Diario afghano: le donne di Rawa e i piccoli miracoli di resistenza
Cristiana Cella – globalist – 29 dicembre 2019
La Revolutionary Association of the Women of Afghanistan è la più antica e tenace organizzazione di donne afghane, che combatte per i diritti e la democrazia dal 1973, in totale clandestinità
Si viaggia per ore sulle piste polverose, nella luce asciutta dell’ovest afghano. Montagne brulle all’orizzonte. Case, fattorie, campi coltivati, sono circondati da muri alti di paglia e argilla come castelli. Le donne scivolano via veloci nelle strade dei villaggi chiudendosi addosso il lungo chador nero o marrone, di foggia iraniana. Il luogo deve restare segreto come tutti i piccoli miracoli di resistenza in questo paese. Nessun dettaglio, nessuna coordinata. Proteggerne la bellezza è indispensabile.
Entriamo da un grande portone in ferro battuto dipinto a colori vivaci. Dentro le mura ci si sente protetti, al sicuro, lontano da sguardi indiscreti e rapaci che registrano, calcolano, organizzano. Non possiamo restare molto né tornare domani. La notizia di una presenza occidentale si sparge in fretta, i talebani sono a pochi chilometri.
La resistenza, qui, è un campo di zafferano. Il sole è appena sorto e i fiori, ordinati nelle loro squadriglie, si aprono lentamente sugli 8000 metri quadrati del campo. Timidi e schivi come le raccoglitrici che aspettano.
Arrivano tutte insieme, in fila indiana, con passo marziale, dondolando il cestello rosa. Sembrano un esercito di infermiere, divisa azzurro pallido, cappellino ospedaliero sopra il chador, mascherina, guanti. Ci guardano con occhi di fuoco, rapidi come lampi, chiuse. Si apriranno più tardi, come i loro fiori. Si spargono per il campo, staccando, rapide e precise, il loro bottino da fate.
La mattina si fa più calda, arriva il sole a far splendere il viola e il rosso dei fiori. Pian piano avanzano nel campo, chiacchierando, scambiandosi cenni, riempiono i cestini di viola. Qualche primo sorriso nella nostra direzione.
Sono le donne di Rawa a organizzare il progetto, per dare a questo gruppo di donne autonomia economica e dignità. Rawa, (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), è la più antica, solida e tenace organizzazione di donne afghane, che combatte per i diritti e la democrazia dal 1973, in totale clandestinità. Per trasformare l’Afghanistan si parte anche da qui. Il loro lavoro di resistenza è incessante e generoso, da 40 anni, il loro percorso, attento e sicuro, schiva i guai come si fa con le mine.
’I nostri nemici hanno armi potenti, spie, soldi, potere. Noi non abbiamo niente ma abbiamo la volontà di andare avanti e non ci scoraggiamo mai. Loro lo sanno. Da 40 anni.’ Dice Lina, giovane militante. Il coraggio va protetto con la massima cura, come questo campo.
Il territorio del paese, è parcellizzato in tante realtà diverse, con diversi padroni, talebani, Daesh, warlords, spesso in guerra tra loro. Le province, i villaggi, le campagne, le montagne dell’Afghanistan sono una terra muta. Su quello che succede ogni giorno nella vita delle persone non ci sono testimoni, non ci sono parole per dirlo, per lanciare allarmi. Notizie e report arrivano alle organizzazioni afghane, report raramente verificabili e che rimangono qui. Nessuno ci va, troppi rischi. Sono solo loro, le militanti di Rawa, ad essere informate, dalle loro compagne sparse sul territorio.
‘A volte siamo testimoni diretti di orrori indicibili, ma, spesso, non possiamo nemmeno noi verificare i racconti che le nostre compagne raccolgono.’ Racconti dall’inferno. Dove le vittime civili aumentano ogni anno, con regolarità, 10.993 nel 2018, di cui 927 bambini, come le tonnellate di eroina prodotte e consumate, come i tossicodipendenti, ormai 3 milioni, come i mutilati , secondo Alberto Cairo, della Croce Rossa, quasi raddoppiati in dieci anni, un esercito di due milioni di persone, in maggioranza bambini. In questo distretto, si conta il numero più alto di donne che si suicidano col fuoco. La disperazione prende sempre più spesso questa strada.
Anche qui, come ormai nella metà del paese, i talebani controllano i distretti a macchia di leopardo . Ma le strategie sono diverse. Alcuni sono direttamente sotto il loro controllo, altri funzionano con un compromesso politico, molto diffuso. Il capodistretto è un uomo del Governo, una carica vuota, un governatore fantasma. Il potere è gestito da quello che qui chiamano ‘governo ombra’, talebano, perfettamente organizzato. Riscuotono le tasse, le bollette dell’elettricità, impongono le loro regole amministrative e morali, si sostituiscono alla polizia per perseguire furti e omicidi. Un assetto frutto di trattative che ,dunque, ogni tanto, prevede spazi di diritto, come le scuole per bambine. I talebani le tollerano invece di bruciarle, come è loro abitudine.
“I talebani sanno amministrare, – dice Jamila, militante di Rawa – lo hanno già fatto, hanno regole precise, aberranti per noi, ma le rispettano con rigore. La gente sa come comportarsi per salvarsi la pelle. Con loro non hai speranza se sei dell’esercito, del Governo, o sei straniero o appartieni a qualche Ong. Ma per gli altri, per la gente comune, non ci sono questi rischi.”
Nelle zone in mano loro si vive come negli anni ’90. Per le donne non ci sono né diritti né speranza. Si pratica la sharia e la lapidazione. Non è cambiato niente, anche se hanno acquisito molte capacità tecnologiche. Ma hanno un sistema amministrativo che funziona, mentre il Governo non ce l’ha. Per questo hanno successo.
‘Nelle zone in mano al Governo, spadroneggiano i governatori, feroci signori della guerra e della droga, che distrussero il paese negli anni ‘90. Polizia e milizie private, al loro servizio, fanno quello che vogliono, uccidono, stuprano, rapiscono, distruggono. E nessuno fiata. La giustizia non esiste. Lì, la vita è appesa solo alla fortuna. Lo stesso nelle province dove è Daesh a comandare, come la loro roccaforte, nella provincia di Nanghahar, vicino a Jallalabad, precisamente nel distretto di Achin, quello che gli americani hanno colpito con la madre di tutte le bombe.
“Hanno la stessa mentalità dei talebani, ma sono quasi tutti stranieri, non rispettano nessuna legge e infieriscono sulla popolazione. Arruolano con la forza, uomini, bambini e si prendono le donne per i loro combattenti. Bottino di guerra, come secoli fa. I talebani non lo fanno. Così, ci sono delle persone che preferiscono vivere sotto i talebani. Paradossale no?”
Basta che si possa sopravvivere.
È ora di pranzo, il sole è alto e forte. Non si può più raccogliere. Le ragazze si ritirano in una costruzione bassa, anch’essa di fango e paglia. Separano i pistilli preziosi dal resto del fiore. I rossi da una parte, la parte bianca da un’altra. Si usa per il tè. Gli occhi chini sulle mani veloci, accettano la nostra presenza senza più ombra di diffidenza. Finito il lavoro, i fiori vuoti vengono raccolti da un aiutante che li rovescia in un moto- carretto. Si buttano via. Sono belli, quasi dispiace.
Mentre mangiamo sul prato, le ragazze preparano la stanza. Rimane solo un grande telo bianco per terra, tinto del rosso dei pistilli appena raccolti che si asciugano. Come la tela di un artista. Iniziano i corsi di alfabetizzazione. La maestra è del gruppo, a differenza delle altre, studia all’Università e oggi tocca alla matematica. Si alzano a turno, tutte vogliono partecipare, entusiaste di svolgere le loro operazioni alla lavagna. Si lanciano battute, ridono, ci sediamo tra loro. La maggior parte non è mai andata a scuola.
Sono 12 le donne della squadra. Il terreno è affittato da Rawa ma nessuno deve sapere che si tratta di loro. Sarebbero tutte in pericolo. Hanno preparato il sistema di irrigazione a pannelli solari, hanno piantato i bulbi, ad agosto, tre anni fa. Lavorano soprattutto a novembre, per la raccolta, e uno o due giorni al mese nel resto dell’anno. Uno zafferano unico, speciale e molto richiesto. Vendono in posti diversi, in momenti diversi e una volta all’anno si dividono il bottino. Circa 300 euro a testa. Una piccola fortuna qui. Che cambia la vita.
Amina accetta di parlare con me, dopo molte insistenze. È bella, un viso spigoloso, sopracciglia folte e scure, chador giallo senape. Abbassa la mascherina solo per distrazione. Si avvolge nel lungo mantello marrone. Si siede. Non è timida, affatto. Mentre parla, via via, prende forza e le sta addosso un’autorità indiscutibile.
A 15 anni è stata venduta in sposa dal padre tossicodipendente. Aveva bisogno di soldi, dice Amina, con un sorriso amaro, per le dosi. La scuola finisce, come la libertà. Lui, 15 anni di più. Ora ha un bimbo di 6 anni e una bimba di 4. Il marito fa parte di quell’esercito di disperati che calano all’alba sulla città. Si raccolgono nelle piazze e aspettano il caporale, sdraiati nella loro carriola, se ne possiedono una. Per l’edilizia, adesso, si fanno molti più contratti, quindi c’è meno lavoro per questa gente. Li assoldano per compiti faticosi, come lavare i tappeti, spostare pietre, carico e scarico, cose così.
Ma al massimo, se gli va bene, porta a casa 150/200 afghani, uno o due euro. È pochissimo e il lavoro è molto frustrante. Senza futuro. Per questo Amina, inizialmente, ha voluto entrare nel gruppo, per uscire dalla miseria. Poi, sono arrivate le scoperte che i fiori di zafferano hanno portato con sé.
”Mio padre era un uomo molto rigido, non permetteva a noi ragazze di studiare. Decideva tutto lui. Per i miei figli voglio un destino diverso, voglio che studino, che abbiano un buon lavoro che siano liberi. Questi fiori sono la mia battaglia. Per ora l’ho vinta. Sono finanziariamente indipendente e questo vuol dire che mio marito e i miei familiari non mi possono più controllare né impormi le loro regole. È cambiato tutto. Abbiamo più soldi per la scuola e la salute dei bimbi e mio marito si comporta meglio, sono rispettata, più forte. Questo lavoro è importante per tutta la comunità. Siamo diventate
un esempio. Cambiare si può se non si china la testa.”
All’inizio gli uomini cercavano di impedire alle mogli di lavorare, ma poi, quando hanno visto i soldi e i vantaggi, si sono ricreduti. Hanno fatto breccia anche nelle loro teste dure.
Nel villaggio, alle donne non è quasi mai permesso lavorare né studiare e hanno tanto tempo per stare insieme e parlare. Ora, anche le altre si sono convinte che per cambiare il loro destino lavorare è cruciale. L’indipendenza economica è la strada della libertà.
“Questo lavoro è un balsamo per la mia pena più grande che mi amareggia le giornate e le notti. Essere stata sposata contro la mia volontà, non avere diritti, non aver continuato la scuola. Hanno venduto il mio destino ad altri, ora voglio riprendermelo. Qui posso anche studiare e mi diplomerò. Lo studio è un tempo speciale, solo nostro, ci rilassiamo e stiamo tra noi. È un sogno.”
Un sogno che non finisce qui. La famiglia di Amina ha un terreno. E’ dei fratelli, le donne non possono possedere nulla e nemmeno mettere becco in queste cose. Ma il campo è vuoto e ai fratelli, dice con un sorriso, non interessa molto quello che fa. Così sta lavorando per realizzare un progetto solo suo. Vuole coltivare quel pezzo di terra con altre donne del villaggio, piantare i migliori bulbi e vendere il loro zafferano.
Sarai il boss, le dico, una business woman. Sorride, coprendosi il viso col chador, annuisce, fiera. Dice che vuole collegarsi con altre donne che hanno la loro impresa e si aiuteranno reciprocamente a venderlo bene.
Dunque, basta una donna per cambiare una comunità?
Annuisce, decisa, dimenticando la mascherina. Spera che torneremo e che potremo vedere il suo campo in piena fioritura.
‘Ce la farò- dice- inch Allah’
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