riguardo non solo agli attentati terroristici ma anche alle sciagure degli ultimi anni (i terremoti che hanno devastato il centro Italia, l’incendio alla Grenfell Tower di Londra), è poter guardare negli occhi le vittime.
Volti spesso sorridenti che noi osserviamo sconvolti sapendo che qualcosa di tragico e improvviso ha posto fine a quelle esistenze. Un camion in corsa, un piccolo commando di folli armati di coltelli di ceramica viola, una bomba devastante. Ma anche un incendio o un terremoto.
Guardiamo negli occhi uomini, donne, bambini, adolescenti e ci sentiamo partecipi di quel lutto, un lutto che sentiamo vicino e che finisce per riguardarci.
Spesso ci vengono raccontate le storie delle persone che non ci sono più. Storie di emigrazione o di anni passati a lavorare per coronare un sogno sfumato in un attimo. Accanto ai volti delle vittime ci sono poi quelli dei carnefici. Volti familiari quelli delle vittime, pelle olivastra i carnefici, capelli nerissimi, in loro stranamente non ci riconosciamo.
Noi contro loro, anzi loro contro noi: come è possibile non capire che questa è l’informazione che passa e questa è la sensazione che resta? Gli occidentali vittime dei loro invasori. Foto gettate in pasto a chi spesso non aspetta altro che conferme: vengono a prendere i nostri soldi e il nostro lavoro e poi ci ammazzano anche. E i volti delle vittime finiscono per catalizzare tutto: paura, tristezza, frustrazioni. Sei in pena per un figlio che vive lontano? La foto dei ragazzi che hanno perso la vita nell’incendio di Londra acuisce quella pena, aggiunge precarietà alla vita, ci fa sentire insicuri per le scelte che noi e chi ci è accanto compie. E più la sofferenza non ci appartiene, più è una sofferenza indotta, più ci radicalizziamo anche noi: niente di pratico da gestire, un funerale, una mancanza reale, solo dolore da provare. E così accade che l’immedesimazione in chi soffre per una perdita, che potrebbe sembrare tutto sommato un meccanismo innocuo e nobile, diventa la scintilla per sentimenti che di nobile hanno poco. E in quelle vittime così uguali a noi, ai nostri amici, ai nostri familiari, immedesimarsi è un attimo.
Il 31 maggio a Kabul è esploso un camion bomba che se fossi un bambino penserei all’impatto di un asteroide. L’esplosione è avvenuta alle 8.25 nella zona di Wazir Akbar Khan, dove hanno sede organizzazioni internazionali e ambasciate. Sono morte 150 persone e 500 sono rimaste ferite. È stato uno dei più tremendi attentati degli ultimi anni. Chi ha sentito di questo attentato al più ha visto la foto del cratere, ma nessuna foto delle vittime. Nessun volto sorridente preso da Facebook e nessuna storia raccontata perché si potesse provare empatia. Qualche vittima la conosciamo, ma solo perché si tratta di locali che avevano rapporti con occidentali. L’autista della Bbc Mohammed Nazir e un impiegato del canale televisivo ToloNews, Aziz Navin. Per il resto sappiamo che si trattava di civili e che tra questi c’erano anche bambini. Nulla di più.
Il giorno prima a Baghdad erano esplose due bombe. La prima davanti a una delle gelaterie più frequentate della città all’ora in cui, tramontato il sole, i bambini con le loro mamme si concedevano un gelato. La seconda all’ente centrale delle pensioni. Vecchi e bambini, questo era il messaggio: nessuno è al sicuro. E noi qui di questi morti non sappiamo nulla. Nessun nome, nessun volto sorridente. Resta qualche foto, ma solo oggetti: una panchina di ferro verde, coppette di gelato fucsia sparse a terra, gelato sciolto mischiato a sangue. Un cappello, dei sandali. Nessuna storia. Nessun nome. Non ci riguarda.
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