Afghanistan, l’inesauribile guerra
Blog di E. Campofreda – 14/2/2018
La quiete di questi giorni, dopo il mese del terrore (233 vittime solo di attentati, dal 28 dicembre al 29 gennaio scorsi), non illude nessuno. La guerra afghana può riprendere come nei peggiori anni dell’occupazione Nato (2009-2012), quando le truppe anti talebane toccavano il massimo: 110.000 marines, 30.000 contractors, 300.000 soldati dell’Afghan Security Army. Lo pensano parecchi analisti, lo suppongono oppositori democratici che sentiremo a breve. Assolutamente improduttivo s’è dimostrato il tentativo di accordo governativo coi vertici talebani, inefficaci anche i buoni uffici d’un fondamentalista di vecchia guardia del calibro di Hekmatyar.
È sembrato che i turbanti volessero prendere il potere con le armi, come nel 1996. Però, nonostante le attuali cospicue aree di controllo: Helmand a sud, Nuristan a est, Ghor al centro, oppure medio-alto: Farah (ovest), Paktika (est), Kunduz (nord) non c’è una stabilizzazione di un potere talebano. Proprio il caso dell’assedio di Kunduz, nell’autunno 2015, dimostrò che i guerriglieri potevano assediare e spodestare i soldati di Ghani, ma di fronte al massiccio intervento dei bombardieri statunitensi dovevano ritirarsi. Insomma non riuscivano a tenere stabilmente una grande città.
È trascorso più di un anno, fra il 2016 e 2017, nel tentennìo sui possibili compromessi fra l’attuale governo e l’insorgenza Talib. Con l’interesse soprattutto della diarchia Ghani-Abdullah a perpetuare una guida che frutta affari fra i proventi dell’oppio e degli aiuti internazionali, con la gestione Obama in uscita e quella Trump in entrata a osservare, col Pentagono in una convinta fase di disimpegno dalla prima linea. Ma le frizioni e frazioni dei gruppi talebani (la rete di Haqqani oscillante fra colloqui e scontro aperto, i dissidenti delle aree tribali e del Waziristan e quelli che hanno assunto la sigla di Stato Islamico del Khorasan, impegnati in una doppia sfida: attaccare i governativi per strappare agli ex fratelli di kalashnikov il primato della resistenza armata), mese dopo mese hanno fatto naufragare ogni prospettiva di rimescolamento della guida della Repubblica Islamica dell’Afghanistan. Il compromesso in salsa fondamentalista è naufragato, mentre è in atto la contesa sulla leadership dell’insorgenza, seppure il disegno nazionalista talebano si distingua da quello dell’Isis afghano sostenitore d’un Califfato transnazionale. Insomma i talebani, pur pragmatici, sembrano orientati su una mai rinnegata strategia stragista proprio per non vedersi scavalcati dalla concorrenza.
E hanno voluto ampliare l’orrore. Delle otto azioni sanguinarie rivolte prevalentemente contro civili i talib se ne sono attribuite tre, due delle quali sanguinosissime: 40 vittime all’Hotel Intercontinental, 103 con l’autobomba nel centro di Kabul. Quest’ultima, fra l’altro, era un mezzo sanitario, dunque normalmente non sospettato. Ma questa guerra nella guerra per il primato del terrore, non ha più codici, se mai il fondamentalismo se ne sia dato qualcuno.
Certo, i miliziani di Akhunzada considerano nemici tutti coloro che collaborano con le forze militari d’occupazione, dunque i civili locali o stranieri impegnati con la Nato, ma anche con la Cooperazione internazionale e l’amministrazione di Kabul. E non vanno per il sottile. Seppure nei loro tre attentati del recente mese di fuoco, fra le vittime si contano anche passanti, mercanti e bambini di strada. La sfida, poi, ha scelto scenari visibili: le città, Jalalabad e Kandahar, ma soprattutto la capitale così da cercare ampia risonanza sui media, evidenziare l’inefficienza nel controllo del territorio di polizia ed esercito locali, incrementare la paura fra la gente. Rinunciando alle trattative e ponendo la questione della forza come inevitabile, per tutti anche per se stessi, i talebani mettono a nudo i piani del governo-fantoccio.
E insinuano alla Casa Bianca la tara d’una ripresa del conflitto in prima linea. La faccenda pone chi sa – Cia e Pentagono – di fronte a un panorama conosciuto: il rischio di perdite di uomini che, invece, la guerra dai cieli azzera o attenua moltissimo. Ma pone soprattutto lo Studio Ovale, e anche il Congresso, davanti a temi vischiosi: alleanze e geostrategie regionali. Il maggiore tutore della galassia talebana è l’Intelligence pachistana, che su indicazioni del proprio governo e talvolta per iniziativa autonoma, fomenta caos per prostrare e ingessare il Paese confinante tenendolo bloccato. Islamabad è un alleato rissoso e indisciplinato che gli Usa foraggiano a suon di finanziamenti e armamenti o puniscono tagliando i fondi, com’è accaduto di recente.
Poiché Washington non può abbondonare i siti creati per osservazione e possibile intervento sul quadrante orientale, sarà costretta a rimettere i piedi negli scarponi. Calzati da chi è la grande diatriba. C’è chi prevede di privatizzare in toto l’intervento: l’estate scorsa due impresari statunitensi della morte, l’ex contractor Erik Prince e il miliardario della sicurezza Stephen Feinberg, avevano presentato a Trump un piano d’intervento che aveva indisposto i capi del Pentagono. I generali, da sempre influenti su qualsiasi presidente, non vogliono perdere un ruolo decisionale sulla guerra. Che sembra riemergere come unico sbocco per talebani, jihadisti, marines, mercenari. E per l’eterno business delle armi.
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