Cent’anni di Afghanistan
Dal Blog di Enrico Campofreda – 22 agosto 2019
“… A nessun potere straniero sarà permesso d’interferire internamente ed esternamente con gli affari afghani, e se dovesse accadere sono pronto a tagliargli la gola con questa spada”. Con tali parole re Amanullah si rivolgeva ai dignitari di Kabul, e agli stessi agenti britannici presenti, pochi mesi prima che il Paese dell’Hindu Kush strappasse una propria dignità nazionale all’Impero di Giorgio V, ottenendo ufficialmente l’indipendenza il 19 agosto 1919.
Quel giorno venne firmato il trattato che poneva fine alla terza guerra afghana contro l’esercito britannico, durata in realtà solo un mese.
Ora che la popolazione patisce guerre che si succedono da decenni quella dichiarazione risuona come amara se non addirittura beffarda. Eppure il regno (1919-29) di Amanullah Shah, sovrano illuminato, molto amato dai sudditi dell’epoca – e favorevolmente valutato da storici e attuali attivisti democratici che ne visitano la tomba a Jalalabad – dev’essere considerata una fase d’innovazione anche nel Terzo millennio che non mostra toni progressisti e non pacifica ancora nulla. Anzi.
Amanullah, pur ricoprendo la carica di emiro, scontentò chierici e capi tribali. I passi riformatori intrapresi con la promulgazione nel 1923 d’una Costituzione paritaria per i generi, un codice di famiglia garantista che vietava matrimoni fra anziani e giovanissime, la creazione d’un tribunale per eventuali torti subìti dalle donne, rappresentano un riferimento positivo successivamente smarrito.
Il sovrano, coadiuvato dalla consorte che ripetutamente si mostrava in pubblico senza velo, pur riconoscendo la religione islamica, mirava a porre la nazione e la sua gente al passo con la contemporaneità. L’inserimento femminile nel piano per una diffusa istruzione popolare, confermavano quell’impressione progressista che lo stesso Lenin ebbe di lui, intrattenendo un breve rapporto epistolare.
In realtà l’interesse del leader comunista sull’operato di Amanullah riguardava l’opposizione afghana all’Impero britannico, da lì la simpatia che il bolscevico e russo Vladimir Ilic nutriva per chi contrastava il principale avversario di Mosca, in quel frangente sostenitore delle Armate bianche e per oltre un secolo nemico numero uno nel cosiddetto “Grande Gioco” asiatico. Il re dell’indipendenza afghana non può essere annoverato fra i rivoluzionari, ma metteva di buon umore Lenin quando, nel 1921, firmava un trattato che “appoggiava la lotta dei popoli d’Oriente”. Per quanto, in occasione d’una rivolta sostenuta dai sovietici contro l’emiro del Bukhara, Amanullah ospitò a Kabul il suo omologo spodestato.
Come pure diede rifugio ai ribelli islamici basmachi fuggiti dall’area di Bukhara e del Turkestan dopo la repressione dei loro moti. Il contatto con un innovatore seppur autoritario come Kemal Atatürk avvenne nella dinamica dei nuovi assetti mediorientali caratterizzati da spinte e ‘spine’ autoctone delle nascenti nazioni e delle leadership che si confrontavano. L’ispirazione del movimento dei “Giovani afghani”, di cui Amanullah fece parte, erano le idee moderniste e panislamiche propugnate dai “Giovani turchi”. Se si vuol cercare un comune denominatore fra i due politici, lo si trova nella reciproca volontà da fedeli islamici di perseguire un modello di Stato laico.
Ma ulema naqshabandi e pashtunwali erano decisamente più forti del clero e delle tradizioni ottomane e Amanullah ne subì le conseguenze finendo spodestato da un crescente moto di protesta guidato da un tajiko, detto figlio del portatore d’acqua (Baccà-ye Saccaò). Il re progressista fuggì in Europa e lì rimase. Riparò in Italia e morì nel 1960.
Occorre ricordare che, differentemente dai “Giovani turchi” dotati d’una struttura paramilitare e rodati dalla pratica, gli afghani riformatori non godevano di simile organizzazione. Comunque il rivoltoso Baccà-ye ebbe vita breve, fu rimosso da un parente di Amanullah, Nadir Khan, più accomodante verso gli ulema e fautore nel 1931 d’una nuova Carta costituzionale. Chi lo seguì, il diciannovenne figlio Zahir Shah (1933-73), riprese il percorso modernizzatore di Amanullah sul terreno di scolarizzazione e diritti civili, occupandosi poi delle carenze citate: esercito e burocrazia che negli anni Cinquanta vennero rafforzati. E’ il periodo ricordato dagli storici interni quale nuova ondata riformatrice, che con la Costituzione del 1964 legalizzava partiti politici e libera stampa. Pur definendo l’Islam sacra religione dell’Afghanistan, limitava il riferimento ai princìpi della Shari’a come elementi fondanti delle leggi parlamentari. E’ di quella fase la divisione bicamerale, con una camera bassa (Wolesi Jirga) che eleggeva ogni quattro anni i suoi rappresentanti e un senato (Meshrano Jirga) i cui membri erano scelti nei consigli distrettuali e per un terzo venivano nominati dal sovrano. In quella circostanza le donne ebbero il riconoscimento di far parte dell’elettorato. Ovviamente non era tutto rose e fiori, le elezioni dell’anno seguente furono accolte con freddezza dalla popolazione. La percentuale di votanti fu scarsa, la partecipazione delle donne bassissima, pochissime furono le elette. I gruppi etnici sulla spinta di capi tribali e ulema continuavano a orientare i comportamenti delle persone inserite nelle comunità. L’assenza di lavoratori tipici del capitalismo avanzato, gli operai di fabbrica, per mancanza d’industrializzazione, gli strati rurali spesso ribelli e repressi creavano una profonda dicotomia fra vertice e base della nazione.
Anche la formazione del Partito popolare democratico dell’Afghanistan, ispirato da princìpi socialisti, che poteva trarre spunti dal riformismo illuminato della monarchia e poi del sistema repubblicano, rimase vittima della schematica rigidità d’una tarda visione “terzo-internazionalista” ingessata nelle sue teorie, ben distanti dal materialismo dialettico dei padri del comunismo teorico. Mentre prendeva piede il movimento islamico, sull’onda delle predicazioni di Sayyid Qutb (l’egiziano condannato a morte da Nasser) e del teologo pakistano Abul Maudidi, fondatore egli stesso di quella Jamiat-e Islami in cui si ritrovarono Burhanuddin Rabbani, e pure Massud e Hekmatyar, prima della divisione che li portò a combattersi nella guerra civile, seguita al ritiro sovietico dopo otto anni d’invasione. Il travagliatissimo quarantennio della Repubblica Islamica Afghana è indubbiamente più conosciuto rispetto ai precedenti periodi che hanno conosciuto fasi anche di stabilità e minore tensione.
Certamente le generazioni vissute fra le due guerre mondiali, evitate dall’Afghanistan, la prima per ragioni d’età quindi per acutezza e opportunità politica di quello Zahir regnante per quattro decenni, hanno conosciuto un’esistenza meno drammatica delle generazione che da metà anni Settanta sono nate nei campi profughi conoscendo solo guerre e scempi. E il presente che, in tanti dicono di voler pacificato, non ha risolto contraddizioni geopolitiche, etniche, culturali, religiose che altre figure, chiamate khan, s’erano comunque poste provando a offrire soluzioni. I “colloqui di pace” ora in atto, le elezioni presidenziali del prossimo settembre sembrano le maschere per continuare a proseguire massacri, sebbene gli ultimi li stiano praticando i jihadisti del Khorasan. Ma in questo secolo i massacratori della gente afghana sono stati tanti. E continuano a esserlo.
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