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Rapporto annuale 2016-2017 / Medio-Oriente e Africa del Nord: Afghanistan

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Amnesty International, Rapporto Annuale 2016/2017.

Copertina Rapporto 2016 2017 600x825 3 150x150Repubblica Islamica dell’Afghanistan

Capo di stato e di governo: Mohammad Ashraf Ghani Ahmadzai

L’intensificarsi del conflitto ha provocato diffuse violazioni dei diritti umani e abusi. Migliaia di civili sono stati uccisi, feriti o sfollati a causa delle violenze, mentre la costante insicurezza ha limitato l’accesso a istruzione, sanità e altri servizi. I gruppi armati d’insorti si sono resi responsabili della maggior parte delle vittime civili, ma anche le forze filogovernative hanno ucciso e ferito civili. Le forze antigovernative e quelle filogovernative hanno continuato a usare minori come combattenti. Il numero di sfollati si è attestato a 1,4 milioni (più del doppio rispetto al 2013), mentre circa 2,6 milioni di rifugiati afgani vivevano fuori dal paese, molti in condizioni deplorevoli.

È perdurata la violenza contro donne e ragazze ed è stato rilevato un aumento di punizioni pubbliche di donne da parte di gruppi armati, anche con esecuzioni e fustigazioni. Attori statali e non statali hanno continuato a minacciare i difensori dei diritti umani e a impedire loro di svolgere il proprio lavoro; i giornalisti hanno affrontato violenze e censura. Il governo ha continuato a effettuare esecuzioni, spesso dopo processi iniqui.

CONTESTO

A gennaio, i rappresentanti di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati Uniti hanno tenuto colloqui su una road map per la pace con i talebani. A gennaio si è svolta una conferenza a Doha, alla presenza di 55 partecipanti di alto livello provenienti da diversi contesti a livello internazionale, tra cui i talebani. In quell’occasione, una delegazione della commissione politica dei talebani con sede a Doha ha ribadito che un processo di pace formale sarebbe potuto iniziare solo dopo che le truppe straniere avessero lasciato il paese. Ha inoltre posto altre precondizioni, tra cui la cancellazione dei nomi dei leader talebani dalla lista delle sanzioni delle Nazioni Unite.

A febbraio, il presidente Ghani ha nominato ministro della Giustizia il noto avvocato per i diritti umani Mohammad Farid Hamidi, mentre il generale Taj Mohammad Jahid è stato nominato ministro dell’Interno. Il presidente Ghani ha creato un fondo per sostenere le donne sopravvissute alla violenza di genere, al quali i membri del governo hanno contribuito versando il 15 per cento del loro stipendio di febbraio.

A marzo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato per un altro anno il mandato della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UN Assistance Mission in Afghanistan – Unama); il Segretario generale delle Nazioni Unite ha nominato Tadamichi Yamamoto come rappresentante speciale dell’Unama.

Dopo anni di negoziati di pace tra il governo e Hezb-i-Islami, il secondo più grande gruppo di insorti del paese, il 29 settembre il presidente Ghani e Gulbuddin Hekmatyar, alla guida del gruppo, hanno firmato un accordo di pace che concedeva a quest’ultimo e ai suoi combattenti l’amnistia per presunti crimini di diritto internazionale e permetteva il rilascio di alcuni prigionieri di Hezb-i-Islami.

L’instabilità politica è aumentata tra le crescenti spaccature all’interno del governo di unità nazionale, tra i sostenitori del presidente Ghani e quelli del capo dell’esecutivo Abdullah Abdullah. A ottobre, l’Eu ha organizzato una conferenza internazionale di donatori per sostenere economicamente l’Afghanistan nei prossimi quattro anni. La comunità internazionale ha promesso circa 15,2 miliardi di dollari Usa per aiutare l’Afghanistan in settori quali la sicurezza e lo sviluppo sostenibile. Poco prima della conferenza, l’Eu e l’Afghanistan hanno sottoscritto un accordo che permette l’espulsione di un numero illimitato di richiedenti afgani che non hanno ottenuto l’asilo, nonostante il peggioramento della situazione della sicurezza nel paese.

Sono stati espressi timori per la progressiva crisi economica, dovuta alla diminuzione della presenza internazionale nel paese e all’aumento della disoccupazione.

A settembre e ottobre, i talebani hanno improvvisamente aumentato gli attacchi nel tentativo di conquistare grandi province e città. A ottobre si sono impadroniti di Kunduz: durante l’operazione sono state tagliate le forniture di energia elettrica e di acqua, gli ospedali hanno esaurito i farmaci ed è aumentato il numero delle vittime civili. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (United Nations Office for Coordination of Humanitarian Affairs – Unocha) ha registrato circa 25.000 sfollati interni nel giro di una settimana da Kunduz, in fuga verso la capitale Kabul e i paesi limitrofi.

 

CONFLITTO ARMATO

Nei primi nove mesi del 2016, l’Unama ha documentato 8.397 vittime civili nel contesto del conflitto (2.562 morti e 5.835 feriti), di cui un terzo erano bambini. Secondo l’Unama, le forze filogovernative, tra cui le forze di sicurezza nazionale, la polizia locale afgana, i gruppi armati filogovernativi e le forze militari internazionali si sono rese responsabili di quasi il 23 per cento dei casi.

L’Unama ha documentato almeno 15 episodi, occorsi nella prima metà del 2016, in cui forze filogovernative hanno condotto perquisizioni in ospedali e ambulatori, ritardato o impedito la fornitura di materiale sanitario o utilizzato le strutture sanitarie per scopi militari, con un forte aumento rispetto all’anno precedente.

Il 18 febbraio, uomini con l’uniforme dell’esercito nazionale afgano sono entrati in un ambulatorio del villaggio di Tangi Saidan, nella provincia di Vardak, controllato dai talebani. L’Ngo svedese che gestiva l’ambulatorio ha dichiarato che gli uomini hanno picchiato il personale e ucciso due pazienti e un quindicenne che assisteva un malato. La Nato ha avviato un’indagine sull’episodio; a fine anno non era ancora stato reso pubblico alcun aggiornamento.

Non sono state avanzate accuse penali contro i responsabili di un attacco aereo delle forze statunitensi, avvenuto nell’ottobre 2015 contro un ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz, che ha provocato la morte e il ferimento di almeno 42 persone tra lo staff e i pazienti, anche se circa 12 militari americani hanno subìto sanzioni disciplinari. A marzo, il nuovo comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan ha presentato le scuse ufficiali alle famiglie delle vittime.

VIOLAZIONI DA PARTE DI GRUPPI ARMATI

I talebani e altri gruppi di insorti armati si sono resi responsabili della maggior parte delle vittime civili, circa il 60 per cento, secondo l’Unama.

Il 3 febbraio, i talebani hanno ucciso un ragazzo di 10 anni mentre andava a scuola a Tirin Kot, nell’Uruzgan meridionale. Si ritiene che gli abbiano sparato perché aveva combattuto i talebani in precedenti occasioni al fianco dello zio, un ex comandante talebano che ha cambiato bandiera ed è diventato un comandante della polizia locale.

Il 19 aprile, a Kabul, militanti talebani hanno attaccato una squadra di sicurezza responsabile della protezione di funzionari governativi di alto livello, uccidendo almeno 64 persone e ferendone 347. È stato il più grave attacco dei talebani in un’area urbana dal 2001.

Il 31 maggio, militanti talebani che si fingevano funzionari del governo hanno rapito circa 220 civili, in un finto posto di blocco lungo l’autostrada Kunduz-Takhar, nei pressi di Arzaq Angor Bagh, nella provincia di Kunduz. Hanno ucciso 17 civili, mentre gli altri sono stati poi messi in salvo o rilasciati. L’8 giugno, almeno altre 40 persone sono state rapite e altre uccise nella stessa zona.

Il 23 luglio, un attacco suicida rivendicato dal gruppo armato Stato islamico (Islamic State – Is) ha causato la morte di almeno 80 persone e il ferimento di oltre 230, nel corso di una manifestazione pacifica della minoranza hazara a Kabul.

Il 12 agosto, tre uomini armati hanno attaccato l’università americana di Kabul, uccidendo 12 persone e ferendone circa 40, per lo più studenti e insegnanti. Nessuno ha rivendicato la responsabilità dell’aggressione.

L’11 ottobre, l’Is ha condotto un attacco coordinato contro un folto gruppo di partecipanti a un rito funebre, in una moschea sciita di Kabul. Gli aggressori hanno impiegato materiali esplosivi e hanno preso d’assalto la moschea, a quanto pare tenendo in ostaggio centinaia di persone. Almeno 18 sono state uccise e più di 40 ferite, tra cui donne e bambini.

VIOLENZA CONTRO DONNE E RAGAZZE

La magistratura afgana ha affermato di aver registrato oltre 3.700 casi di violenza contro donne e ragazze nei primi otto mesi del 2016. Anche la commissione indipendente afgana per i diritti umani ha riferito di migliaia di casi di violenza contro donne e ragazze nei primi sei mesi dell’anno in tutto il paese, tra cui pestaggi, omicidi e attacchi con l’acido.

A gennaio, a Faryab, un uomo ha tagliato il naso alla moglie ventiduenne. L’episodio è stato condannato in tutto l’Afghanistan, anche da un portavoce dei talebani.

A luglio, una ragazza di 14 anni incinta è stata data alle fiamme per punizione dal marito e dai suoceri per punire suo padre, che era scappato con una cugina del marito della ragazza. È morta cinque giorni dopo in un ospedale di Kabul.

Gruppi armati hanno preso di mira le donne che lavoravano a contatto con il pubblico, comprese alcune agenti di polizia. Nelle zone sotto il loro controllo, i gruppi armati hanno anche limitato la libertà di movimento di donne e ragazze, inclusa la possibilità di accedere all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

L’Unama ha registrato un aumento del numero di donne punite in pubblico secondo le norme della sharia, da talebani e altri gruppi armati. Tra il 1° gennaio e il 30 giugno, l’Unama ha documentato sei punizioni da parte di gruppi armati in situazioni simili nei confronti di donne accusate dei cosiddetti “crimini morali”, tra cui l’esecuzione di due donne e la fustigazione di altre quattro.

RIFUGIATI E SFOLLATI INTERNI

Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, circa 2,6 milioni di rifugiati afgani vivevano in più di 70 paesi e costituivano così la seconda più grande popolazione di rifugiati al mondo. Circa il 95 per cento viveva in due paesi, Iran e Pakistan, dove subiva discriminazioni, attacchi razzisti, mancanza di servizi di base e rischio di espulsioni di massa.

Circa 1,4 milioni di rifugiati in Pakistan erano a rischio di espulsione di massa poiché la loro registrazione provvisoria scadeva alla fine dell’anno. L’Unhcr ha stimato che in Pakistan viveva un altro milione di rifugiati privi di documenti e che più di 500.000 rifugiati afgani (con o senza documenti) sono stati rimpatriati dal Pakistan nel corso dell’anno; non si registravano cifre così elevate dal 2002. Funzionari hanno riferito di almeno 5.000 persone al giorno rimpatriate durante i primi quattro giorni di ottobre. La situazione si è intensificata dopo la firma dell’accordo tra il governo afgano e l’Eu, avvenuta il 5 ottobre, che prevedeva il rimpatrio illimitato di rifugiati afgani dagli stati membri dell’Eu.

Sfollati interni

Ad aprile è stato stimato che il numero di sfollati interni aveva raggiunto 1,4 milioni. Molti hanno continuato a vivere in condizioni pessime, senza accesso a un alloggio adeguato, cibo, acqua, assistenza sanitaria, istruzione od opportunità di lavoro.

Secondo l’Unocha, dal 1° gennaio all’11 dicembre, 530.000 persone sono divenute sfollate interne, per lo più a causa del conflitto.

La situazione degli sfollati interni è peggiorata negli ultimi anni. Una politica nazionale per gli sfollati interni, lanciata nel 2014, è stata ostacolata dalla corruzione, dalla mancanza di capacità del governo e dall’affievolirsi dell’interesse della comunità internazionale.

Gli sfollati interni, insieme ad altri gruppi, hanno dovuto affrontare problemi significativi per accedere all’assistenza sanitaria. Le strutture pubbliche sono rimaste gravemente sovraccariche, mentre nei campi e negli insediamenti per gli sfollati interni spesso non c’erano ambulatori dedicati. Farmaci e cliniche private erano troppo costosi per la maggior parte degli sfollati. La mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria materna e riproduttiva è stata motivo di particolare preoccupazione.

Gli sfollati interni hanno anche subìto ripetute minacce di sgomberi forzati, sia da parte del governo sia da soggetti privati.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI

Gruppi armati hanno continuato a colpire e minacciare i difensori dei diritti umani. In particolare, le donne impegnate nella difesa dei diritti umani hanno ricevuto minacce di morte per se stesse e le loro famiglie.

All’inizio del 2016, i talebani hanno minacciato attraverso Facebook un importante difensore dei diritti umani e altre nove persone. Dopo che i 10 attivisti si sono rivolti alle autorità per informarle delle minacce, la Direzione nazionale della sicurezza, l’agenzia d’intelligence del paese, ha arrestato due persone sospettate di legami con i talebani ma non ha fornito alcuna ulteriore informazione ai difensori dei diritti umani. Le minacce contro gli attivisti sono continuate e di conseguenza essi hanno autocensurato le loro attività.

Ad agosto, in una provincia del sud del paese, il fratello di un’attivista locale per i diritti delle donne è stato rapito, torturato e quindi ucciso da individui non identificati. I rapitori hanno usato il telefono dell’uomo per intimidire l’attivista e la sua famiglia, minacciandola di conseguenze fatali se non avesse cessato il suo lavoro per i diritti umani. A fine anno nessuno era ancora stato arrestato per il rapimento e l’uccisione.

LIBERTÀ D’ESPRESSIONE E RIUNIONE

La libertà di espressione, che si era rafforzata dopo la caduta dei talebani nel 2001, è stata costantemente erosa a seguito di una serie di violente aggressioni, intimidazioni e uccisioni di giornalisti.

Il Nai, un organismo di controllo dei mezzi d’informazione, ha registrato oltre 100 casi di attacchi contro giornalisti, operatori e uffici di organi di stampa, tra gennaio e novembre, tra cui uccisioni, percosse, detenzioni, incendi dolosi, minacce e altre forme di violenza commesse da attori statali e non statali.

Il 20 gennaio, un attacco suicida a un autobus navetta per il trasporto del personale del Gruppo Moby, proprietario di Tolo Tv, la più grande televisione privata del paese, ha ucciso sette operatori dell’informazione e ferito altre 27 persone. L’attentato è stato rivendicato dai talebani, che in precedenza avevano minacciato Tolo Tv.

Il 29 gennaio, Zubair Khaksar, un noto giornalista che lavorava per la televisione nazionale afgana nella provincia di Nangarhar, è stato ucciso da alcuni uomini armati non identificati durante il viaggio dalla città di Jalalabad al distretto di Surkh Rod.

Il 19 aprile, la polizia di Kabul ha picchiato due operatori di Ariana Tv mentre stavano effettuando un servizio giornalistico.

Attivisti di diverse province al di fuori di Kabul hanno dichiarato di essere sempre più riluttanti a organizzare manifestazioni, per timore di rappresaglie da parte di funzionari governativi.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI

Gruppi armati, tra cui i talebani, hanno continuato a uccidere, a torturare e a commettere altre violazioni dei diritti umani come punizione per azioni che percepivano come reati o delitti. Le strutture giudiziarie parallele sono rimaste illegali.

Tra il 1° gennaio e il 30 giugno, l’Unama ha documentato 26 casi, tra cui esecuzioni sommarie, fustigazioni, percosse e detenzione illegale. Le punizioni sono state imposte per presunte violazioni della sharia, spionaggio o collegamenti con le forze di sicurezza, e si sono verificate in gran parte nell’ovest del paese, in particolare nelle province di Farah e Badghis.

Secondo quanto riferito, il 14 febbraio la polizia locale afgana del distretto di Khaki Safed, nella provincia di Farah, ha arrestato, torturato e ucciso un pastore per il suo presunto coinvolgimento nell’installazione di un ordigno esplosivo improvvisato comandato a distanza, che ha ucciso due agenti di polizia. L’Unama ha riferito che, pur essendo a conoscenza dell’incidente, la procura della polizia nazionale afgana non aveva aperto alcuna indagine, né arrestato eventuali sospetti.

PENA DI MORTE

L’8 maggio è stata eseguita per impiccagione la condanna a morte di sei persone nel carcere di Pol-e Charkhi, a Kabul. Le esecuzioni sono state effettuate dopo un discorso del presidente Ghani del 25 aprile, subito dopo il grave attacco dei talebani del 19 aprile, in cui aveva promesso che avrebbe agito con il pugno di ferro, anche con l’applicazione della pena capitale.

Si è temuto che potessero verificarsi altre esecuzioni. Circa 600 prigionieri sono rimasti nel braccio della morte, molti condannati per reati come l’omicidio. Molti dei loro processi non avevano rispettato gli standard di equità processuale. Circa 100 persone sono state condannate a morte durante l’anno, per reati che comprendevano l’omicidio, lo stupro con omicidio e atti di terrorismo con conseguenti uccisioni di massa.

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