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I am the Revolution, così tre donne guidano la rivoluzione in Afghanistan, Siria e Iraq

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Il Fatto Quotidiano – di Sara Tirrito | 10 Marzo 2019

Il docufilm è diretto da Benedetta Argentieri, giornalista indipendente e reporter di guerra: “Quando mi chiedono com’è essere una donna al fronte non riesco a capire perché ci sia sempre una disparità nella narrazione tra una donna e un uomo che sceglie, consapevolmente, di andare in una zona di guerra, come purtroppo dimostrata il dibattito italiano su Silvia Romano, a cui dedico un pensiero”

“Ci sono dei segnali che noti in una giovane donna quando passa da vittima a difensore: la sua voce diventa più forte, il pianto comincia a fermarsi, e poi dice no, oggi non piangerò”.

 

Yanar Mohammed è una delle tre protagoniste di I am the Revolution, docufilm diretto da Benedetta Argentieri (giornalista indipendente e reporter di guerra) per raccontare la rivoluzione guidata da tre donne in tre Paesi devastati dalla guerra: nell’ordine Afghanistan, Siria, Iraq.

Yanar 1 200x200Yanar, 59 anni, nella sua vita precedente era un architetto e per un certo periodo ha vissuto in Canada.

Quando ha saputo che la situazione a Baghdad era degenerata, che le donne venivano rapite per strada e che l’Iraq era in preda ai terroristi è tornata a casa e nel 2003 ha fondato l’Organization of Women’s Freedom in Iraq (Owfi), che oggi presiede.

Nei suoi anni di militanza politica, gli amici – soprattutto quelli di sinistra – le dicevano “Sei ‘solo’ una femminista”. Lei rispondeva: “Sono ’solo’ una femminista? ‘Solo’ una femminista nella parte del mondo in cui tutte le donne sono schiave? Beh, sono molto orgogliosa di essere una femminista, perché quale rivoluzione più difficile avrebbero potuto fare loro rispetto a quella delle donne?”

La sua organizzazione collabora con il Worker-Comunist Party iracheno e si occupa di difendere i diritti delle donne mettendo a disposizione degli housing centers. Illegale in Iraq ma riconosciuta dall’Onu, l’Owfi aiuta le donne a fuggire da diverse forme di abusi, inclusi il traffico sessuale, il delitto d’onore, i matrimoni forzati, e negli ultimi 15 anni è riuscita a salvare almeno 500 donne. “Nei nostri rifugi le persone possono ricominciare da capo”.

Le attiviste dell’Owfi sono determinate a costruire la propria realizzazione personale, ma per loro ricominciare vuol dire prima di tutto affermare e trasmettere un diritto, portando quello che hanno imparato ad altre donne per renderle più forti. Collaborano alla pari con molti uomini, scendono in piazza e urlano per la libertà e per far capire che emarginare le donne è sbagliato. “A volte – dice Yanar – cresci in un posto e pensi che l’oppressione delle donne sia per sempre. Poi realizzi che no, non dovrebbe essere così”.

I AM THE REVOLUTION STILL2 300x169A combattere con qualunque mezzo l’oppressione è Rojda Felat, 37 anni, leader delle Forze democratiche siriane (Sdf). Rojda ha guidato la coalizione di 60mila uomini e donne che nell’ottobre 2017 ha liberato Raqqa, la roccaforte dell’Isis. Appartenendo a una minoranza, ha sempre vissuto l’oppressione in modo molto profondo “Come curda, e soprattutto come donna – dice – non avevo alcun diritto”.

Poi ha capito che le donne in guerra, ovunque nel mondo, sono le più oppresse e fin da bambina ha cominciato a sognare “che un giorno avremmo avuto una forza militare completamente femminile per difendere noi stesse in quanto donne e le persone, in generale”. Si è unita alla Women’s Protection Unit (Ypj) nel 2012 da combattente, a poco a poco ne ha preso il comando. La sua è vera lotta armata contro l’Isis per liberare non solo i curdi, ma anche gli armeni e i siriani che stanno subendo morte e devastazione.

La sua missione però va oltre il porre fine a questa guerra: “Vogliamo trasformare tutto quello che abbiamo iniziato in un ideale per le future generazioni. Nelle regioni che abbiamo liberato ci sono donne che lavorano nelle milizie, in politica e nelle commissioni civili. Sappiamo che il nostro compito non è finito”. Nell’esercito di Rojda, uomini e donne sono uguali e fanno la rivoluzione alla pari. Alle nuove leve insegnano che la parità di genere non è solo tra le mura domestiche ma nella società, che non deve vederle come deboli o vittime né incapaci. Quando una recluta si unisce, spiega Rojda, è sempre reticente per via di tutti i pregiudizi con cui è cresciuta, ma se – come avviene nel film – le chiedono perché ha deciso di arruolarsi lei risponde: “Per ripulire il nostro paese da tutto questo schifo, per riportare la vita a quel che era o anche meglio”.

Rally 2 300x169La terza donna raccontata da I am The Revolution è Selay Ghaffar, 35 anni, prima portavoce donna di Hambastagi – il Partito della solidarietà in Afghanistan. Selay vive sotto scorta, costantemente minacciata sia fisicamente che tramite e-mail e chiamate. Alle manifestazioni che organizza è sempre allerta, esplosioni, rapimenti e attacchi sono all’ordine del giorno contro la voce delle donne.

“Quando vado all’estero, molti mi chiedono se non ho paura a vivere in Afghanistan – racconta nel docufilm – ma io so che se voglio rendere indipendente questo paese devo vivere qui”. Selay ha cominciato a militare a 12 anni, incoraggiata da un padre progressista. Nel suo sguardo c’è tutta la sofferenza di chi ha visto la distruzione totale, ma anche la fermezza di chi intende ricostruire a tutti i costi quelle macerie, imbracciando le armi come le donne curde se necessario.

Nel suo partito, solo il 33% degli esponenti è donna e anche per questo la sua rivoluzione è politica, contro fondamentalismo e colonialismo. In Afghanistan si combatte per diritti di base: l’istruzione prima di tutto, lavoro, strade pulite, diritto alla persona. Conquiste elementari ma anche difficilissime, perché prevedono il rovesciamento di un assetto mentale ormai consolidato.

Burqua documentario 675x905Il partito di Selay è stato estromesso dal governo afgano, ma nonostante questo continua a salvare donne che rischiano la morte ogni giorno, a volte succubi di intere famiglie, molto spesso analfabete. Hambastagi fornisce loro protezione, ospitalità, assistenza legale e psicologica. Ci sono posti in cui le donne sono costrette a coprire ogni centimetro del loro volto con un burqa azzurro. “Perché non mostrate la faccia chiede Selay?”

Una di loro ironizza “Guarda, puoi vedere i miei vestiti, i bracciali”. Subiscono crudeltà di ogni genere, perfino l’educazione è proibita per loro. “Io le chiamo le donne blu – dice Benedetta Argentieri a ilfattoquotidiano.it – costringerle a usare il burqa vuol dire prima di tutto renderle invisibili, farle sparire”. Benedetta Argentieri da anni racconta quello che succede in Medioriente “Quando mi chiedono com’è essere una donna al fronte non riesco a capire perché ci sia sempre una disparità nella narrazione tra una donna e un uomo che sceglie, consapevolmente, di andare in una zona di guerra, come purtroppo dimostrata il dibattito italiano su Silvia Romano, a cui dedico un pensiero. La guerra non è una questione di genere, ma di violenza: purtroppo una bomba o un rapimento colpiscono sia un uomo che una donna”.

Nella sua carriera, la regista ha incontrato tante persone coraggiose, “la forza di queste tre donne è che con il loro percorso politico sono riuscite a costruire una comunità”. L’occhio privilegiato con cui le osserva è quello di un’italiana che vive a New York, e conosce dall’interno le contraddizioni politiche e le fragilità decisionali di una guerra, quella in Afghanistan, che dura da 18 anni: “Dal 2001 a oggi, l’Italia ha speso 12 miliardi per la guerra in Afghanistan.

E l’America circa 7 trilioni di dollari: più di quanto fu investito con il Piano Marshall per ricostruire l’Europa dopo il Secondo conflitto mondiale. La constatazione disarmante è che oggi in Afghanistan non c’è niente”. Attraversando i tre Paesi nei 75 minuti della pellicola, infatti, il panorama è quello che facilmente si immagina: macerie. L’operazione Enduring freedom – spiega la giornalista – è uno dei fallimenti più grandi degli Usa e la prova che va oltre l’evidenza è che nessuno è stato meglio da quando sono arrivati gli americani. Non sono riusciti a emancipare le comunità secolari fuori da Kabul, non hanno portato l’istruzione, nei villaggi mancano perfino acqua ed elettricità”.

E lo scenario diplomatico che si prospetta non è roseo: “Il tavolo di pace con i talebani annunciato dagli Usa – racconta la regista – non solo è una sconfitta, è un controsenso per gli stessi americani, che si trovano a dover trattare da una posizione immensamente più debole rispetto al 2002, dopo 18 anni di congelamento, una spesa enorme e risultati meno di zero”. Anche per questo ha deciso di raccontare le storie di chi prova a creare civiltà in mezzo al nulla: “Quando vai in questi posti, le rovine sono tutte uguali: è molto difficile dare un senso di distruzione all’esterno.

Eppure, nelle guerre ci sono dei vuoti che se riempiti come hanno fatto i curdi possono dare grandi risultati e quando Yanar, la protagonista irachena, dice che la rivoluzione della donna è la più difficile ha ragione: perché implica un cambio di mentalità e ti porta a scontrarti con tanti poteri diversi che forse l’emancipazione della donna non la vogliono neanche”.

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