Afghanistan, piccoli galeotti
Dal Blog di Enrico Campofreda, 26 gennaio 2018
Nel Paese della vita assediata e dell’infanzia negata i minori ‘rei’ di avere i genitori reclusi, in genere la mamma, subiscono la beffa di finire anche loro in galera. In realtà non c’è una sola nazione a mostrare questa violenza di ritorno, comunque l’Afghanistan, se non proprio tutte, riesce a sopravanzarne tantissime. Le meste storie s’inseguono da una città all’altra, Nangarhar, Jalalabad, Kandahar non fa differenza.
Perché nella testa di bambine e bambini, le mura a limitare l’orizzonte degli sguardi, le porte blindate, il rumore di serrature e chiavistelli restano privazioni e incubi difficili da cancellare. L’opzione di avere accanto i figli, scelta da parecchie madri arrestate per alleviare le proprie sofferenze, rendono i bambini stessi detenuti. L’unica alternativa sono le non molte Ong locali che si occupano di orfani, minori abbandonati o privati di genitori. Però non bastano, così i piccoli in molti casi si ritrovano in cella. La questione da qualsiasi parte la si osservi è decisamente delicata e di non facile soluzione, perché per i minori reclusi involontari la privazione della libertà viene in second’ordine rispetto alla perdita, pur temporanea, della mamma.
Il legame affettivo è di per sé primario nel rapporto madre-figli. Se quest’ultimi in età scolare, pur in prigione hanno la fortuna di vedersi assistiti da programmi di alfabetizzazione che, in casi rari, vengono accettati dall’amministrazione politica e carceraria in base a progetti di qualche associazione umanitaria, quella permanenza forzata si trasforma in un investimento. Talvolta la presenza dietro le sbarre della prole (esclusivamente femminile) prosegue anche nel periodo post puberale. E sempre ragionando per paradossi, questa condizione preserva le ragazze, anche se solo per la durata di quella situazione, da matrimoni forzati con uomini che per età potrebbero esserne padri e nonni. Comunque tutto è lasciato alle circostanze, poiché i tribunali locali non sentenziano allo stesso modo.
Così le vite, già sospese per situazioni contingenti, subiscono l’ulteriore variabile della fatalità. Il miracolo accade se, e quando, chi segue questo cammino instabile e doloroso, riesce a ricavarne una forza da poter spendere all’esterno. In quel genere di esistenza che nella nazione dell’Hindū Kūsh non si rivela più sicura dell’inferno carcerario.
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