Afghanistan, terrore alle nozze. Focus su 18 anni di guerra e attentati.
Lifegate – 21 agosto 2019, di Francesca Lancini
L’attentato alle nozze di Kabul riaccende i riflettori su un Afghanistan più insicuro. Il punto sui negoziati con i talebani e gli scenari da scongiurare.
Ameno 83 morti e più di 180 feriti, tutti civili. L’ennesima notte di festa interrotta a Kabul, l’ennesimo matrimonio trasformato in massacro. Questo, mentre scriviamo, il bilancio dell’attentato di sabato scorso, 17 agosto, nella capitale afgana, rivendicato dall’ Islamic State Khorasan (IS-K), lo Stato Islamico locale. Si tratta dell’esplosione suicida che nell’ultimo anno ha causato più vittime in Afghanistan, ma non l’ultima di un’interminabile lista. Lunedì 19 agosto, durante le celebrazioni del centenario dell’indipendenza dai britannici, 6 bombe sono esplose a Jalalabad ferendo oltre 30 persone.
Con il terrore gli afgani sono costretti a convivere da 18 anni. È uno degli aspetti della guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti. Chissà se qualcuno ai vertici del Pentagono aveva previsto questo sviluppo fallimentare dell’invasione voluta dall’amministrazione Bush Junior dopo l’11 settembre 2001, con la partecipazione di una coalizione NATO di 40 paesi alleati. Si voleva annientare il regime dei talebani, che aveva dato ospitalità e sostegno a Osama Bin Laden, fondatore di al-Qaeda accusato di aver ordinato l’attacco alle Torri Gemelle di New York. In Afghanistan, però, non sono arrivate né pace né democrazia, tutt’altro. Le donne non si sono liberate dal velo e dagli abusi di una mentalità patriarcale, come al contrario mostrato agli inizi del conflitto dai media occidentali.
In Afghanistan almeno 1500 attentati dal 2001
Una Repubblica islamica si è sostituita – in varie tornate elettorali sempre contaminate da brogli – all’Emirato talebano (1996-2001), ma i gruppi fondamentalisti sunniti hanno saputo riconquistare gran parte del paese. Dal 2001 ci sono stati circa 1500 attacchi terroristici. Alcuni – i più “spettacolari” – hanno fatto notizia, altri no. A compierli prima i talebani e al-Qaeda (organizzazione fondamentalista sunnita fondata da Osama Bin Laden nel 1988), poi dal 2015 anche l’IS (gruppo militante jihadista salafita-sunnita) insediatosi e cresciuto nel paese asiatico.
Tuttavia, nel quasi-ventennio post 11 settembre, i civili afgani hanno dovuto fare i conti con un altro “terrore”, quello di chi doveva proteggerli. L’Onu riporta che nella prima metà del 2019 le forze NATO e l’esercito afgano (addestrato da queste ultime) ha provocato più vittime degli insorti talebani e di altri militanti. Per questo motivo, forse, Mohammed Ghulam, padre dello sposo sopravvissuto all’attacco kamikaze di sabato 17 agosto, ha dichiarato all’afgana Tolo news: “È tutta colpa del governo. Non c’entra Daesh (acronimo arabo per lo Stato Islamico, ndr.). L’ha fatto il governo”. L’uomo, in preda alla disperazione, ha perso 14 membri della sua famiglia.
Oggi l’Afghanistan è più insicuro. La popolazione è stremata. Purché la guerra finisca, molti sarebbero disposti ad accettare che i talebani tornino al potere. Secondo gli analisti, si tratta di uno scenario verosimile alla fine dei negoziati in corso fra l’amministrazione Trump e i fondamentalisti islamici che hanno governato fra 1996 e il 2001. Il presidente degli Stati Uniti ha annunciato di voler ritirare tutti i suoi soldati dall’Afghanistan il prima possibile, se il governo locale garantirà di tenere sotto controllo i “terroristi”, IS-K in particolare. Tuttavia, sarebbe un quadro nero, senza sfumature e spiragli di luce. Lo sostengono un po’ tutti, dagli attivisti per i diritti umani, come la femminista afgana ed ex parlamentare Malalai Joya, ad alcuni esponenti Repubblicani del Congresso e funzionari militari Usa.
L’analisi e le previsioni dell’esperto militare
Claudio Bertolotti, ex capo della sezione contro-intelligence della NATO in Afghanistan, conferma queste previsioni: “Donald Trump parla solo all’elettorato statunitense, mettendo ancora più a rischio una missione già fallita. I civili pagheranno il prezzo più alto di questo ritiro, in termini di diritti e sicurezza. I talebani, ormai, controllano quasi tutte le aree urbane e con i loro governatori-ombra si sono stabilizzati nelle zone rurali. Offrono un minimo di ‘servizi sociali’ e garantiscono la giustizia – laddove non c’è nessun altro a farlo – con i loro metodi ovviamente, ‘la legge del taglione’: se qualcuno ti ha rubato qualcosa, gli tagliano una mano”.
Sembrano lontani i tempi in cui l’Italia si impegnava con entusiasmo a riformare il sistema giudiziario afgano e promuoveva in occasione della Conferenza di Roma del 2007 il National justice programme e l’Afghan reconstruction trust – justice. Continua Bertolotti, ora direttore del think tank Start Insight: “Si è arrivati a questo punto perché a ogni cambio di amministrazione Usa è mutata la strategia. Lo stesso Obama ha prima aumentato il contingente e dopo poco tempo, 18 mesi, l’ha ridotto. Adesso è chiaro che gli Stati Uniti non vogliono più combattere questa guerra. Lo strumento militare non è stato efficace. Non si è stati capaci di formare un esercito afgano autonomo. Assistiamo a un collasso politico. Con le prossime elezioni si formerà un nuovo governo di transizione, senza Ghani presidente e Abdullah capo dell’esecutivo. Risultato: un Emirato islamico talebano un poco più aperto rispetto a quello del periodo ’96-2001, che si alimenta grazie alla florida economia del narcotraffico”. Neppure i campi di papaveri e la produzione di oppiacei sono stati convertiti in un business diverso e legale, come promesso dalla propaganda dei primi anni di guerra.
In un contesto di Stato debolissimo, di esercito allo sbando, potrebbe essere ancora più minaccioso l’effetto di un accordo Usa-talebani sull’espansione dello Stato Islamico Khorasan: “Se il negoziato si concluderà, IS-K resterà come unico nemico del governo afgano, dei talebani e delle forze militari straniere”, spiega Bertolotti. “Va specificato che non se ne andranno 14 mila soldati in un colpo. Resteranno circa 5mila unità delle truppe speciali e della CIA, che fanno parte della missione Freedom Sentinel, quella in cui vengono utilizzati i droni per intenderci. A queste vanno aggiunti 20mila contractor di supporto in operazioni di trasporto, comunicazione, intelligence, sicurezza delle infrastrutture, ecc. In teoria, secondo gli accordi già presi, gli Usa manterranno le loro basi in Afghanistan fino al 2024. Detto ciò, niente è sicuro. Gli afgani, dai tempi dell’occupazione inglese e di quella sovietica, non hanno mai rispettato un accordo”.
La guerra continuerà? “Sì”, risponde l’analista militare. “E temo che le file dello Stato Islamico si ingrosseranno. Da venti anni di conflitto i vecchi talebani hanno ottenuto i loro benefici economici, ma i giovani dei ranghi più bassi devono ancora riscuotere. IS farà di tutto per inglobarli. È nel suo modus operandi. Lo Stato Islamico si differenzia ideologicamente da al-Qaeda. Quest’ultima non vuole spargere sangue musulmano, ovvero non vuole scatenare una guerra fra confessioni, tra sunniti e sciiti. IS, invece, non si fa scrupoli. Tuttavia, vari talebani delusi e reduci di IS da Siria e Iraq, potrebbero entrare in una milizia che oggi conta solamente 6mila membri contro i 60mila dell’esercito talebano.”
Per questo il signor Ghulam si sbaglia: l’attentato alle nozze di suo figlio, sferrato alle 22.40 di sera, mentre 1.700 invitati festeggiavano, è molto probabilmente opera di IS-K. Il gruppo che vuole creare un Califfato in Asia meridionale e mira a destabilizzare l’intera regione, agisce per seminare il massimo terrore persino nella popolazione musulmana e avere la massima visibilità internazionale. Ma, allargando lo sguardo, Ghulam ha ragione: altri hanno aperto la strada a questo tipo di violenza. I responsabili vanno ricercati nelle varie dominazioni di questo paese, nella miopia dei governanti occidentali, nelle bramosie e negli errori del dopo 11 settembre, nei signori della guerra, negli estremisti islamici e nei corrotti locali, nei negoziatori in carica ai quali non importa nulla dei civili. Ci vorrebbe una presa di responsabilità della comunità internazionale affinché le centinaia di migliaia di vittime afgane come i 3.996 morti e gli oltre 6mila feriti di quel martedì mattina di settembre a Manhattan, che ha cambiato la storia dell’Occidente e del mondo intero, abbiano giustizia e pace. Servirebbe un sussulto di lucidità globale perché lo sposo afgano, Mirwais Elmi, che ha detto “non sarò mai più felice nella mia vita”, torni a sperare.
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